Translate

venerdì 23 novembre 2018

GILDA

245_GILDA   Stati Uniti 1946;  Regia di Charles Vidor.

Ci sono film che indiscutibilmente costituiscono importanti capitoli della Storia del Cinema: Gilda è sicuramente uno di questi, e la protagonista della pellicola, l’atomica Rita Hayworth, il principale motivo che pone l’opera di Charles Vidor in tale evidenza. La scena, nel finale, in cui canta (doppiata da Anita Ellis) e soprattutto balla, Put the blame on Mame improvvisando un mini spogliarello levandosi i lunghissimi guanti, è un momento di grandissimo cinema, tutto sommato semplice ma di grandissima efficacia scenica. E, volendo, anche con un significato ben più profondo rispetto a quanto si possa intendere a prima vista. Certo, la carica erotica della Hayworth è esplosiva: d'altronde la chiamavano atomica perché era una vera e propria sex-bomb; questo è facilmente intuibile e si capisce già fin dallo strepitoso manifesto americano. Ma la scena nel finale, con lo scarno strip-tease, in fondo si tratta solo dei guanti, infiamma il pubblico in un modo sproporzionato e ci mette bene in evidenza, in modo quanto mai credibile, come la figura femminile, intesa come oggetto del desiderio, sia manipolabile dallo star system. In questo senso Gilda potrebbe anche essere interpretato come un testo metalinguistico, visto che non solo la canzone Put the blame on Mame parla proprio di questo, ma tutto il film verte sul problema che una donna tanto desiderabile come la Gilda interpretata dalla Hayworth, crea nel protagonista maschile Johnny Farrell (Glenn Ford, ovviamente). Se ne può dedurre che il sentimento ardente di desiderio che la donna instilla nell’uomo è quindi superiore, in un certo senso, alle intenzioni della stessa e, sempre osservando la questione in modo un po’ astratto, anche alle sue responsabilità. 
Certo, è evidente che Gilda sfrutta le occasioni (lo dice apertamente, facendo un paragone con il Carnevale) che il suo aspetto le procura, ma che colpa le si può imputare se gli uomini del club impazziscono quando si leva un semplice guanto? E tutto quanto Gilda, inteso come film, è la storia di un uomo (Farrell) incapace di gestire il folle desiderio che prova per una donna bellissima; donna bellissima si, ma che rimane donna e non dea (come vorrebbe intendere anche zio Pio quando le offre il liquore: vuole un po’ di questa ambrosia, degna in tutto e per tutto di una dea? e che infatti la ragazza rifiuta), umana e perciò con debolezze ed errori da commettere legittimamente. La forza del desiderio, in questo caso è sviscerato quello maschile in ambito sessuale, è perciò un’arma a doppio taglio: è il motore che muove quasi ogni cosa, ma può anche far deragliare. O venire sfruttato in modo speculativo, e quest’ultimo aspetto può appunto essere inteso come una sorta di matrice metalinguistica dell’opera: 
perché il film approfitta esplicitamente della figura di Gilda per alimentare il proprio consenso, ma al tempo stesso mostra come in seguito ci sia, da parte dell’uomo, difficoltà ad accettare quel ruolo della donna. Come accade, in sostanza, sia a Farrell che a Ballin Mundson (George Macready), i quali scelgono Gilda per il suo aspetto, ma le rinfacciano il suo piacere a tutti quanti, come fosse una colpa. Probabilmente il regista Charles Vidor, se il parallelo tra il pubblico del suo film e quello sullo schermo nell’ultima canzone interpretata dalla Hayworth sembra evidente, aveva la speranza che poi gli stessi spettatori seguissero Farrell nel conciliante lieto fine: cercando cioè, di non riflettere i propri sensi di colpa sull’oggetto del desiderio, in questo caso Gilda. 
Seppur l’operazione, vista oggi, è decisamente lodevole, al tempo non tenne forse conto dell’enorme potere amplificante del cinema, che moltiplicò la potenza del desiderio, e proiettò Rita Hayworth nel mito, assurgendo proprio al ruolo di diva, (ovvero proprio quello di dea che aveva esplicitamente rifiutato nel film) e l’attrice, dopo Gilda, rimarrà ingabbiata in un ruolo per lei perfetto ma alla lunga anche limitante. Al netto di tutto questo, Gilda è un glaciale noir infiammato dalla traccia melodrammatica, che mette al centro del classico triangolo la figura della Hayworth. La quale è spettacolare nel ruolo di femme fatale ma, e qui ritorna il tema metalinguistico, appare quasi recitarne in modo ostentato il ruolo, quasi si trattasse di una sorta di gioco. Non è quindi una dark lady canonica, Gilda: sembra già qui subirne un po’ il ruolo, come poi ammetterà, nel corso della carriera, anche la stessa Hayworth. 
E questo sembra essere anche l’intento maggiore di Vidor, nella messa in scena del suo film, che infatti appare un po’ artificioso, nei dialoghi che spesso nascondono sottotemi, anche dovuti alla trama, o nei comportamenti, spesso estremi, basti quello di Farrell che per troppo tempo continua a confondere il risentimento con l’odio. Inoltre, il tipico espediente noir della voce narrante alimenta forse eccessivamente lo sfasamento: in questo caso, di fronte alla storia narrata, la voce ci pone nel punto di vista di Farrell, ma l’assurdità del comportamento dello stesso uomo finisce per metterci a disagio, in quanto è evidente che il centro della vicenda, e anche il punto di vista condivisibile, è quello di Gilda. Questi aspetti, probabilmente ricercati dal regista proprio per imprimere all’opera una matrice astratta con cui bilanciare la forte carica sensuale della protagonista, possono rendere la fruizione meno scorrevole, ma nel complesso Gilda è un film godibile anche dal punto strettamente narrativo.
Sebbene, è inutile girarci intorno, il suo punto di forza travolgente siano le interpretazioni dell’atomica di Amado mio e soprattutto di Put the blame on Mame.
Dopo la quale, si poteva anche chiudere con il cinema.

Rita Hayworth












Nessun commento:

Posta un commento