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sabato 27 aprile 2024

IL GUSTO DEL PECCATO

1473_IL GUSTO DEL PECCATO (A Taste of Evil). Stati Uniti 1971; Regia di John Llewellyn Moxey.

Martedì 12 ottobre 1971, esattamente sette giorni dopo L’ultimo bambino, un altro film di John Llewellyn Moxey è il Movie of the Week trasmesso dalla ABC: è Il gusto del peccato ed è un vero capolavoro. Moxey torna all’horror con cui aveva esordito in questo format un anno prima, con il pregevole La casa che non voleva morire con il quale, oltre al genere, Il gusto del peccato condivide anche la protagonista, Barbara Stanwyck. The Queen, come veniva giustamente chiamata Barbara, aveva 64 anni e sfodera una prestazione magistrale: Moxey in regia la asseconda permettendo alla diva di sciorinare tutto il suo fascino anche se in una declinazione più subdola e malsana che sexy. Miriam Jennings, il suo personaggio, per quasi tutto il film sembra una madre preoccupata, oltre che una vedova serenamente rassegnata ad un secondo matrimonio in declino. E fin qui la Stanwyck procede con la proverbiale classe; ma, quando, nel finale, deve mostrare il vero volto di Miriam, l’attrice cambia passo ed è addirittura insuperabile. La sequenza in cui dovrebbe essere finita nel ruolo della vittima e si aggira sola nella casa, in una notte in cui infuria un tremendo temporale, minacciata da uno sconosciuto, è strepitosa. Moxey ripresenta qui le scene che avevano visto la figlia di Miriam, Susan (Barbara Parkins) nel ruolo della fanciulla in pericolo, per un atipico ribaltamento della situazione. Il film, infatti, si appoggia ai tanti cliché di quel filone del genere horror con personaggi che hanno avuto traumi infantili che ritornano a perseguitarli una volta adulti. Susan, vittima di violenza quand’era ragazzina nell’incipit del film, rivive le scene del suo trauma una volta tornata a casa e, successivamente, è sua madre a trovarsi nella medesima situazione, nella sequenza citata. In questi passaggi, dall’originale stupro alle rievocazioni posteriori – naturalmente per nulla esplicite, essendo un prodotto televisivo – le scene e perfino le battute si ripetono pedissequamente. 

Quando sarà la volta della Stanwyck, la sua magnetica forza permette di piegare i cliché narrativi specifici alla bisogna senza stravolgerne il senso. Miriam, infatti, è spaventata ma è anche più che determinata ad eliminare chi si frappone tra sé e il suo scopo e quindi imbraccia la doppietta e se va anche sotto un diluvio torrenziale pur di saldare il conto a chi le si para davanti. In effetti, con un efficace gioco cromatico, se Susan scappava terrorizzata vestita dalla tipica candida vestaglia svolazzante, Miriam ha un altrettanto leggero abito da notte ma di un acceso rosso fuoco. Al di là della sbalorditiva interpretazione della Stanwyck, Il gusto del peccato è un film notevole e volendo restare in tema di attrici va detto che anche Barbara Parkins è eccellente nel ruolo della ragazza che si trova a tu per tu con i propri traumi infantili che riaffiorano. Il racconto ha, come accennato, una sorta di prologo nel quale Susan venne violentata e poi, dopo un salto temporale di sette anni nella quale la ragazza si è curata in Svizzera, la vediamo tornare nella sua grande casa alla periferia di San Francisco. Splendida residenza, fuor di dubbio, ma adatta anche per ambientarci un film horror: specialmente se nella casetta dei giochi appena dentro il parco ci hanno violentato una ragazzina. Del resto Moxey sa bene che nei film televisivi bisogna badare al sodo perché il tempo è giusto per raccontare una storia efficace che non si perda in troppi preamboli. Ed è così che in pochi minuti la nostra Susan è bersaglio di una serie di scene terrorizzanti che lasciano intendere che Harold (William Windom), il secondo marito di sua madre, sia colui il quale l’aveva brutalizzata al tempo e adesso voglia turbarla ancora, sebbene in maniera non del tutto lineare. Oltre a comparire all’improvviso o presentarsi in modo sinistro, l’uomo si fa infatti trovare dalla ragazza morto almeno un paio di volte: qui il racconto si fa sottile, perché le apparizioni sembrerebbero reali e non fantasie di Susan, ma il vedere il proprio stupratore cadavere sembra proprio il desiderio inconscio della vittima. 

