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sabato 30 dicembre 2023

LE FILS DE TARASS BOULBA

1414_LES FILS DE TARASS BOULBA . Italia, Francia 1964; Regia di Ferdiando Baldi e Henry Zaphiratos

Nel 1962, in Italia, era uscito Taras Bulba, il cosacco e un paio d’anni dopo, in Francia, uscirà nelle sale una versione leggermente modificata del film di Ferdinando Baldi.
Le differenze sono minime e non cambiano la sostanza di quanto già detto per l’edizione italiana [vedi post Taras Bulba, il cosacco. ]
Si può, semmai, osservare come, né questa versione, né la precedente, e nemmeno quella hollywoodiana di J. Lee Thompson [vedi Taras il magnifico saranno al tempo proiettate nei cinema ucraini.

Taras Bulba sul grande schermo rimaneva quindi ancora una sorta di tabù, per la terra natia, mentre in occidente, tra il 1924 e il 1964, si potevano contare almeno sei trasposizioni, realizzate nei principali paesi produttori di cinema. Tra questi, la Francia era stato il più attivo, con due co-produzioni, con Regno Unito e Italia, che davano come risultato due film di cui poter vantare la paternità. L’attenzione francese al romanzo di Gogol’ venne ribadita ulteriormente dall’adattamento televisivo del 1965 sul canale ORTF, per la regia di Alain Boudet, nell’ambito del programma “Théâtre de la jeunesse” di Claude Santelli. Lo sceneggiato è un’operazione sperimentale, scevra dagli elementi spettacolari e concentrata sul contrasto tra i due personaggi, il bellicoso Taras e l’idealista André.  



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giovedì 28 dicembre 2023

TARAS BULBA, IL COSACCO

1413_TARAS BULBA, IL COSACCO . Italia, Francia 1962; Regia di Ferdiando Baldi.

Gli anni Sessanta rappresentarono, per l’Italia, un punto di svolta anche dal punto di vista cinematografico, con il boom economico del famoso Miracolo Italiano che induceva il pubblico a passare oltre alle miserie nazionali, magistralmente illustrate dal Neorealismo. Era il momento del cinema di genere e, prima che le versioni italiane di western, gialli e thriller, prendessero la ribalta, furono il gotico, il peplum e, più in generale, i film storici, ad aprire la strada. Ferdinando Baldi si era già cimentato in qualche opera di questo tenore, affrontando temi biblici, leggendari e storici e, nel 1962, si mette alla prova con l’epica cosacca dello scrittore Nikolaj Gogol’, Taras Bul’ba. La produzione del film, nella penisola intitolato Taras Bulba, il cosacco, è italo-francese e il produttore transalpino, Herni Zaphiratos, quando deciderà di distribuire l’opera in patria, confonderà strumentalmente un po’ le acque per lasciar intendere che, in quel caso, si trattasse di una pellicola totalmente nuova. Nel 1964, infatti, in Francia, uscirà nelle sale Le Fils de Taras Boulba, in buona sostanza lo stesso lungometraggio di Baldi, ma spacciato per un’opera diretta da Zaphiratos. Il film si lascia vedere con sufficiente trasporto, pur non essendo certamente un capolavoro della Settima Arte. La prima cosa che salta all’occhio è il paragone con il coevo Taras il magnifico, produzione hollywoodiana dello stesso anno. Ovviamente di primo acchito lo scotto in termini di resa scenica è tremendo, per il film europeo, essendo quello di J. Lee Thompson un colossal a tutti gli effetti. Tuttavia, restando nel confronto, Taras Bulba, il cosacco si lascia forse preferire per una migliore adesione al testo di Gogol’, autore del libro preso a soggetto. Non è che sia un merito a prescindere, rispettare un testo come fonte di ispirazione, questo è evidente, ma è un elemento certo che il letterato russo aveva calibrato il suo narrare –con le necessità dell’epoca, come è ovvio– ma il racconto mostra tutt’oggi un suo equilibrio. Il film con Tony Curtis e Yul Brynner, per rendere digeribili alcuni passaggi ad un pubblico diverso, enfatizza alcuni elementi che, a vederli oggi, appaiono un po’ fuori luogo. In sostanza, nella sua povertà di mezzi a disposizione, la produzione franco-italiana ricorda forse in modo più convincente il passato dell’epoca rievocata dai fatti; il che è clamoroso, considerato la bellezza delle immagini della pellicola americana. Eppure, le scene girate nella desolata landa innevata, probabilmente vicino a Zagabria, nell’ex Jugoslavia, accompagnate dal valido commento sonoro, di Guido Robuschi e Gian Stellari che, in qualche frangente, riecheggia le melodie che diverranno caratteristiche negli spaghetti western, reggono perfettamente il confronto e forse, come detto, si lasciano addirittura preferire. 

