Translate

sabato 30 maggio 2020

HOBSON IL TIRANNO

576_HOBSON IL TIRANNO (Hobson's choice); Regno Unito, 1954. Regia di David Lean.

C’è forse qualcosa di più inglese del periodo vittoriano? David Lean vi ambienta la commedia Hobson il tiranno e ne approfitta, tra le altre cose, per tratteggiare in modo impareggiabile il ruolo della donna nella società britannica (del tempo ma non solo). Il film è una commedia arguta e divertente, in cui l’origine teatrale è perfettamente intuibile dalle limitate ambientazioni della storia, oltre che dalla necessaria bravura richiesta agli interpreti. Tra cui spicca, ovviamente, Charles Laughton, nella parte dell’Hobson del titolo, un dispotico calzolaio vedovo, ubriacone e con tre figlie a carico. A far da contraltare no, perché mettersi con un attore del peso di Laughton è dura per chiunque, ma ad occupare i pochi spazi che l’istrionico Charles lascia, c’è John Mills nel ruolo del suo operaio William Mossop. Ma è solo apparenza: perché a manovrare il buon Mossop è la figlia maggiore di Hobson, Maggie (Brenda De Banzie), e la sua intraprendenza nel fronteggiare la personalità e l’autorità dell’ingombrante genitore è l’aspetto più interessante del film. Se le sue due sorelle, Alice (Daphne Anderson) e Vicky (Prunella Scales) sono più giovani, gradevoli e civettuole, Maggie è la tipica donna inglese determinata e inarrestabile quando architetta qualcosa. Per raggiungere il suo scopo è perfino in grado di fingere di assoggettarsi al marito, ma è solo per ottenere quello che si è ficcata in testa. Stando a quello che si vede dal film, da prendere quindi come spunto di riflessione e non come documento storico, si deve anche all’emancipazione della donna l’evoluzione della società inglese che, fosse stato per individui come l’Hobson della storia, sarebbe rimasta sulle sue posizioni in eterno. Lean confeziona la sua commedia con la consueta maestria, il tenore è leggero e il ritmo brioso: non ci si annoia di certo. 




   
Brenda De Banzie



Daphne Anderson




Prunella Scales



mercoledì 27 maggio 2020

I MONGOLI

575_I MONGOLI ; Italia, Francia, 1961. Regia di André de Toth, Leopoldo Savona e Riccardo Freda.

In genere se in un film mette mani più di un regista c’è il rischio che vada compromessa l’omogeneità del risultato finale. E I mongoli reca le firme di ben tre autori: André De Toth, Leopoldo Savona e Riccardo Freda. Vero è che quest’ultimo si è occupato delle sole scene di battaglia e, quindi, il suo apporto può definirsi limitato e probabilmente ben gestibile nel complesso. Ma resta da capire come sia ripartita la regia nel resto del film e se la condivisione, rivendicata sia da De Toth che da Savona (che appaiono tutte e due nei titoli in qualità di registi), abbia qualche responsabilità nelle lungaggini che appesantiscono il testo. E’ questo, infatti, il punto dolente dell’opera: moltissimi passaggi sembrano inutilmente insistere sulle marce dei soldati o sulle panoramiche delle truppe in movimento ed è come se mancasse, in definitiva, un armonico taglio finale per rendere tutto più leggero ed appetibile. La truce vicenda, di sapore storico, non può certo essere presa come un testo attendibile sotto questo aspetto, ma conserva un discreto fascino. Figure mitiche come Gengis Khan hanno sempre un buon riscontro sullo schermo, sebbene né il ruolo del leggendario condottiero né l’interpretazione di Roldano Lupi siano in questo caso memorabili. A lasciare un segno, rosso come gli infuocati titoli di testa, ne I mongoli è soprattutto uno strepitoso Jack Palance nella parte di Ogotai, bellicoso figlio di Gengis Khan. A finire sotto i colpi della sua frusta anche la sua amata Huluna, una Anika Ekberg in qualche frammento degna della fama ottenuta ne La dolce vita (1960, regia di Federico Fellini). 

