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venerdì 31 gennaio 2020

I PROFESSIONISTI

513_I PROFESSIONISTI (The Professionals); Stati Uniti, 1966. Regia di Richard Brooks.

The Professionals è il curioso titolo scelto dal regista Richard Brooks per questa sua opera, una sorta di tardo western ambientato nei primi anni del 1900 ma girato, per certi versi, come un western classico. La fotografia calda, i paesaggi assolati, il canovaccio portante (gruppo di americani che deve liberare una donna rapita dai messicani), il carisma dei protagonisti, (Lee Marvin, Burt Lancaster, Robert Ryan e Woody Stroode); fin qui si potrebbe pensare ad un tipico film ambientato nella frontiera americana. Ma abbiamo già visto come l’ambientazione sia posteriore a quella canonica dei film sul wild west; e, quindi, per trovare una frontiera ancora davvero selvaggia, nei primi anni del XX secolo, bisogna infatti spostarsi nel Messico. Qui però le cose si fanno differenti perché, se è vero che in quegli anni il Messico era in violento fermento, quella violenza aveva però una forte matrice politica: quella della Rivoluzione di Villa e Zapata. Ed è in questo contesto che prende significato il titolo del film di Brooks: I professionisti. Gente cioè che fa qualcosa per professione, per essere pagata; per denaro, insomma. Quindi Brooks spedisce i suoi professionisti, potremmo forse definirli mercenari, ma suonerebbe troppo dispregiativo, in un ambiente dove il tema sociale è dominante. La questione non è solo ambientale: è vero che la scritta viva Villa! campeggia ovunque, ma il fatto cruciale è che i due prim’attori della spedizione, Bill (Lancaster) e Rico (Marvin) hanno combattuto per la rivoluzione proprio a fianco di quel Raza (Jack Palance) che ha rapito la moglie (Claudia Cardinale) di Mister Grant. La missione è: riportare Mrs. Grant dal marito. Nessun problema, il lavoro è lavoro, sembra pensare Rico, che è il capo del manipolo di uomini, e se Raza prima era un amico, adesso è un nemico. 

L’aspetto determinante è l’impegno preso, sebbene in cambio di un compenso economico: Bill, il meno professionale, ci prova, a far deragliare la spedizione per cercare un carico d’oro disperso, ma Rico è irremovibile, l’impegno è riportare la donna al marito. Una posizione, perciò, da vero professionista, tesa ad onorare il contratto stipulato: non sono più i doveri morali o etici, a fornire motivazioni all’eroe, ma la sua professionalità. Almeno finché Cupido non ci mette lo zampino: perché i nostri, gente che ammazza cavalli e cristiani, uomini e donne, e lo fa senza battere ciglio, quando scoprono che Maria, la moglie rapita, in realtà non è stata rapita ma è fuggita con Raza, l’uomo che ama, rescindono unilateralmente il contratto con Mister Grant, e appoggiano la fuga dei due amanti. E, se almeno secondo la logica dello spettatore, il loro potrebbe sembrare un comprensibile ravvedimento, la motivazione che invece forniscono per il loro dietro-front è strettamente legata alle false parole di Grant nel momento di stipulare l’accordo. Un accordo basato sulla menzogna non ha valore. 


C’è forse quindi un’etica, anche nell’essere professionisti, ossia che i patti devono essere chiari e non ci devono essere imbrogli? Un’etica del lavoro, dell’impegno professionale, quindi: è dunque una svolta sociale, quella che prende la storia raccontata da Brooks? E il fatto che avvenga in una storia messicana, e quindi rivoluzionaria quasi per statuto, è  una sorta di augurio che anche il professionismo americano si pieghi alle istanze sociali? Sarebbe bello e sarebbe anche un bel moto di evoluzione per i nostri professionisti; e pazienza se siamo ancora rimasti un po’ straniti a fronte della facilità con cui questi, specialmente Bill, hanno ammazzano chi gli si è parato davanti. 