Tra gli interpreti, bene Vladimir Meda, nel ruolo di Taras Bulba, mentre tanto Jean-François Poron, nel ruolo del figlio Andrei, che Lorella De Luca, in quelli della principessa Natalia, lasciano il dubbio di avere un aspetto troppo attuale. Questo è, per la verità, un limite già visto altre volte, in questo ambito, e uno degli esempi più clamorosi è proprio Tony Curtis nel ruolo di Andrei nella citata versione hollywoodiana. Forse, è proprio la necessità che il figlio del protagonista sia un uomo più moderno del vecchio cosacco, ad indurre gli autori ad enfatizzare eccessivamente la differenza. Rispetto al romanzo originale, la trama subisce numerosi aggiustamenti, sebbene, almeno a grandi linee, l’idea di Gogol’ venga rispettata. Tra le modifiche si nota subito una relativamente maggior importanza data alla madre di Andrei che qui si intrattiene, almeno nelle fasi iniziali, col figlio. Inoltre, è completamente rielaborato lo sviluppo dall’assedio al castello di Dubno, con Andrei che vi viene fatto prigioniero dai polacchi, riuscendo in seguito a fuggire. La battaglia, intanto, volge a favore dei cosacchi, al punto che il principe polacco invoca pietà, chiedendo che vengano risparmiati donne e bambini. La richiesta di Taras Bulba, come baratto, è spiazzante: il capo cosacco vuole Natalia, la principessa, per farne una schiava. A questo punto subentra la volontà ribelle di Andrei che prende la ragazza e si rifugia con lei nel castello, peraltro ancora sotto assedio. Va detto che, per quanto l’opera di Gogol’ non abbia bisogno di aggiustamenti, in quanto l’epica che trasuda dalla sua prosa rende credibile qualsiasi cosa, la scelta di Baldi, almeno per quel che riguarda la “sua” messa in scena, è anche plausibile. 

Il tradimento del secondogenito di casa Bul’ba nell’originale era, se preso alla lettera, forse un po’ troppo repentino e scarsamente comprensibile. Naturalmente Gogol’ se ne serviva per far ricercare altrove, rispetto ad una scelta razionale e ben motivata, lo sprone all’azione di Andrij: era infatti il folle amore intriso di romanticismo idealizzato a spingerlo al tradimento della sua gente. In mancanza della capacità di dare corpo in modo così vibrante alla storia e ai suoi protagonisti, andavano trovate delle motivazioni più accettabili per lo spettatore cinematografico, e le scelte degli autori di Taras Bulba, il cosacco, seguono in fondo questa condivisibile idea. Per quel che concerne il punto cruciale della vicenda, ovvero l’assassinio di Andrij per mano paterna, Baldi ammorbidisce almeno un poco il passaggio. Taras uccide il figlio nel corso della battaglia, per quanto lo prenda di mira con estrema calma, e con arco e freccia anziché il più “freddo” piombo delle armi da fuoco. La principessa era morta poco prima, anch’essa colpita da una freccia cosacca, e i giovani si congiungono quindi in una romantica morte. Taras, peraltro, rivendica il suo ruolo centrale e, prendendo il cadavere del figlio tra le braccia, prova a convincere il pubblico del XX secolo delle sue ragioni: “l’ho ucciso, solo perché lo amo”, proclama, lasciandoci comunque atterriti. Tra le curiosità di questa trasposizione del romanzo di Gogol’, si può citare anche una novità nel valzer delle alleanze, che, per questo testo, cambiano da versione a versione: nel romanzo si parla della promessa di non belligeranza fatta dal vecchio etmano koševoj, il leader cosacco, ai tartari, mentre nel film di Lee Thompson troviamo i polacchi alleati a più riprese coi cosacchi. In Taras Bulba, il cosacco, sono invece polacchi e tartari ad allearsi in ottica anti-cosacca e, questo, si può azzardarsi a scommetterci, sarebbe un’idea che avrebbe l’approvazione perfino di Nikolaj Gogol’. 