Per altro la stessa Huluna avrà l’occasione di provare l’utilizzo della frusta dalla parte del manico ai danni della povera Amina (Antonella Lualdi), rappresentante femminile dei polacchi, avversari dei mongoli nella storia narrata. L’eroe degli europei è invece Stefano di Cracovia (Franco Silva), guerriero di sorprendente indole pacifista (ma comprensibile in virtù del terribile nemico in questione), affiancato da Enrico di Valois (Gianni Garko), personaggio che prima tradisce e poi trova il riscatto. L’intreccio è tutto sommato ben orchestrato, i personaggi ci sono, ed è comunque interessante notare come i due interpreti più validi (Palance e la Ekberg) prestino servizio ai cattivi di turno. Freda non tradisce nelle scene di battaglia di cui sono anche da segnalare quegli aspetti storici come le tattiche o gli strumenti di guerra, valgano a titolo d’esempio le pregevoli torri d’assedio che si vedono all’opera. Manca, ma è un limite tipico di moltissimo cinema di genere di produzione italiana (o prevalentemente italiana), un po’ di spessore, troppo vago l’intento pacifista di Stefano e poco incisivo il riscatto di Enrico. Strepitoso, sull’altro versante, l’Ogotai di Palance di cui nemmeno la Ekberg, al tempo all’apice della fama, riesce a tenere il passo.


               

Anita Ekberg





martedì 26 maggio 2020

LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA

574_LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA (Cat on a Hot Tin Roof); Stati Uniti, 1958. Regia di Richard Brooks.

Tratto dall’omonima pièce teatrale di Tennessee Williams, La gatta sul tetto che scotta è uno splendido film di Richard Brooks. ‘La gatta’ citata nel titolo dell’opera è lei, Margie, ovvero una insuperabile Elizabeth Taylor, qui in una delle sue più memorabili interpretazioni. Al suo fianco, un altrettanto straordinario Paul Newman nei panni del marito Brick, fornisce un’interpretazione particolarmente intensa e convincente. I due attori, la cui bellezza è più volte ribadita nel film, si superano in tema di qualità di recitazione, sorreggendo, con la loro presenza scenica e i loro ficcanti dialoghi, gran parte dell’opera. Non che il resto del cast non sia adeguato al loro livello: ottimo Burl Ives nelle vesti di Harvey Big Daddy Pollitt che, come intensità di interpretazione, non stona affatto al fianco delle due star principali, ma bene anche le altre figure principali della storia. I tre personaggi citati sono elementi di grande peso nell’economia emotiva della trama: occorreva quindi bilanciare l’equilibrio tra le personalità presenti in una vicenda che si snoda, principalmente, solo nei rapporti interpersonali e solo all’interno della grande residenza Pollitt. Tutta la tensione scaturisce in questo ristretto ambito, poggiando unicamente sull’esiguo numero delle figure coinvolte: per trovare il suddetto equilibrio, ai tre ruoli significativi vengono opposti tre personaggi che hanno lo spessore di macchiette. Il primogenito di casa Pollitt, Cooper (Jack Carson) è un burattino manovrato dall’arrivista moglie Mae (Madeleine Sherwood), acida donnucola circondata dai tanti marmocchi, mentre sorprende la capacità di Judith Anderson (indimenticabile e inquietante Mrs Danvers in Rebecca - La prima moglie di Alfred Hitchcock) di calarsi negli sciatti panni di Ida, la consorte di Harvey Big Daddy


Ma che il testo tratto da un dramma teatrale preveda personaggi eccellenti e ben incastonati nella storia è prevedibile; va riconosciuto a Brooks e al co-sceneggiatore James Poe, di riuscire a mantenere sullo schermo le qualità dell’opera originale; grazie anche all’indovinatissimo cast, certo, ma anche questo è un parziale merito del regista. Se c’è di mezzo Tennessee Williams è prevedibile che la vicenda contempli qualche aspetto torbido; erano gli anni cinquanta, (il film è del 1958, il dramma teatrale del 1955) ma l’autore era in anticipo sui temi della futura contestazione. Nella trasposizione cinematografica, Brooks e Poe, per motivi di censura, devono eliminare il punto cruciale della versione teatrale: è una decisione rischiosa e, in effetti, proprio questo è in genere il limite imputato alla pellicola. A teatro, Brick aveva una relazione omosessuale con Skipper, suo compagno nella squadra di football; questo aveva messo in crisi la sua relazione con la moglie Margie. Harvey Big Daddy aveva da sempre prediletto Brick al primogenito Cooper, ma il fatto che questi non avesse eredi era un serio problema; così come l’essere omosessuale, ovviamente, tenendo conto che la storia è ambientata nel sud degli States, un ambiente fortemente conservatore.