Qual è, quindi, la soluzione del mistero? Per trovarla pare ovvio che occorra scoprire chi fu lo stupratore. I personaggi in campo non sono neanche tanti, oltre ai citati abbiamo John (Arthur O’Connell), il giardiniere factotum di casa, all’apparenza un bonaccione, e il dottor Lomas (Roddy McDowall), quest’ultimo troppo giovane per essere coinvolto nel misfatto al tempo. In realtà, nel concitato ed eccellente finale, si scoprirà prima la causa delle vere o presunte visioni di Susan e soltanto dopo il colpevole dell’atto di violenza originale, che sarà a suo modo comunque sorprendente. Nonostante le tante scene horror girate con perizia, la cosa più terrorizzante de Il gusto del peccato è che il vero cattivo della storia è la madre: il film televisivo, che si presentava come occasione di ritrovo per la famiglia, rivelava quello che al cinema raramente si aveva avuto il coraggio di dire. Moxey, che già aveva affrontato il tema della violenza sulle donne, qui sembra impostarci sopra l’intera storia: ma, da buon giallista, ci offre una falsa pista. La violenza subita da Susan è si da condannare senza alcuna attenuante, ma si tratta di un atto di debolezza, di vigliaccheria. E come tale va stigmatizzato, senza dubbio. Tuttavia la radice del male è assai più profonda. Dove si annida il male, in quale figura può diventare una sorta di virus capace di contaminare anche le altre persone? La risposta è sconvolgente: nel cuore di una madre. 

La mamma, una donna: dopo la rivoluzione femminista in quei primi anni Settanta erano entrambe figure che rappresentavano – e rappresentano tutt’ora – tutto quanto c’è al mondo di positivo mentre i maschi sono responsabili di tutte le attività deleterie, come la violenza, l’odio, la guerra, la prevaricazione. Il che è abbastanza vero: l’uomo è debole e corrompibile. Ma cosa lo corrompe? Il male, ovvio. Ma, allora, il male da dove arriva? Dove nasce il male? Qual è l’essere che determina la prima divisione – quella divisione che può talvolta divenire il germe del male – in seno alla comunità umana? Quella divisione che per prima allarga un conflitto individuale coinvolgendo il nucleo primario della società umana, creando la prima divisione? Qual è l’elemento che arriva e finisce per mettere, almeno ideologicamente, famiglia contro famiglia? Forse il figlio maschio? No, il figlio maschio sarà sempre legato alla madre, ne è il braccio armato. Chissà, forse è anche per questo che si dice auguri e figli maschi. E’ con la figlia femmina – Susan nel caso del film – che si può creare una nuova famiglia che andrà quasi inevitabilmente a ledere gli interessi della prima – quella di Miriam e nello specifico la questione cruciale è la divisione della proprietà. Temi complessi, sia chiaro, e qui si parla di un film televisivo, nulla più. Ma si tratta infatti di intuizioni, accenni, rimandi, che se colti possono però incrinare convinzioni ormai consolidate e raramente messe in dubbio. Si può pensare che per Moxey, regista perlopiù per il piccolo schermo, il termine autore sia eccessivo: in realtà non solo è pienamente autore, ma è anche il primo che, all’interno del cinema popolare, riesca a mostrarci con spietata lucidità dove si può nascondere il vero volto del male.
In quello di una madre.       






Barbara Stanwyck



Barbara Parkins 




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giovedì 25 aprile 2024

LA TERRA DEGLI APACHES

1473_LA TERRA DEGLI APACHES (Walk the Proud Lane). Stati Uniti 1956; Regia di Jesse Hibbs.