Lorella De Luca 


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martedì 26 dicembre 2023

THE REBEL'S SON

1412_THE REBEL'S SON . Regno Unito 1938; Regia di Adrian Brunel, Albert de Courville e Alexis Granowsky.

Come già per il precedente Le notti moscovite (1934) anche il successivo film di Alexis Granowsky, Taras Bulba (1936), finì per meritarsi una versione inglese. Il cinema sonoro era, negli anni 30, ancora agli inizi e rigirare interamente un film per proporlo in paesi di lingua diversa, evidentemente, doveva sembrare una soluzione valida: la versione originale era francese e, anche in questo caso, come nel precedente citato, il protagonista era Harry Baur che conserverà, il ruolo anche nel remake londinese. Il monumentale attore nato nei sobborghi parigini, nel film di Granowsky era stato un Taras Bulba convincente e, seppur chiamato a ripetere lo stesso ruolo, in questo caso non riesce che a proporne la sbiadita copia. Ma è tutta quanta l’operazione prodotta da Alexander Korda a segnare il passo: significativo, tra l’altro, che il cineasta di origine ungherese non figuri a nessun titolo nei credits di The rebel’s son, lasciando ad altri l’ingrato compito di assumersi la paternità dell’opera. Tra questi viene segnalato spesso, come regista, lo stesso Granowsky che, per la verità, sembra essere citato solo per via delle scene riutilizzate della versione francese. La firma più significativa in calce a The rebel’s son è quella di Adrian Brunel, autore anche degli aggiustamenti voluti per questa nuova versione che differisce sia dal romanzo di Nikolaj Gogol’ che dal citato film di Granowsky. Accentuando la scelta di quest’ultima opera, The rebel’s son, come esplicitato sin dal titolo, aumenta l’importanza di Andrew, questo il nome del secondogenito nella versione inglese, a discapito proprio del padre. Purtroppo, nessuno degli interpreti scelti per The rebel son riesce a lasciare il segno: la prova in tono minore di Baur non è compensata né da Anthony Bushel –è Andrew, il “figlio del ribelle” del titolo– né tantomeno che da Roger Livesey –il primogenito, qui chiamato Peter– sono due giovanotti troppo puliti e raffinati per interpretare personaggi che, pur se educati in una scuola polacca, provengono pur sempre dalla selvaggia steppa ucraina del XVI secolo. In effetti la loro istruzione, recepita per altro in modo diverso dai due fratelli, è un elemento che sia la versione francese che il remake inglese approfondiscono un poco rispetto al romanzo di Gogol’. La pur breve sequenza di congedo alla scuola di Kiev è l’incipit del film di Granowky del 1934, relegando Taras Bulba a comparire solo dopo una decina di minuti, per quanto, in una divertente gag nella quale decapita manichini che rappresentano i nemici dei cosacchi, i tartari e i polacchi. Brunel, per la versione del 1936, utilizza proprio questa divertente scena per aprire il suo film, ristabilendo l’ordine di comparizione del romanzo, che si apre sulle parole di Taras. Ma proprio l’utilizzo di questa scena, unitamente a quella in cui Andrij/André/Andrew si cala nella cappa del camino della principessa polacca per un appuntamento galante e clandestino, lasciano intendere che il tono degli adattamenti cinematografici europei è assai più leggero rispetto a quello del romanzo. In effetti la scena in cui Andriy si introduce furtivamente nella camera della ragazza del cuore è un passaggio trascurabile, nel romanzo, che prende presto toni assai più seri. 

