251_THE HURT LOCKER Stati Uniti, 2008; Regia di Kathryn Bigelow.
Kathryn Bigelow, oltre che una formidabile regista, è anche
una gentildonna, e così la traccia principale del suo film ce la fornisce
direttamente lei: ‘la furia della
battaglia provoca dipendenza totale perché la guerra è una droga’. La frase
riportata sullo schermo, all’inizio di The
Hurt Locker, è dello scrittore Chris Edgar e si riferisce alla forza che
spinge tanti uomini, del mondo occidentale e benestante, a recarsi nei luoghi
di battaglia a sopportare condizioni estreme mettendo in serio pericolo la
propria vita. Da questa interessante riflessione la Bigelow ne ricava
un’ulteriore sintesi nella successiva didascalia: ‘la guerra è una droga’; oltre, naturalmente, ad un magnifico film. The Hurt Locker è infatti un grande
film, un film bellico senza tanti fronzoli, all’apparenza; in realtà un film
che va alla radice stessa della violenza, a quella forza primordiale che quando
prende la mano può trasformare una scazzottata goliardica tra commilitoni in un
assassinio. Il passo è breve, e quando l’adrenalina sale è quasi impossibile
controllarla; questo può dirlo qualunque individuo abbia perso il controllo
durante un acceso litigio. Questo stato di alterazione della percezione, dovuto
al fatto che l’individuo/soldato è costretto ad essere più attento, più veloce
nel reagire e nel prendere decisioni, più determinato, è sempre stato presente
in qualunque guerra. Ma nell’occupazione dell’Iraq, e in generale dei territori
del medio oriente di questi tempi, questa situazione si è amplificata: gli
iracheni ribelli non possono affrontare apertamente gli americani, per via del
superiore armamento e preparazione di questi ultimi, e allora ricorrono ai più
subdoli trucchi.
A costringere i militari americani in una morsa c’è anche la spada di Damocle dell’opinione pubblica,
nel film rappresentata dal tizio sul balcone con la videocamera: c’è sempre
qualcuno pronto ad immortalare un sopruso degli occupanti per alimentare i moti
di ribellione, sollevando l’opinione pubblica mondiale semplicemente postando
un filmato su un social network. A vederla così, quella dei militari americani
è una situazione apparentemente insostenibile: dai locali aperta e prevedibile
ostilità e continue provocazioni, e quei pochi atteggiamenti amichevoli nascondono,
la maggior parte delle volte, insidie di attentati;
a fronte di questo
scenario, gli occupanti devono stare anche attenti a come si comportano,
evitando soprusi o atti di violenza inutile. Non a caso uno degli ufficiali
americani, nel film, quando un iracheno rimane gravemente ferito e necessita
soccorso in tempi brevi, nega ripetutamente al suo soldato di farlo soccorrere.
Se non possiamo ammazzarli liberamente,
lasciamoli crepare quando non verremo accusati di questo, sembra pensare
l’ufficiale, concretizzando in una semplice decisione la durezza della
situazione. Ma questo insostenibile scenario probabilmente rappresenta, al
contrario di quello che si può pensare, il combustibile
per l’adrenalina che è la droga da cui i soldati finiscono per dipendere.
Il
parallelo con la dipendenza dai videogames
è richiamato da una scena nel film: non è tanto che l’opera si relazioni ai
videogiochi, anche se la comune fonte d’ispirazione bellica rende possibile il
paragone, ma gli effetti di esagerata eccitazione, stato psicofisico oltre il
quale si raggiunge il frastornamento per overdose,
sono simili. E sono quelli che finiscono per creare una vera e propria
dipendenza.