Ma quella di Brooks sembra anche una riflessione su come l’evoluzione degli uomini d’armi del West, da semplici pistoleri dilettanti a professionisti, non ne abbia diminuito l’attitudine alla violenza come sistema per risolvere le questioni, anzi. Da qui si potrebbe anche dedurre qualche radice sulla politica estera che assumerà l’America nel corso del tempo, basata sul principio di forza e supportata con efficace  prontezza dall'azione militare.
Per quel che riguarda la messa in scena del film, Brook dirige con mano sicura e decisa come le zoomate con cui rimarca alcuni dettagli. In ogni caso, punti di ripresa sempre nel vivo e ad altezza uomo, perché si tratta di una storia soprattutto di uomini (e di una donna). Burt Lancaster è la solita faccia da schiaffi, ma scorazza magnificamente per tutto lo schermo; Lee Marvin è un leader militare altrettanto credibile rispetto alle sue note interpretazioni da pendaglio da forca. Sempre valido Jack Palance, e bravo anche Woody Strode, pur con uno spazio limitato. Relegato in secondo piano Robert Rayan, e di questo ce facciamo anche una ragione; ma la Cardinale forse poteva essere valorizzata un po’ meglio.
In conclusione? Un filmone.






Claudia Cardinale











Marie Gomez





       

mercoledì 29 gennaio 2020

FROZEN II - IL SEGRETO DI ARENDELLE

512_FROZEN II - IL SEGRETO DI ARENDELLE (Frozen II); Stati Uniti, 2019. Regia di Chris Buck e Jennifer Lee.

Sequel del capolavoro Disney degli anni 10 del terzo millennio, Frozen II – Il segreto di Arendelle si scontra, ovviamente sin dalle premesse, con quel pesantissimo termine di paragone. Viene da chiedersi, in questi casi, se valga davvero la pena scomodare un film quando è prevedibilissimo che il nuovo capitolo non si riuscirà ad eguagliare l’originale. In questo caso c’è però almeno un valido motivo (oltre a quello economico, che al cinema basterebbe di per sé) e si può riassumere in un'unica parola: Elsa. Il personaggio principale, protagonista insieme alla sorella Anna della saga di Frozen, è la suprema sintesi di tutta la storia eroica cinematografica, non solo d’animazione e non solo Disney anche se, ovviamente, è chiaro che incarni in modo più evidente questi canoni. Coinvolta in avventure in cui si sacrifica per il bene comune, è quindi l’Eroe della storia, di cui però ne è anche, almeno a livello di estetica narrativa, la Principessa, che nella consuetudine è invece l’oggetto della missione eroica. C’è quindi una coesistenza, nella sua persona, delle figure tipicamente maschili e femminili della tradizione, con l’attenzione al fatto che Elsa non rinnega, nemmeno in modo latente, il suo ruolo femminile in tema narrativo, di cui tiene ben stretta la sensuale presenza scenica. Ma la vera novità è che Elsa è anche la Regina, un ruolo spesso corrispondente alla cattiva della storia, e in cui rischia sempre di scivolare e che, non a caso, è proprio esplorato, sebbene in un altro piano, da questo secondo episodio. 

Infatti in Frozen II – Il segreto di Arendelle si scopre che, all’origine di questo florido periodo storico di Arendelle, c’è una sorta di peccato originale: la cattiveria perpetrata da Re Runeard, il nonno delle due ragazze protagoniste, ai danni dei Northuldra, una popolazione vicina e dalle conoscenze magiche. La sponda ecologista, presente da sempre in Disney e non certo legata alle mode del momento, si manifesta nella forma che assume questa opera malvagia che, nel film, è una diga. Il Re, che spacciava la diga come regalo per migliorare le condizioni di vita dei suoi vicini (metafora del progresso), aveva invece intendi dolosi e, in effetti, lo sbarramento artificiale avvelenerà la foresta, costringendola sotto un malefico incantesimo. 