Diversamente, la scelta della produzione cinematografica inglese riprende quella francese, dando anche un certo spazio alle ragazze della storia: purtroppo, Patricia Roc –nel ruolo di Marina, la principessa polacca, di cui si innamora Andrew– è graziosa ma incide tutto sommato poco e anche Joan Gardner –la fidanzata cosacca di Peter– non riesce a farsi ricordare. Tuttavia, a smorzare eccessivamente i toni epici della storia –vanificando anche gli sforzi degli interpreti, che non sembrano per la verità, molto concreti– è la deriva umoristica, davvero troppo invadente. Il testo di Gogol’, in genere scrittore con una spiccata vena grottesco-satirica, stavolta è poco incline all’umorismo, proteso piuttosto a creare un clima tragico-epico. Brunel, nel suo adattamento, coglie invece ogni occasione per denigrare, o quantomeno trattare con malcelata paternalista sufficienza, i cosacchi e i personaggi del racconto. Il Taras Bulba del suo film è un individuo folcloristico, e la prestazione di Baur non riesce ad elevarne il rango, i suoi figli due bellimbusti impomatati capitati nella steppa ucraina per puro caso. Quanto agli altri, basti prendere la figura del cosacco balbuziente, protagonista di un paio di gag di grana piuttosto grossolana, per capire la solfa. Un altro passaggio smaccatamente umoristico nei due film è la scena della lettera al capo dei Tartari, che ha i toni della commedia se non del film comico: il riferimento è storico sebbene venato di leggenda. 

Durante la guerra russo-turca del 1676, pare che i cosacchi, dopo aver sconfitto i nemici, ricevettero la richiesta di resa da parte del sultano Mehmed IV. L’atto della stesura della loro risposta, una sequela di coloriti insulti intrisi da velenosa ironia, è il soggetto per due splendidi quadri di Il'ja Efimovič Repin (I cosacchi della Zaporižžja scrivono una lettera al sultano Mehmed IV di Turchia, 1880/1891 e 1890). Seppure ci sia della simpatia, per la ribalda spavalderia cosacca, non c’è oiu molta comprensione per la loro condizione, che, nel film di Brunel sono perlopiù considerati come una banda di ubriaconi molesti. Del resto la didascalia iniziale è piuttosto chiara quando dice esplicitamente che i cosacchi non sono assolutamente disposti a smetterla con le loro scorrerie e i saccheggi, ed è per questo che non accettano la pace e l’ordine imposti dai polacchi. Questi, in più di un dialogo, fanno riferimento agli abitanti della steppa ucraina come ad un branco di bambini capricciosi, pericolosi soprattutto quando si ubriacano, cosa che accade troppo spesso. La questione dell’alcolismo dei cosacchi emerge in modo spiazzante anche in un dialogo drammatico, durante l’assedio al castello, una delle fasi cruciali della storia. I cosacchi sono sul piede di guerra in quanto i polacchi hanno proibito loro di bere vodka e, per cominciare, hanno messo sotto assedio il castello che si preparano ad assaltare. Una notte viene catturato un soldato polacco che, spinto dalla fame, si aggira per l’accampamento: sospettato di essere una spia, l’uomo si difende accusando i cosacchi di affamare gli abitanti del castello, donne e bambini compresi. La replica del cosacco è lapidaria: “e tu ti spetti che diamo il cibo alla tua gente, dopo che ci avete negato il bere [la vodka]?” Con queste premesse, è impossibile che il tragico epilogo ideato da Gogol’, con Taras Bulba che uccide a sangue freddo il figlio traditore, possa reggere e, in effetti, nel film inglese la scena non è certo memorabile. La scena con le ombre che passano sul faccione di Baur è la stessa bella scena che funzionava simbolicamente nel film di Granowsky ma, in questo caso, sembra un po’ estemporanea. Anche la morte del condottiero cosacco è depotenziata rispetto al precedente francese e The rebel’s son si chiude, sostanzialmente in modo mesto e dimesso. Nel complesso, il film potrebbe ambire a salvarsi in qualche modo appellandosi alla sua deriva umoristica, se non fosse che l’impressione è che sia in prevalenza di tipo denigratorio e, quindi, più che divertente, fastidiosa.