Durante il secondo conflitto mondiale, Audie Murphy fu un vero eroe di guerra, tanto da guadagnarsi il titolo di militare più decorato dell’Esercito americano. Una volta in congedo, Murphy si dedicò al cinema, ancora una volta con onore, seppure non riuscendo a ripetere i fasti delle sue imprese belliche. Reciterà in tantissimi film, spesso da protagonista, ma finendo via via quasi sempre più confinato in produzioni di serie B. A tarpare le ali alle sue velleità artistiche –ad inizio carriera fu diretto da registi come John Huston o Joseph l. Mankiewicz, ma poi, come detto, diverrà uno specialista delle produzioni minori– furono alcuni suoi limiti tecnico-estetici. Non aveva una presenza scenica che si imponesse, aveva sì un bel viso, pulito, ma con poco «carattere», e, malauguratamente, pur sapendo reggere lo schermo, non era interprete di grande spessore. Tuttavia, forse per il suo passato di eroe, non finì relegato al ruolo di comparsa: era un protagonista, ma adeguato unicamente a pellicole senza particolari approfondimenti. Storie semplici, psicologie appena abbozzate, figure simboliche più che tridimensionali: i B-movie, appunto. In qualche caso questa ricetta funzionava e, ad Hollywood, se qualcosa poteva funzionare, erano in grado di farla funzionare meglio e più spesso. La terra degli Apaches, western di Jesse Hibbs è un classico esempio in tal senso. Il film è indiscutibilmente apprezzabile per una serie di motivi, tra i quali la valorizzazione di un interprete come appunto Murphy, altre volte –al di là della benevolenza con cui è sempre stato trattato– onestamente poco convincente. La terra degli Apaches è un film di serie B un po’ atipico perché si prende la briga di raccontare una vicenda storica, impostata su un periodo della vita di uno dei protagonisti reali del west, vale a dire John Clum. 