Se Elsa incarna l’universalità tutta disneyana delle principesse, volendo guardare è prevalentemente Anna a sottrarre il ruolo ai vari eroi maschili del grande schermo della casa di Burbank. Il suo pragmatico intervento, che fa crollare la diga, è decisivo e risolutore e sarà quindi a lei che verrà concesso anche il posto di rilievo in società: sarà infatti la futura regina di Arandelle. In questo senso la Disney potrebbe sembrare darsi un’aria un po’ moderna, presentando cioè una figura femminile (Anna) in grado di fare quello che abitualmente fanno i suoi colleghi maschi: salvare il mondo lanciandosi in avventure fuori dalla propria portata riuscendo comunque nell’impresa. 

Interessante, certo, ma un po’ troppo politically correct, e comunque già visto in altri classici dello studio di Topolino (Mulan, Pocahontas); in ogni caso il tema fa’ la cosa giusta è sacrosanto. Ma, come detto, queste sono tracce secondarie, visto che il vero punto di forza di Frozen, sia uno che due, è prevalentemente incarnato da Elsa e dalla sua universalità: un concetto totalmente femminile, da sempre cavalcato dalla Disney. Il primo, mitico, classico è stato Biancaneve e i Sette Nani, poi Cenerentola inaugurò la golden age di cui La bella addormenta nel bosco rimane l’apice artistico; La sirenetta aprì il rinascimento degli anni ’90 e Frozen- Il regno di ghiaccio toccò un nuovo assoluto vertice. 

Naturalmente ci sono tantissimi capolavori anche sul versante maschile dei classici di Walt Disney, le storie dal tono più avventuroso ma, come si vede, i passaggi epocali sono affidati alle principesse e non è affatto un caso. Nel perenne contrasto tra civiltà e natura raccontato dai film della Disney, sono infatti le protagoniste femminili a far conciliare le due forze come, del resto, laddove c’è una principessa ci sarà giocoforza anche un principe e, quindi, anche su questo aspetto si può cogliere l’universalità di queste storie. Tutto questo è sublimato nella saga di Frozen dove le protagoniste sono addirittura due sorelle. E in realtà, la figura di Anna, nel suo divenire regina di Arendelle, virando cioè nel finale in un ruolo tipicamente femminile, acquista un maggiore rilievo: così le due sorelle incarnano ora natura e civiltà e il fatto che siano femmine universalizza il discorso anche in senso di genere sessuale. Come già in parte in Frozen – Il regno di ghiaccio, anche in questo nuovo capitolo manca il cattivo (un cattivo vero, di peso e qualità): là c’era Elsa ad assumersi certi aspetti di quel ruolo, in modo superlativo, in questo caso è il passato tecnologico della società (la diga) oltre a più banali istinti umani (l’avidità del Re) che sono però alla base del benessere della comunità. In sostanza è reso esplicito il concetto che il male è sociale, collettivo. 


Ovvero quello che, nel primo Frozen, si poteva già dedurre: se il male può insediarsi persino in un personaggio universale come Elsa, che oggi scopriamo essere addirittura il quinto elemento in grado di armonizzare  gli altri quattro (acqua, aria, terra e fuoco), allora ci riguarda tutti. E' probabile che sia questa completezza del carattere della bionda platino regina dei ghiacci a renderla estranea ai rapporti sentimentali, lasciati alla sorella da onorare. Una sua eventuale omosessualità, di cui si è sentito teorizzare, non trova particolari riscontri e sembra un'ipotesi posticcia ricercata in modo forzato. La protagonista di Frozen sembra volare assai più in alto rimanendo su concetti più universali: il che, visto il pubblico a cui si rivolge, è la dimostrazione di come alla Disney facciano il loro lavoro con serietà.
Naturalmente tutto ciò in un film divertente, spettacolare e godibilissimo anche se meno coinvolgente rispetto al capostipite. Frozen II- Il segreto di Arendelle insiste fortissimo sulla forma di film musicale: sembra una scelta logica, visto il successo della colonna sonora del primo episodio, ma forse vi si può leggere anche una strategia per parare un po’ le critiche in modo preventivo. Il musical è un genere che offre la possibilità di una vena astratta in molti passaggi, una soluzione ideale per dare un tono stiloso all’opera e cercare di non lasciare troppe sponde alle prevedibili critiche, sempre in agguato quando si possono intavolare scomodi paragoni.
Critiche che, in ogni caso, lasciamo volentieri ad altri lidi.