Patricia Roc 


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domenica 24 dicembre 2023

TARAS BULBA (1936)

1411_TARAS BULBA (Tarass Boulba). Francia, Regno Unito 1936; Regia di Alexis Granowsky.

Pierre Benoit ai testi, Alexis Granowsky in regia e Harry Baur a guidare il cast, avevano già fatto grandi cose in Le notti moscovite (Les nuits moscovites), film francese del 1934, e si ritrovano due anni dopo per un nuovo lungometraggio di ambientazione russa. In effetti Granowsky conosceva bene il tema, essendo nato a Mosca nel 1890: in gioventù aveva però lavorato anche all’estero, con Max Reinhardt, il famoso regista austriaco, in quel di Monaco di Baviera. Tornato in patria, nonostante il potere sovietico, insediatosi dopo la Guerra Civile, gli tributò riconoscimenti per la sua capacità di regista teatrale, Granowsky, abituato alla condizione artistica europea, cominciò a mal sopportare le troppe limitazioni imposte dal regime. Si spostò quindi di nuovo in Germania, in quella che, all’epoca, era nota come Repubblica di Weimar, e dopo qualche anno in Francia, mentre acuiva maggiormente il suo interesse verso il cinema. Con il citato Notti moscovite, Granoswky aveva già raccontato della sua terra natia ma, per il successivo lungometraggio, sceglieva di prendere come spunto addirittura uno dei capisaldi della letteratura russa. Pierre Benoit, l’importante autore del soggetto di Notti moscovite, in questa circostanza venne chiamato, infatti, solo in veste di sceneggiatore, per adattare il classico di Nikolaj Gogol, Taras Bul’ba. Da un punto di vista della funzionalità dell’opera, fu certamente una scelta felice, seppure potrebbe far storcere il naso ai puristi, fautori delle trasposizioni fedeli “alla lettera” delle opere scritte. Benoit si prese più di una libertà, nell’adattamento del romanzo di Gogol’, tanto che il Taras Bulba di Granowsky può essere considerato più un film francese degli anni 30 – come in effetti è – piuttosto che un’opera che rispetti la sua matrice originaria slava. Ma non si tratta di un limite: la vicenda raccontata da Gogol’ ha una tale forza primordiale da fungere da spunto epico valido ovunque, e non solo in patria, un po’ come accade per tutte le avventure di quel tenore, si prenda il cinema western a titolo di esempio. I cosacchi, con tutte le loro peculiari e affascinanti caratteristiche, sono personaggi ideali per questo scopo, e certo lo scrittore ucraino li aveva scelti proprio per questo, per agevolare la valenza epica del suo racconto. Il protagonista del film di Granowsky è il possente Harry Baur, probabilmente, a tutt’oggi, il miglior Taras Bul’ba mai apparso sullo schermo. 