Clum è una figura abbastanza nota dell’epopea della frontiera americana, non fosse altro perché ai tempi della sparatoria dell’Ok Corral a Tombstone era il sindaco della città, nonché amico fidato di Wyatt Earp. Il suo è un ruolo che non manca quasi mai nei film dedicati all’evento e, in effetti, lo possiamo trovare tanto nel classico Sfida infernale (1946, regia di John Ford), come negli esempi più recenti Tombstone (1993, di George Pan Cosmatos) o Wyatt Earp (1994, di Lawrence Kasdan). Ma Clum è un personaggio storico assai più importante per un altro motivo: fu il primo agente indiano a trattare gli Apaches con umanità e trasformò letteralmente la riserva di San Carlos, in Arizona, che arrivò a dotarsi di autogoverno, con tanto di forze di polizia autonome. La clamorosa esperienza di Clum come agente indiano venne narrata dal figlio, Woodworth Clum, nel libro Apache agent, che servì agli sceneggiatori Gil Doud e Jack Sher e al regista Jesse Hibbs, per realizzare La terra degli Apaches. Era il 1956, giova ricordarlo, e un film, un B-movie a sfondo storico prodotto ad Hollywood, metteva oltre ogni minimo dubbio gli Apaches dalla parte della ragione e la cavalleria degli Stati Uniti da quella del torto. La terra degli Apaches, va riconosciuto, è piuttosto schematico, non approfondisce i temi e, oltretutto, la regia di Hibbs non si segnala per particolari guizzi o intuizioni. Tuttavia il formato CinemaScope, accompagnato dalle calde immagini in Technicolor, riescono anche stavolta nell’impresa di nobilitare almeno sul piano tecnico un lavoro valido ma non proprio eccezionale. Tornando alla stilizzazione del racconto, il film si schiera apertamente con gli Apaches –che del resto avevano esattamente quelle ragioni che vengono mostrate– ma non rischia di cadere nell’apologia indiana visto che, accanto a personaggi postivi, tra i nativi, sono mostrati anche quelli assai più discutibili. 
Tra i primi meritano una citazione il capo Eskiminzin (Robert Warwick) e Taglito, [che si pronuncia Tagh-lito] interpretato dal ballerino e coreografo Tommy Rall. Se Santos (Victor Millan), figlio di Eskiminzin, è solo un po’ irrequieto – oltre che coinvolto sentimentalmente in una disputa con Clum, cosa che lo rende particolarmente ostile all’agente indiano– ben diverso è il caso di Geronimo, il bellicoso condottiero degli Apaches ribelli. Ad interpretare questa cruciale figura storica, venne chiamato un vero specialista: Jay Silverheels. Famoso più che altro per essere stato Tonto nella serie televisiva di Lone Ranger, l’attore di etnia Mohawk era già stato un credibile Geronimo ne L’amante indiana (1950, di Delmer Daves) e in Kociss, l’eroe indiano (1952, George Sherman). Anche stavolta, Silverheels riesce a tratteggiare un villain decisamente affascinante, pur se ben poco amichevole. Il film è romanzato seppur rispetti formalmente alcuni dettagli storici: la scorrettezza delle autorità che gestivano San Carlos per il proprio tornaconto a danno degli Apaches, la riforma della riserva voluta da Clum, e perfino la cattura di Geronimo da parte di questi e della polizia indiana senza bisogno di ingaggiare uno scontro ma beffandolo con un trucco. Nel racconto il tutto è semplificato perché, tra l’altro, ci sono un paio di tracce sentimentali che si intersecano e occorre condensare il film entro l’ora e mezza canonica per le produzioni minori. La prima delle protagoniste femminili è una fulgida Ann Bancroft nel ruolo di Tianay, una vedova Apache che si innamora di Clum, ma lei stessa è l’oggetto del desiderio di Santos. L’agente indiano è, per altro, già fidanzato, e sposerà, nel corso del film, Mary (Pat Crowley) che, arrivando dall’est, si troverà catapultata nel mezzo di una polverosa e ben poco accogliente riserva indiana. Ad aiutarla a superare i prevedibili problemi d’ambientamento e a ritrovare la giusta sintonia con Clum saranno proprio i saggi consigli di Tianay, che, pur se malincuore, riuscirà a vincere la legittima rivalità. Il finale riserva un piccolo accenno che lascia intendere che Tianay finisca per accettare la corte di Carlos. E vissero, quindi, tutti felici e contenti? Mica tanto, perché prima della chiusura si assiste al ritorno sulla scena dell’esercito degli Stati Uniti, nient’affatto rassegnato a vedere San Carlos autogestita dagli Apaches. La cavalleria americana trovò il pretesto per tornare a spadroneggiare sulle terre dei nativi, come era sempre stata solita fare. Va bene romanzare per esigenze culturali, educative o anche solo spettacolari, ma, considerato la Storia, probabilmente un lieto fine per gli Apaches può figurare unicamente in un film di fantascienza.  






Anne Bancroft 



Pat Crowley




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martedì 23 aprile 2024

LA FORESTA DEGLI IMPICCATI

1472_LA FORESTA DEGLI IMPICCATI (Padura Spanzuratilor). Romania 1965; Regia di Liviu Ciulei.