Anna



Elsa







lunedì 27 gennaio 2020

IL FIGLIO DI SAUL

511_IL FIGLIO DI SAUL (Saul Fia); Ungheria, 2015. Regia di Làszlò Nemes.

E’ sempre arduo l’approccio ad un film sull’Olocausto: è una tragedia immane, quindi difficile da maneggiare, sia per lo spettatore, ma ancor più per il regista. La componente storica è di una tale portata, che diventa complicato sovrapporvi un trama, un canovaccio, per rendere seguibile la pellicola; a meno di non fare un documentario storico, ma anche lì bisognerebbe capire se il mostrare semplicemente immagini può bastare a rendere efficacemente l’immensità dell’orrore dei lager. In ogni caso Il figlio di Saul non è certo un documentario storico. Il film, opera prima del regista Làszlò Nemes, è anzi qualcosa di diametralmente opposto: se un documentario dovrebbe dare una visione oggettiva, distaccata, quello di Nemes è un viaggio fianco fianco al protagonista, il Saul (Géza Röhrig, molto efficace nella parte) del titolo; anzi, più che a fianco, il film ce lo fa tallonare da vicinissimo, attaccati alle sue spalle o, in alternativa, proprio guardandolo sull’inespressivo volto, ma sempre a distanza ravvicinata. La scelta del formato 4:3 non ci lascia nessuno scampo: siamo a faccia faccia con Saul. L’idea di Nemes è, cinematograficamente, geniale: per mostrare quello che non è mostrabile, sceglie di puntare principalmente la macchina da presa non sui forni o sui corpi degli ebrei uccisi, ma sul volto di un testimone oculare. L’indifferenza apatica di Saul, la sua disumanizzazione, è resa magistralmente dalla messa in scena del regista, che non ci concede nessuna tregua, proprio come non erano concesse ai membri del Sonderkommando, sorta di collaborazionisti ebrei operanti nei lager di cui il protagonista fa parte. 

Non c’è nessuna storia da raccontare, in questo film; come Saul siamo costretti in un autentico inferno, e non c’è nessuna speranza, nessun fine da perseguire. Il tentativo di rivolta, che potrebbe avere un senso narrativo, viene vissuto con totale indifferenza da Saul, che ha però un sussulto quando si impone di dare degna sepoltura al corpo di ragazzo in un primo momento scampato alle camere a gas (e poi finito da un dottore nazista). Quel ragazzo per Saul diventa suo figlio, in un tentativo estremo di riprendersi un po’ di umanità, e un funerale un minimo degno di questo nome diventa più importante di qualsiasi ribellione armata.

L’apparente non-senso di quella scelta, sacrificare tutto per una cerimonia funebre, e quindi di scarso significato pratico, vale ancora oggi come monito: misurare tutto in termini di convenienza, può farci perdere la nostra umanità. E questo, alla fin fine, sarebbe assai meno conveniente di quanto ci possano apparire anche quelle spiacevoli conseguenze di alcune scelte che il nostro senso etico/morale dovrebbe sempre imporci. L’Olocausto, con i registri di Adolf Eichmann ben documentati e i conti in perfetto ordine, le teorie sulla soluzione finale, nella loro distorta ottica anche deduttive se non propriamente logiche, ma lo stesso fenomeno delle idee naziste, sviluppatesi nella culla della cultura legata alla ragion pura, sono tutti elementi che devono tenerci sempre in guardia.