Baur era un attore strepitoso, in assoluto uno dei più illustri della Storia del cinema francese: la sua performance aveva fatto la differenza in Notti moscovite tanto che, al tempo, l’attore transalpino era stato chiamato a recitarla anche nella versione inglese, Moscow Nights (1935, regia di Anthony Asquith) dove era stato, ancora una volta, il mattatore. Il suo Taras Bul’ba, per quanto enfatizzato, è un personaggio assolutamente credibile, istrionico, potente, vigoroso, caratteristiche tipiche dei cosacchi ma anche primordiali e, quindi, comuni, in misura minore o maggiore, a tutta l’umanità. E a questa radice ancestrale si appella Baur per dare linfa alla sua esuberante interpretazione, cogliendo, anche stavolta, nel segno. Ma in Europa, e specificatamente in Francia, a destare maggior attenzione era più che altro un aspetto della trama del libro di Gogol’, ovvero la storia d’amore tra il secondogenito di Taras, per questa occasione ribattezzato André in luogo di Andriy, e Marina –principessa che trovava finalmente un nome– in quanto polacca, nemica dei cosacchi. Se l’interprete nel ruolo di André, Jean-Pierre Aumont –al tempo discretamente noto– rende già in parte l’idea dell’importanza di questa traccia, l’attrice scelta per la controparte femminile toglie ogni eventuale dubbio nel merito. Una diciannovenne Danielle Darrieux, nel ruolo della principessa polacca, quando appare sullo schermo, è la degna antagonista di Taras/Baur, a cui ribatte, con sublime grazia e bellezza, la brutale vitalità. La Darrieux in Taras Bulba è una vera bambola di porcellana e, se le manca, forse, quello charme che la renderà indimenticabile nei film di Max Ophüls, lo compensa con la fresca ingenuità civettuola tipica della giovinezza. 

La raffinata bellezza di Marina, nel film, rappresenta quindi il fascino dell’occidente, a cui molti slavi, ucraini o russi che siano, sono soggetti, esattamente come André, che arriva a tradire la causa cosacca. Di contro, i valori dei popoli della steppa sono ben interpretati da Taras: coraggio, lealtà, audacia, caratteristiche che non mancano nemmeno al più giovane dei figli del protagonista, ma che sono più salde nel primogenito Ostap (Roger Duchesne). Questi segue infatti maggiormente le orme paterne ma si può osservare come i francesi, probabilmente, fatichino a comprendere l’ideale di vita cosacco di Taras, visto che, accanto a Ostap, troviamo costantemente Galka, che la vivace bellezza di Janine Crispin mette sempre in risalto rispetto al compagno. Il tema femminile, in senso apertamente denigratorio, è utilizzato già dal racconto di Gogol’, con i due figli che, quando tornano dalla scuola di Kiev, vengono presi in giro dal padre per le vesti che somigliano a sottane. L’autore sottolinea come il cuore della vita cosacca sia la Sič di Zaporižžja, luogo precluso alle donne, e non la casa o il paese, dove madri, mogli e figlie rimangono ad attendere i mariti nel caso non abbiano trovato l’ambita morte sul campo di battaglia. Nel romanzo, la principessa è lasciata senza nome da Gogol’, probabilmente per sancirne la misera importanza. Tra l’altro, ad un certo punto, verso la fine del racconto, sembra quasi che l’autore si sia scordato del suo personaggio, abbandonato senza che la sua vicenda, comunque cruciale per lo sviluppo della storia, abbia una minima “chiusa”. La scena del fratello della principessa che, alla penultima pagina, si sfracella sugli scogli del fiume Dnestr inseguendo i cosacchi in fuga, sembra quasi messa lì per scongiurare questo dubbio. Ma senza nemmeno tirarla direttamente in ballo, confermando quindi che la posizione “intellettuale” dell’autore in merito è più allineata a quella di Taras piuttosto che a quella di Andriy. Tornando al film di Granowsky, Marina, con la sua bellezza muliebre, rappresenta lo specchio dell’influenza occidentale che, non a caso, colpisce maggiormente il secondogenito di casa Bulba, ovvero quello che si applicava maggiormente negli studi. 