Bastano un paio di minuti a Liviu Ciulei per impostare il suo La Foresta degli Impiccati. Dopo una breve didascalia introduttiva, la Macchina da Presa inquadra una strada polverosa, poi raggiungiamo una colonna di soldati dell’Impero Austroungarico in marcia. L’immagine è in bianco e nero, la musica un po’ straniante, la fila di soldati ripresa da dietro riempie presto lo schermo dei tipici Stahlhelme , gli elmetti che erano in uso agli eserciti degli imperi centrali. Improvvisamente, uno dei soldati si gira alle sue spalle, guardando nell’obiettivo della Macchina da Presa; la musica ha una fastidiosa e acuta dissonanza, l’immagine si ferma sul fotogramma. Irrompono i titoli di testa, poi si insiste sull’immagine del soldato che guarda indietro, finché si arriva all’inizio del racconto filmico vero e proprio. Ma in quell’ermetico incipit, c’è già il senso del film: cosa succede se, nel corso forzato degli eventi della Storia, qualcuno guarda dietro di sé? Cosa succede se a qualche individuo sorge il dubbio di verificare cosa ci si è lasciato alle spalle, quali sono i frutti del proprio agire? Insomma, la guerra è sempre uno dei momenti chiave della Storia, e i soldati che marciano compatti simboleggiano tutti coloro che si lasciano guidare dagli ordini senza tentennamenti, dubbi, rimorsi. Il soldato de La Foresta degli Impiccati che guarda alle sue spalle è il qualcuno di cui si accennava prima; uno che si pone un dubbio, che si fa un esame di coscienza. E’ infatti una scena simbolica, non essendo legata al resto del racconto; e il fatto che il militare guardi in macchina, suggerisce che è compito proprio del cinema cercare di fungere da coscienza e in questo senso va quindi interpretato il lavoro di Liviu Ciulei che va successivamente ad entrare nel vivo. Siamo nel fronte rumeno, durante la Prima Guerra Mondiale e la storia comincia con un’impiccagione per diserzione. A finire sulla forca sarà il tenente Svoboda che, in forza al suo nome (che in slovacco significa libertà) aveva cercato appunto di disertare. E’ il tenente Apostol Bologa (Victor Rebengiuc) a fornirci queste indicazioni, mentre informa il capitano Klapka (interpretato dallo stesso regista Liviu Ciulei), appena aggregatosi al reparto. Il lavoro di imbastitura di Ciulei è sopraffino, fin da questi primi dettagli: il protagonista della storia è Bologa che appare sicuro del fatto suo, preoccupato di mettere in piedi un’esecuzione a regola d’arte coi pochissimi mezzi a disposizione, addirittura fiero di aver fatto parte della corte marziale che ha condannato Svoboda. 

Klapka non sembra affatto così contento di vedere qualcuno giustiziato, forse perché è di origine ceca proprio come Svoboda. Il comportamento perplesso del capitano, le sue parole, cominciano a minare la sicurezza di Bologa. E’ la funzione del cinema, evidenziata dal fatto che il personaggio di Klapka è interpretato dal regista del film: fare sorgere almeno qualche dubbio. E in Bologa, una volta che si è aperto uno spiraglio nell’ipocrita adesione ai dettami militari, i dubbi fioriscono in quantità: lui è rumeno ma di un’area sotto l’Impero Austroungarico e quindi si trova ora a combattere i propri connazionali. E questa situazione alimenterà, ora che gli è venuta meno la completa e ottusa adesione ai dettami militari, i suoi tentennamenti, i suoi scrupoli. Al punto che lo stesso capitano Klapka si sentirà quasi in obbligo di farlo tornare su posizioni più opportunistiche, evitando cioè di mettersi in luce come disfattista presso il comando militare. Quasi come se il cinema possa, in qualche caso, superare gli intenti stessi dei suoi autori. La funzione del cinema e la sua potenza anche e soprattutto nei confronti degli autori e non solo del pubblico, è resa in modo esplicito dalla vicenda del riflettore. Un fascio di luce (il cinema?) proveniente dalle linee nemiche tormenta le notti di Klapka (la coscienza del regista?) che, per poter continuare a prestare servizio sotto l’esercito, ha bisogno che il proiettore venga fatto smettere. Il capitano, come detto, è di origine ceca ed è già stato sospettato di infedeltà all’Impero; un altro passo falso gli sarebbe infatti fatale. 