Naturalmente si giocava, almeno in parte, sull’opacità di certe situazioni, visto che Brick era regolarmente sposato con una donna, molto bella tra l’altro; e proprio l’ipocrisia era il vero tema dell’opera. Era ipocrita l’istituzione famigliare, visto che delle tre famiglie della storia nessuna funzionava: Brick e Margie separati in casa; Harvey sopportava malvolentieri Ida che, a sua volta, subiva le angherie del marito; Cooper, un uomo debole, si lasciava manovrare da Mae nella speranza che il risultato finale compiacesse il padre. Ed era ipocrita il sistema economico che celebrava, come persone di successo, quelli che altro non erano che opportunisti sempre intenti a cercare il proprio tornaconto. 


E, almeno fino al confronto finale tra Brick e il padre, risultava ipocrita anche l’idea di amore che si spacciava nell’odierna società, visto che veniva dichiarato tra i membri della famiglia ma sembrava non essercene traccia. Era un castello di ipocrisie che permeava tutti gli strati della comunità americana e che, nell’intenzioni di Tennessee Williams, veniva messo in crisi dalla colpa più grave, più inconfessabile, essere omosessuale. Crollando quel tabù, Brick era omosessuale o quantomeno bisessuale, tutte le altre bugie venivano spazzate via. Nel film, questo dettaglio cruciale, il dettaglio cruciale, non c’è: Brick era semplicemente amico di Skipper; amico per la pelle. Ci sono delle allusioni, questo si; ovviamente il testo le permetteva, visto che nell’originale non erano pure illazioni ma riferimenti a qualcosa di concreto. Ma, nel film, di fatto, quello che manda in crisi Brick, e di conseguenza tutto il resto, è l’idea che la moglie abbia sedotto l’amico e che questi, per senso di colpa, si sia suicidato. Poco prima del suicidio, Skipper, telefonò a Brick, che però non volle parlarci: questo alimentava il rimorso nell’uomo, che trovava conforto solo nel whiskey e nel disprezzo per la moglie, per la famiglia, per tutto quanto il mondo anche se soprattutto per sé stesso

In genere, si fa notare che l’amicizia virile non è un pretesto così forte per scatenare una simile tempesta emotiva come quella che si abbatte sulla famiglia Pollitt; ad esempio si nota come alcune punte di astio in certe parole di Harvey nei confronti del figlio, potrebbero essere giustificate solo dalla delusione per l’omosessualità del giovane. Anche lo stesso risentimento di Brick nei confronti di Margie appare esagerato, soprattutto sembra strano il non aver chiarito in precedenza i passaggi della serata tragica che vide l’incontro tra la donna e l’amico e il successivo suicidio di quest’ultimo. A teatro, in quella drammatica serata, Brick più che l’amico perse l’amante; nella versione cinematografica l’aspetto carnale della vicenda è invece disinnescato (in ossequio al codice Hayes).

Questo è, in genere, il limite imputato a La gatta sul tetto che scotta di Richard Brooks. Come attenuante, a questo difetto, si sostiene che lo spettatore, specialmente quello odierno, più smaliziato, può facilmente capire anche quanto non viene detto e, quindi, in modo un po’ artificioso, ricostruire l’autentica dinamica che scatena il terremoto emotivo. In realtà non è affatto necessario. Il film funziona alla grande, la trascinante verve interpretativa, il carisma ipnotico della figura di Liz, i dialoghi taglienti di Newman, l’esuberanza corpulenta e caratteriale di Burl Ives, la regia magistrale di Brooks, la splendida fotografia di William H. Daniels, e altro ancora: non manca proprio niente, a La gatta sul tetto che scotta




Non c’è tempo, per accorgersi che manchi qualcosa, coinvolti e travolti come siamo dalle numerose spirali emotive che si aprono come squarci nella serata a casa Pollitt: la crisi tra Brick e Margie che si dipana parola dopo parola; parole sillabate, quasi centellinate dall’uomo, tra un cambio di calze e una sistemata ai capelli della moglie. E il vecchio Harvey, che è stato rassicurato, mentendo, sulle condizioni di salute, e che poi invece scopre la verità; e la povera Ida, umiliata e maltrattata dal marito, che trova però la forza di reggere l’urto del crollo generale in modo ottusamente solido forse meglio di chiunque altro, mentre Cooper e Mae si affannano ma vedono svanire via via tutti i loro sogni di grandezza. Certo, il castello narrativo è opera di Tennessee Williams; ma la messa sullo schermo di Richard Brooks, grazie anche alle interpretazioni dei suoi attori, Taylor e Newman in testa, è magistrale e ne enfatizza l’efficacia. 