Nell’interpretazione francese –nonostante il film sia diretto da un regista russo la produzione è comunque transalpina– anche Ostap è soggetto all’influenza di una donna, ma Galka, per quanto bella e graziosa, si comporta sostanzialmente come un vero cosacco. Oltre a garantire un certo schematismo nella struttura narrativa, questa scelta permette di avere sempre –o quasi– una ragazza attraente sullo schermo, condizione che i produttori francesi sapevano bene essere cruciale nell’economia del successo di un film. In ogni caso, se la moglie di Taras è assente, per i suoi due figli, la compagnia femminile è l’elemento determinante: se è Marina a “corrompere” André, al contrario, Galka consolida l’attitudine cosacca di Ostap. Per quanto concerne la trama, il Taras Bulba di Granowsky rispetta almeno a grandi linee il canovaccio del racconto di Gogol’. Il passaggio cruciale, il brutale assassinio di André da parte di Taras, lascia sempre sbalorditi e atterriti, in questo caso anche lo stesso vecchio cosacco, a cui Harry Baur, in effetti, regala un bel passaggio emozionante sul piano intimo, sintomo di una levatura morale forse perfino sconosciuta al personaggio del romanzo. Ma il pezzo forte, da consumato attore, Baur lo sfodera nel finale, prima del quale ci sono, ad onor di cronaca, un buon paio di momenti d’azione dove le libertà della trama si fanno più evidenti, rispetto al soggetto di Gogol’. La battaglia che segue l’assedio al castello di Dubno, è il primo passaggio adrenalinico, mentre più originale è l’incursione per liberare Ostap, un attimo prima della sua esecuzione. Nella concitazione successiva, Taras viene ferito a morte; e il massiccio cosacco sembra doversi spegnere lentamente, tra la commozione generale, dei presenti e anche degli spettatori che, complice la regia di Granowsky, devono essersi già dimenticati di come quest’uomo abbia spietatamente freddato André. Il momento sembra lirico, l’addio al vecchio eroe che ha salvato il figlio, quello bravo, quello che è un vero cosacco e che ora gli è vicino, mentre il padre trova finalmente un po’ di quiete. Gli occhi del vecchio cosacco sono lucidi, le boccate di fumo, che aspira dalla pipa, si fanno via via più rade, perfino la musica (di Paul Dessau e Joe Hajos) che ha sorretto fin lì la narrazione con grande trasporto emotivo, sembra chetarsi.  Ma ecco che Baur tira fuori un suo tipico colpo di teatro e ha un ultimo, letterale, ruggito: il leone può anche morire, ma mai domo.



 Danielle Darrieux 





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venerdì 22 dicembre 2023

FEBBRE DI VIVERE

1410_FEBBRE DI VIVERE (A Bill of divorcement). Stati Uniti, 1932; Regia di George Cukor.

Già nel 1970, durante le conversazioni che prenderanno corpo nel prezioso tomo On Cukor (1972, di Gavin Lambert), il regista di origine ungherese non aveva molto da obiettare sul fatto che Febbre di vivere risultasse datato. In effetti, è ben credibile che l’ambientazione nell’alta borghesia anglosassone, dai modi tanto garbati e dalle dichiarazioni struggenti tra innamorati, sia rapidamente passata di moda, al punto da sembrare un po’ stucchevole già mezzo secolo fa. Tuttavia il soggetto di evidente ambizione teatrale di Clemence Dane, A Bill of Divorcement, ha una tale struttura che, a suo modo, lo mantiene interessante ancora oggi. Non siamo di fronte ad un film d’azione e, di conseguenza, la trama è ovviamente ridotta al minimo, ciononostante la sceneggiatura prevede almeno un significativo episodio che cambia l’intera prospettiva del racconto, costringendo i personaggi ad adeguare i propri sentimenti, intimamente o nelle dichiarazioni di facciata. E chi meglio di George Cukor, dietro alla macchina da presa, poteva trasformare un simile valzer delle emozioni in un film, nel complesso, tutt’ora appassionante? Forse nessuno, dal momento che Cukor venne definito ‘il regista delle donne’ e qui, al centro della scena, sono i sentimenti di Margareth (una deliziosa Billie Burke) e di sua figlia Sydney (Katharine Hepburn, al suo debutto sullo schermo). La madre ha appena divorziato da Hilary (John Barrymore) tornato dalla Prima Guerra Mondiale fuori di senno in seguito ad uno scoppio di una granata e rinchiuso in un manicomio. Margareth vuole risposarsi con Gray (Paul Cavanagh), con il quale ha scoperto l’amore: ai tempi, il suo matrimonio con Hilary era stato un azzardo. 