Ed è proprio a Bologa, colui di cui ha risvegliato la coscienza, che ordina di distruggere il faro. Bologa compie l’impresa, inoltrandosi oltre le linee nemiche e perdendo un cannone e alcuni uomini del commando: ma ai vertici militari pare comunque un’operazione di grande coraggio. Il tenente si lascia però sfuggire qualche perplessità e, proprio nel momento in cui è all’apice della sua carriera militare, comincia il suo declino, finendo sospettato di avere rimorsi di coscienza. Il tema delle diserzioni era probabilmente reale tra le fila di un esercito multietnico come quello Austroungarico; il regista se ne serve per un primo passo nell’ottica di una presa di coscienza di quanto la guerra sia inaccettabile anche da un punto di vista laico e non solo religioso, come sembrava poter essere interpretabile dal racconto di Liviu Rebreanu all’origine del soggetto. La traccia religiosa, intuibile già dal nome del protagonista, Apostol, non può però essere trascurata dal film: saranno dodici, proprio come gli apostoli, i contadini impiccati perché volevano arare il terreno per la semina e questo mal si conciliava con le esigenze belliche. Quando questi poveretti vedono Bologa, rumeno come loro, si illudono che possa fare qualcosa per salvarli: in effetti, con evidente sadismo, il comando ha designato proprio il tenente per presiedere la corte marziale che deve condannare (la sentenza era già decisa) i suoi connazionali. Ma se Bologa è una figura salvifica, lo è solo in senso morale, proprio come Cristo: non manca nemmeno l’ultima cena, offertagli dalla dolce Ilona (Ana Széles). Le donne della storia rappresentato le possibilità di scelta per l’uomo: c’è Roza (Gina Patrichi), la prostituta, che offre una vita di piacere, cogliendo le opportunità; c’è Marta (Mariana Mihut), la sposa promessa, tutta superficialità e conformismo; e c’è Ilona, la povera contadina. Ormai Bologa non può più accettare, non solo la volgarità di Roza, ma nemmeno l’ipocrisia borghese di Marta: ma Ilona appartiene a quella gente che il tenente è chiamato a condannare a morte. 

La Foresta degli Impiccati è un testo morale, che riflette sulla coscienza dell’individuo e, in questo, riesce a divenire quindi universale. Per questo la varie tracce, quella privata (i rapporti con le donne), religiosa (la sua crisi morale), nazionale (il non voler combattere i nemici suoi compatrioti) si fondono in una teoria universale, suggerita nel film dalla presenza del soldato Johan Maria Müller (Emeric Scháfer). Müller nella vita civile ha un negozio di libri e quindi è depositario, in un certo senso, del sapere, della cultura collettiva. Oltre a Johan, il nostro porta il nome di Maria, cosa sottolineata con scherno in più di un passaggio nel film: Maria è un nome femminile, infatti, ma questo simboleggia l’universalità del personaggio che, con i suoi discorsi pacifisti, contribuisce alla redenzione morale di Bologa. Insomma la vicenda, che si avvale della solida base del citato libro preso a soggetto, è molto ben strutturata. Da un punto di vista formale prettamente cinematografico l’opera è altrettanto sorprendente: Liviu Ciulei si affida pochissimo al montaggio, preferendo riprese lunghe, quasi veri e propri piani-sequenza. La Macchina da Presa è in costante movimento, ora sinuoso, ora con violente panoramiche; l’impressione è di una rappresentazione realistica, in quanto poco artefatta. 

E’ un modo di interpretare il cinema molto raffinato, perché si rende una messa in scena che quasi ostenta i limiti del mezzo tecnico della ripresa, e che il montaggio maschera in modo pressoché perfetto, per rendere la ripresa stessa più credibile. E anche la scelta del bianco e nero sembra andare in questa direzione: si è optato per la soluzione fortemente non realistica (visto che la realtà è a colori) che era uno dei limiti storici del cinema, per conferire al testo un sapore documentaristico rievocando le immagini in bianco e nero che sono emblema della Grande Guerra. Perfino la musica lavora in modo non lineare, presentandosi con suoni ben poco armonici ma riuscendo, nel corso del lungometraggio e nel suo complesso, a creare un’atmosfera perfettamente complementare al testo filmico. Non a caso per La Foresta degli Impiccati Liviu Ciulei vinse il premio come miglior regia al Festival di Cannes del 1965, sebbene va detto che non sia un testo facilissimo. Il lavoro avvolgente del regista rumeno, inizialmente, può lasciare un po’ straniti; inoltre l’azione è praticamente assente e tutto lo sviluppo è affidato ai dialoghi o alla messa in scena, sobria e severa ma indiscutibilmente evocativa, si prenda la sequenza con i dodici impiccati come esempio. Insomma, un film che è davvero un esame di coscienza: duro, senza sconti ma, proprio per questo, gratificante.  






Anna Széles




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