La ragione, (e tutti i suoi derivati, buon senso, convenienza, e perfino una sua deviazione come l’opportunismo), deve essere sempre soggetta all’etica.
E’ un insegnamento validissimo nel nostro quotidiano. Certo, i tempi odierni, per quanto complicati non possono competere con quelli vissuti da Saul ma, di fronte a quello a cui assistiamo, la nostra indifferenza ha un velo che ricorda la sua prima della cruciale e salvifica scelta. 

   


domenica 26 gennaio 2020

I TRAFFICANTI DELLA NOTTE

510_I TRAFFICANTI DELLA NOTTE (Night and the City); Stati Uniti, Regno Unito, 1950. Regia di Jules Dassin.

Il maestro del noir Jules Dassin aggiunge un altro capolavoro al suo già ricco curriculum nel genere specifico (basti citare Forza bruta e La città nuda): I trafficanti della notte è un film che rende merito in maniera splendida al significato del termine nero in relazione a queste pellicole. Il protagonista della storia è Henry Fabian (un credibilissimo Richard Widmark), un intrallazzatore che cerca di farsi strada nel sottobosco della criminalità organizzata di una irriconoscibile Londra (a parte per qualche veduta da cartolina con il Big Ben, della capitale inglese non si vede che buio, ombre e atmosfere brumose). Fabian è, a conti fatti, l’eroe della nostra storia, ed è un individuo infido, losco, disonesto, ladro, bugiardo: ma se questi connotati possono essere anche accettabili quando si trova alle prese coi boss della malavita come Nosseross o Kristo, lascia davvero disarmati quando il nostro baldo giovanotto ruba i soldi risparmiati dalla splendida Mary (nientemeno che la divina Gene Tierney) ragazza onesta che sciaguratamente ne è innamorata. Fabian, comunque, non è proprio quello sfaccendato che sembra e che tutti quanti credono: dimostrerà una certa abilità nel gestire uomini e situazioni, anche se metterà in moto un meccanismo che non sarà in grado poi di gestire. Il punto di massima tensione di una pellicola cupissima è proprio quando i lottatori, per i quali Fabian vuole organizzare un match ma non può farlo apertamente senza sfidare il racket di Kristo, vengono fatti incontrare e aizzati dallo stesso Fabian: ne scaturisce un’incontrollabile lotta cruenta e senza regole che impressiona per la violenza delle immagini mostrate sullo schermo. 

Per giunta, uno dei due lottatori è Gregorius, ovvero proprio il vecchio padre di Kristo, che vince lo scontro ma perde la vita per l’enorme sforzo profuso. A quel punto il ras malavitoso non ci vede più, anche perché il padre muore senza essersi riappacificato con lui e, oltretutto, proprio su questi dissapori tra padre e figlio circa l’etica e l’onestà della vera lotta libera si era opportunisticamente inserito Fabian, che intendeva trovare il suo spazio. Fabian, inoltre, non contento di essersi messo tra padre e figlio di una famiglia mafiosa, nella continua ricerca di soldi, va ad alimentare anche i dissidi sull’altra sponda del Tamigi: inganna e truffa Helen, la donna di Nosseross, l’altro boss malavitoso. 

Helen acquista infatti da Fabian una licenza per un locale notturno (che si rivela falsa), con la quale lei pensa di mettersi in proprio e finalmente lasciare il grasso marito. Alla fine la matassa di bugie, menzogne, imbrogli viene al pettine e sono in troppi a voler togliere dalle spese il nostro Henry Fabian: primo fra tutti Kristo che mette una taglia sulla sua testa. Ormai senza più scampo, Fabian trova l’ultima geniale intuizione che possa ricompensare, almeno parzialmente, l’unica persona degna dell’intera storia: Mary cerca di salvarlo, ma lui esce allo scoperto e la accusa platealmente (e ingiustamente) di tradimento; che almeno le possa venir consegnata la ricompensa per averlo scovato.
Un tentativo, certamente tardivo e che non riscatta affatto una condotta di vita completamente censurabile, ma ci conforta almeno un poco: anche nella notte più buia, a volte si può scorgere una piccola scintilla di luce. 














Gene Tierney