In The Hurt Locker
la guerra è quindi mostrata, in estrema sintesi, per quello che è: una droga,
certo, e quindi si potrebbe anche definire un vizio, un gioco. Lo scandire dei
giorni che mancano alla fine del turno scorre proprio come nei videogames e quando arriva a zero ricomincia da capo. In tutto questo sembra mancare certamente un quadro morale:
nel film non vengono analizzate le ragioni politico/sociali del conflitto o
dell’occupazione, ma forse perché non sono queste le vere radici della guerra
in Iraq, come non lo erano e non lo sono (e aimè non lo saranno) nelle altre. Ma un aspetto morale nel film c’è,
ed è quello che dà il titolo al film stesso. The
Hurt Locker [l’armadietto del dolore]
è un’espressione militare dai molteplici significati: da un’area in cui può
succedere qualcosa di pericoloso e imprevedibile (come quelle che si vedono nel
film intorno agli ordigni da disinnescare), alla cassetta con gli effetti
personali dei caduti (si vede anche questa, in seguito alla morte del sergente
Thompson, interpretato da Guy Pierce).
Ma, e questo è il vero cuore del film, la
definizione è anche una metafora di un luogo dove chiudere i propri sensi di
colpa per le atrocità a cui costringe la guerra. Il sergente James (Jeremy
Renner) ne ha uno, simbolico ma anche solido e concreto, giusto sotto la
branda. Il quale sergente James è uno sminatore ed è talmente temerario da
sembrare pazzo persino ai suoi colleghi, al più equilibrato sergente Sanborn
(Anthony Mackie) e anche all’emotivo specialista
Eldrige (Brian Geraghty). Ma a vederlo sullo schermo si comporta come un vero eroe americano: e dopo l’ennesima audace
azione condotta con successo, un superiore si complimenta con lui, definendolo
al contempo, completamente folle e vero uomo.
E qui un parallelo tra la
follia degli attacchi suicidi degli iracheni e l’atteggiamento del nostro eroe,
viene spontaneo; anche perché lo stesso James gioca con le parole, facendo
riferimento per la sua dissennata condotta alla definizione attentato suicida, quando questa
ovviamente indica la sorte destinata all’attentatore. C’è quindi una
sovrapposizione nella follia di questi gesti tra l’attentatore suicida e chi
rischia la propria vita per disinnescare l’ordigno. Ma, guardando il film, per
noi occidentali risulta impossibile comprendere gli iracheni (e altri come
loro) che vogliono morire per la loro causa, mentre siamo propensi a definire eroico il comportamento di un militare
americano temerario ben oltre il limite.
E per evidenziare questa
contraddizione nel nostro metro di giudizio, il nostro James viene mostrato
anche durante il congedo: tra le file di un supermarket, in mezzo a scaffali
ordinati e colmi di ogni ben di Dio, con la bella moglie e il tenero
figlioletto ad attenderlo a casa. Quale motivo potrebbe spingere un individuo
sano di mente a lasciare questa vita per andare a fare l’artificiere in zona di
guerra? Certo, la guerra è una droga, e questa spiegazione potrebbe anche
bastare, d’altronde James è dipendente
anche dal fumo. Se ricordiamo la didascalia ad inizio film, il conto dovrebbe
chiudersi qui. Eppure c’è anche qualcos’altro; qualcosa che non torna del
tutto, nel comportamento di James. E il suo tentativo di fare l’eroe americano? Il suo solidarizzare con
il giovane Beckham? Il suo cercare un
pretesto eroico (il cadavere del ragazzino non fatto saltare per aria)? Il suo
mettersi a fare l’investigatore privato (in una scena in verità troppo
cinematografica per essere credibile nel resto del contesto più che realistico
del film) per vendicare il giovane
amico? E, in fondo, anche, il suo cercare ostentatamente la morte, può essere davvero motivato dal solo brivido adrenalinico? Forse; ma forse i suoi non sono che velleitari
tentativi di scampare la propria sorte. La guerra non è solo una droga è anche
un mostro, il più terribile dei mostri. Ed è un po’ come se James avesse
guardato l’abisso di Nietzsche e l’abisso avesse guardato dentro di lui,
perdendolo definitivamente.
E anche noi, che accettiamo passivamente lo stato
delle cose, con lui.
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