245_GILDA Stati Uniti 1946; Regia di Charles Vidor.
Ci sono film che indiscutibilmente costituiscono importanti
capitoli della Storia del Cinema: Gilda è sicuramente uno di questi, e la protagonista della
pellicola, l’atomica Rita Hayworth,
il principale motivo che pone l’opera di Charles Vidor in tale evidenza. La
scena, nel finale, in cui canta (doppiata da Anita Ellis) e soprattutto balla, Put the blame on Mame improvvisando un
mini spogliarello levandosi i lunghissimi guanti, è un momento di grandissimo
cinema, tutto sommato semplice ma di grandissima efficacia scenica. E, volendo,
anche con un significato ben più profondo rispetto a quanto si possa intendere
a prima vista. Certo, la carica erotica della Hayworth è esplosiva: d'altronde la
chiamavano atomica perché era una vera
e propria sex-bomb; questo è
facilmente intuibile e si capisce già fin dallo strepitoso manifesto americano.
Ma la scena nel finale, con lo scarno strip-tease,
in fondo si tratta solo dei guanti, infiamma il pubblico in un modo
sproporzionato e ci mette bene in evidenza, in modo quanto mai credibile, come la
figura femminile, intesa come oggetto del desiderio, sia manipolabile dallo star system. In questo senso Gilda potrebbe anche essere interpretato come
un testo metalinguistico, visto che non solo la canzone Put the blame on Mame parla proprio di questo, ma tutto il film
verte sul problema che una donna tanto desiderabile come la Gilda interpretata dalla
Hayworth, crea nel protagonista maschile Johnny Farrell (Glenn Ford, ovviamente).
Se ne può dedurre che il sentimento ardente di desiderio che la donna instilla
nell’uomo è quindi superiore, in un certo senso, alle intenzioni della stessa e,
sempre osservando la questione in modo un po’ astratto, anche alle sue
responsabilità.
Certo, è evidente che Gilda sfrutta le occasioni (lo dice apertamente,
facendo un paragone con il Carnevale) che il suo aspetto le procura, ma che
colpa le si può imputare se gli uomini del club impazziscono quando si leva un
semplice guanto? E tutto quanto Gilda,
inteso come film, è la storia di un uomo (Farrell) incapace di gestire il folle
desiderio che prova per una donna bellissima; donna bellissima si, ma che rimane
donna e non dea (come vorrebbe
intendere anche zio Pio quando le offre il liquore: vuole un po’ di questa ambrosia, degna in tutto e per tutto di una dea?
e che infatti la ragazza rifiuta), umana e perciò con debolezze ed errori da commettere
legittimamente. La forza del desiderio, in questo caso è sviscerato quello
maschile in ambito sessuale, è perciò un’arma a doppio taglio: è il motore che
muove quasi ogni cosa, ma può anche far deragliare. O venire sfruttato in modo
speculativo, e quest’ultimo aspetto può appunto essere inteso come una sorta di
matrice metalinguistica dell’opera:
perché il film approfitta esplicitamente
della figura di Gilda per alimentare il proprio consenso, ma al tempo stesso
mostra come in seguito ci sia, da parte dell’uomo, difficoltà ad accettare quel
ruolo della donna. Come accade, in sostanza, sia a Farrell che a Ballin Mundson
(George Macready), i quali scelgono Gilda per il suo aspetto, ma le rinfacciano
il suo piacere a tutti quanti, come fosse una colpa. Probabilmente il regista
Charles Vidor, se il parallelo tra il pubblico del suo film e quello sullo
schermo nell’ultima canzone interpretata
dalla Hayworth sembra evidente, aveva la speranza che poi gli stessi spettatori
seguissero Farrell nel conciliante lieto fine: cercando cioè, di non riflettere
i propri sensi di colpa sull’oggetto del desiderio, in questo caso Gilda.
Seppur l’operazione, vista oggi, è decisamente lodevole, al tempo non tenne
forse conto dell’enorme potere amplificante del cinema, che moltiplicò la
potenza del desiderio, e proiettò Rita Hayworth nel mito, assurgendo proprio al
ruolo di diva, (ovvero proprio quello di dea
che aveva esplicitamente rifiutato nel film) e l’attrice, dopo Gilda, rimarrà ingabbiata in un ruolo per
lei perfetto ma alla lunga anche limitante. Al netto di tutto questo, Gilda è un glaciale noir infiammato dalla traccia melodrammatica, che mette al centro
del classico triangolo la figura della Hayworth. La quale è spettacolare nel
ruolo di femme fatale ma, e qui
ritorna il tema metalinguistico, appare quasi recitarne in modo ostentato il
ruolo, quasi si trattasse di una sorta di gioco. Non è quindi una dark lady canonica, Gilda: sembra già
qui subirne un po’ il ruolo, come poi ammetterà, nel corso della carriera, anche
la stessa Hayworth.
E questo sembra essere anche l’intento maggiore di Vidor,
nella messa in scena del suo film, che infatti appare un po’ artificioso, nei
dialoghi che spesso nascondono sottotemi, anche dovuti alla trama, o nei
comportamenti, spesso estremi, basti quello di Farrell che per troppo tempo continua
a confondere il risentimento con l’odio. Inoltre, il tipico espediente noir della voce narrante alimenta forse eccessivamente
lo sfasamento: in questo caso, di fronte alla storia narrata, la
voce ci pone nel punto di vista di Farrell, ma l’assurdità del comportamento
dello stesso uomo finisce per metterci a disagio, in quanto è evidente che il
centro della vicenda, e anche il punto di vista condivisibile, è quello di
Gilda. Questi aspetti, probabilmente ricercati dal regista proprio per imprimere
all’opera una matrice astratta con cui bilanciare la forte carica sensuale
della protagonista, possono rendere la fruizione meno scorrevole, ma nel
complesso Gilda è un film godibile
anche dal punto strettamente narrativo.
Sebbene, è inutile girarci intorno, il suo punto di forza
travolgente siano le interpretazioni dell’atomica
di Amado mio e soprattutto di Put the blame on Mame.
Dopo la quale, si poteva anche chiudere con il cinema.Rita Hayworth
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