Dopo tutti questi anni di lontananza, lei a casa a crescere Sydney, lui prima in guerra poi nella struttura ospedaliera, si era scoperta a non amarlo più. Anzi, il paragone con la passione che provava per Gray, l’aveva convinta che, in effetti, non aveva mai amato suo marito. Già qui è evidente come il personaggio interpretato da Billie Burke sia abbastanza tormentato e l’attrice è molto brava a darle una tridimensionalità passiva e un po’ indolente, quasi che la donna subisse queste emozioni più che provarle. Ma i punti di forza del film sono ancora da scoprire: innanzitutto nel colpo di scena della trama, con il ritorno a casa di Hilary del tutto rinsavito e ignaro del divorzio a cui è stato sottoposto. L’uomo ha una vena artistica, è compositore di musica, e John Barrymore se la cava egregiamente nella parte di un tipo un po’ naif che non vuole mollare la sua sposa che ha sognato di riabbracciare per anni. Il suo ingenuo attaccamento ai ricordi, a sentimenti ormai sbiaditi, coglie in contropiede Margareth, che sarebbe stata maggiormente scossa dal suo tipico aplomb, se l’uomo avesse dato in escandescenze. Ovviamente in qualche frangente il rischio c’è, ma Hilary sa che sul suo capo pende la concreta ipotesi di venire rinchiuso nuovamente, se dovesse risultare pericoloso. Da parte sua, la Burke è ancora bravissima a rendere i tumulti interiori, i sensi di colpa e la mancanza di coraggio di Margareth mentre Gray, impaziente, la esorta a tagliare la corda con lui. 

Ma il vero piatto forte del film è la prestazione di Katharine Hepburn. Kate, esordiente sullo schermo ma già avvezza a calcare i palcoscenici teatrali, si trova alle prese con alcuni passaggi non semplici. Ad esempio, deve condensare in una singola scena, l’emozione di trovarsi di fronte un padre che non ha mai conosciuto e che le si para d’innanzi all’improvviso. Tra le cose che deve centrifugare la sua capacità interpretativa ci sono: la scarsa stima che il suo personaggio ha dell’uomo; al quale, per altro, la madre le imputa di somigliare; il fatto che il padre non sia al corrente del divorzio appena ottenuto da sua moglie e, quindi, il suo ritorno a casa risulti, per assurdo, inopportuno; finanche la scoperta che la pazzia del genitore non è legata allo scoppio di una bomba ma è una tara genetica, della quale lei stessa può essere soggetta. In aggiunta a ciò, Sydney si era appena promessa sposa a Kit (David Manners), con il quale aveva poi pianificato una vita domestica piena di marmocchi; la consapevolezza di avere in dote una tara ereditaria poneva la povera ragazza di fronte ad un altro problema mica da ridere. In effetti, il soggetto del film è perfino esagerato, in fatto di elementi struggenti, ma l’equilibrio è comunque trovato dalle forze che bilanciano sapientemente questi eccessi. A partire dalla citata ambientazione alto-borghese d’epoca, ben incarnata dal registro interpretativo di Billy Burke, e amalgamata dall’ironia di quello di John Barrymore. Cukor, in cabina di regia, volteggia leggiadro sul palcoscenico virtuale che finisce impresso sullo schermo, con la consueta calcolata misura. Infine Kate Hepburn sfodera fin da subito la proverbiale classe, un misto di carattere indomito e ribelle e fragilità ribollente che viene sì contenuta e alla fine soppressa, ma a fatica. E non senza aver prima illuminato lo schermo. 



Katharine Hepburn 




Billie Burke 


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