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lunedì 3 dicembre 2018

THE HURT LOCKER

251_THE HURT LOCKER  Stati Uniti, 2008;  Regia di Kathryn Bigelow.

Kathryn Bigelow, oltre che una formidabile regista, è anche una gentildonna, e così la traccia principale del suo film ce la fornisce direttamente lei: ‘la furia della battaglia provoca dipendenza totale perché la guerra è una droga’. La frase riportata sullo schermo, all’inizio di The Hurt Locker, è dello scrittore Chris Edgar e si riferisce alla forza che spinge tanti uomini, del mondo occidentale e benestante, a recarsi nei luoghi di battaglia a sopportare condizioni estreme mettendo in serio pericolo la propria vita. Da questa interessante riflessione la Bigelow ne ricava un’ulteriore sintesi nella successiva didascalia: ‘la guerra è una droga’; oltre, naturalmente, ad un magnifico film. The Hurt Locker è infatti un grande film, un film bellico senza tanti fronzoli, all’apparenza; in realtà un film che va alla radice stessa della violenza, a quella forza primordiale che quando prende la mano può trasformare una scazzottata goliardica tra commilitoni in un assassinio. Il passo è breve, e quando l’adrenalina sale è quasi impossibile controllarla; questo può dirlo qualunque individuo abbia perso il controllo durante un acceso litigio. Questo stato di alterazione della percezione, dovuto al fatto che l’individuo/soldato è costretto ad essere più attento, più veloce nel reagire e nel prendere decisioni, più determinato, è sempre stato presente in qualunque guerra. Ma nell’occupazione dell’Iraq, e in generale dei territori del medio oriente di questi tempi, questa situazione si è amplificata: gli iracheni ribelli non possono affrontare apertamente gli americani, per via del superiore armamento e preparazione di questi ultimi, e allora ricorrono ai più subdoli trucchi. 
A costringere i militari americani in una morsa c’è anche la spada di Damocle dell’opinione pubblica, nel film rappresentata dal tizio sul balcone con la videocamera: c’è sempre qualcuno pronto ad immortalare un sopruso degli occupanti per alimentare i moti di ribellione, sollevando l’opinione pubblica mondiale semplicemente postando un filmato su un social network. A vederla così, quella dei militari americani è una situazione apparentemente insostenibile: dai locali aperta e prevedibile ostilità e continue provocazioni, e quei pochi atteggiamenti amichevoli nascondono, la maggior parte delle volte, insidie di attentati; 
a fronte di questo scenario, gli occupanti devono stare anche attenti a come si comportano, evitando soprusi o atti di violenza inutile. Non a caso uno degli ufficiali americani, nel film, quando un iracheno rimane gravemente ferito e necessita soccorso in tempi brevi, nega ripetutamente al suo soldato di farlo soccorrere. Se non possiamo ammazzarli liberamente, lasciamoli crepare quando non verremo accusati di questo, sembra pensare l’ufficiale, concretizzando in una semplice decisione la durezza della situazione. Ma questo insostenibile scenario probabilmente rappresenta, al contrario di quello che si può pensare, il combustibile per l’adrenalina che è la droga da cui i soldati finiscono per dipendere. 
Il parallelo con la dipendenza dai videogames è richiamato da una scena nel film: non è tanto che l’opera si relazioni ai videogiochi, anche se la comune fonte d’ispirazione bellica rende possibile il paragone, ma gli effetti di esagerata eccitazione, stato psicofisico oltre il quale si raggiunge il frastornamento per overdose, sono simili. E sono quelli che finiscono per creare una vera e propria dipendenza.
In The Hurt Locker la guerra è quindi mostrata, in estrema sintesi, per quello che è: una droga, certo, e quindi si potrebbe anche definire un vizio, un gioco. Lo scandire dei giorni che mancano alla fine del turno scorre proprio come nei videogames e quando arriva a zero ricomincia da capo. In tutto questo sembra mancare certamente un quadro morale: nel film non vengono analizzate le ragioni politico/sociali del conflitto o dell’occupazione, ma forse perché non sono queste le vere radici della guerra in Iraq, come non lo erano e non lo sono (e aimè non lo saranno) nelle altre. Ma un aspetto morale nel film c’è, ed è quello che dà il titolo al film stesso. The Hurt Locker [l’armadietto del dolore] è un’espressione militare dai molteplici significati: da un’area in cui può succedere qualcosa di pericoloso e imprevedibile (come quelle che si vedono nel film intorno agli ordigni da disinnescare), alla cassetta con gli effetti personali dei caduti (si vede anche questa, in seguito alla morte del sergente Thompson, interpretato da Guy Pierce). 
Ma, e questo è il vero cuore del film, la definizione è anche una metafora di un luogo dove chiudere i propri sensi di colpa per le atrocità a cui costringe la guerra. Il sergente James (Jeremy Renner) ne ha uno, simbolico ma anche solido e concreto, giusto sotto la branda. Il quale sergente James è uno sminatore ed è talmente temerario da sembrare pazzo persino ai suoi colleghi, al più equilibrato sergente Sanborn (Anthony Mackie) e anche all’emotivo specialista Eldrige (Brian Geraghty). Ma a vederlo sullo schermo si comporta come un vero eroe americano: e dopo l’ennesima audace azione condotta con successo, un superiore si complimenta con lui, definendolo al contempo, completamente folle e vero uomo
E qui un parallelo tra la follia degli attacchi suicidi degli iracheni e l’atteggiamento del nostro eroe, viene spontaneo; anche perché lo stesso James gioca con le parole, facendo riferimento per la sua dissennata condotta alla definizione attentato suicida, quando questa ovviamente indica la sorte destinata all’attentatore. C’è quindi una sovrapposizione nella follia di questi gesti tra l’attentatore suicida e chi rischia la propria vita per disinnescare l’ordigno. Ma, guardando il film, per noi occidentali risulta impossibile comprendere gli iracheni (e altri come loro) che vogliono morire per la loro causa, mentre siamo propensi a definire eroico il comportamento di un militare americano temerario ben oltre il limite. 
E per evidenziare questa contraddizione nel nostro metro di giudizio, il nostro James viene mostrato anche durante il congedo: tra le file di un supermarket, in mezzo a scaffali ordinati e colmi di ogni ben di Dio, con la bella moglie e il tenero figlioletto ad attenderlo a casa. Quale motivo potrebbe spingere un individuo sano di mente a lasciare questa vita per andare a fare l’artificiere in zona di guerra? Certo, la guerra è una droga, e questa spiegazione potrebbe anche bastare, d’altronde James è dipendente anche dal fumo. Se ricordiamo la didascalia ad inizio film, il conto dovrebbe chiudersi qui. Eppure c’è anche qualcos’altro; qualcosa che non torna del tutto, nel comportamento di James. E il suo tentativo di fare l’eroe americano? Il suo solidarizzare con il giovane Beckham? Il suo cercare un pretesto eroico (il cadavere del ragazzino non fatto saltare per aria)? Il suo mettersi a fare l’investigatore privato (in una scena in verità troppo cinematografica per essere credibile nel resto del contesto più che realistico del film) per vendicare il giovane amico? E, in fondo, anche, il suo cercare ostentatamente la morte, può essere davvero motivato dal solo brivido adrenalinico? Forse; ma forse i suoi non sono che velleitari tentativi di scampare la propria sorte. La guerra non è solo una droga è anche un mostro, il più terribile dei mostri. Ed è un po’ come se James avesse guardato l’abisso di Nietzsche e l’abisso avesse guardato dentro di lui, perdendolo definitivamente.
E anche noi, che accettiamo passivamente lo stato delle cose, con lui.


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