Pertanto, non è affatto vero che aver omesso l’omosessualità di Brick sia il limite del film di Brooks; semmai il contrario. Pur senza un dettaglio che, volendo, può anche essere inteso come pruriginoso, il film funziona lo stesso e funziona in modo sontuoso. Il tradimento dell’amicizia, la mancanza di amore, l’ipocrisia, sono temi generali che esulano dalle preferenze di genere, che sono elementi di un altro piano del discorso. Certo, La gatta sul tetto che scotta poteva essere un film che aiutasse a sdoganare il tabù dell’omosessualità, ma il codice Hayes, nel 1958, non lo permetteva. Brook spostò quindi l’attenzione su un piano superiore, quello dell’ipocrisia che, volendo, comprende anche il tema dell’omosessualità come stato personale che è buon gusto tenere nascosto. Riuscendo così, a trasformare un testo che verteva su un tema specifico in un’opera dai valori universali.
Che è il ruolo del cinema, quando è davvero grande.




Elizabeth Taylor







domenica 24 maggio 2020

POSTA GROSSA A DODGE CITY

573_POSTA GROSSA A DODGE CITY (A big hand for the Little Lady); Stati Uniti, 1966. Regia di Fielder Cook.

Curiosissimo western che ha i toni da commedia, Posta grossa a Dodge City del non indimenticabile regista Fielder Cook, sorprende almeno tre volte. Ma, prima di queste tre liete sorprese, che bisogna ammettere sono un bel gruzzolo nell’ottica della valutazione del film, la pellicola lascia già abbastanza spiazzati, anche se non propriamente nel senso positivo del termine. Le facce con gli occhi strabuzzati, le espressioni eccessivamente stupefatte: lì per lì non è che riescano tanto convincenti le interpretazioni così caricate degli attori. Poi diventa chiaro il tema farsesco dell’opera e, soprattutto, prende piede la partita a poker che, almeno un poco alimenta la tensione competitiva, anche se non eccessivamente. Per altro, una volta che ci si cala nell’ottica giusta, gli attori sono apprezzabili nella loro ‘recita teatrale’: Henry Fonda stupisce, nella fase iniziale del suo ruolo (è Meredith), anche se ora della fine si rivelerà in linea con il suo curriculum; e pure Joanne Woodward (Mary) è convincente, chiamata anche lei in una parte a doppia faccia; Jason Robards (Drummond) fa il suo, ed è protagonista di un curioso pre-finale; Robert Middleton (Wilcox) è invece strepitoso nella sua tipica interpretazione; bene anche Burgess Meredith (il dottore), Charles Bickford (Benson) e Kevin McCarthy (Aldo). La storia è incentrata sull’annuale partita di poker che cinque facoltosi abitanti di Dodge City disputano; Meredith, Mary e il figlioletto, sono coloni che passano di lì per caso, e l’uomo, nonostante la moglie lo scongiuri di lasciar perdere, si lascia coinvolgere dal gioco. 

La cosa non è così istantanea, perché la partita è aperta ai soli abituali cinque giocatori e la vicenda si inerpica in una serie di sviluppi per giustificare il fatto che poi Meredith venga accettato. E qui arriva la prima sorpresa: perché la storia tiene. Forse complice il tema della partita a carte o il clima rallegrato dalle risate di Wilcox o dalle stoccate di Drummond, fatto sta che non ci si annoia, questo è certo. Poi, dalla partita esce di scena Meredith, poiché gli viene un attacco cardiaco e, per quanto questa sia una situazione praticamente inedita nel western, non è questo il secondo coniglio che Cook pesca dal cilindro. 

Fuori gioco Meredith, per non perdere l’intera posta (tutto i loro risparmi, che l’uomo ha sciaguratamente puntato) Mary prende il posto del marito. Passaggio curioso, anche per via dell’aspetto a dir poco gradevole della Woodward; comunque sia, la donna, per far fronte all’escalation delle puntate, decide di rivolgersi alla banca cittadina. Di passaggio per Doge City, senza alcuna garanzia e senza essere conosciuta in paese, si reca a chiedere un prestito: la scena comicamente assurda è rimarcata dalla fila indiana di Mary e dei suoi compagni di gioco che si recano alla banca. Ma la sorpresa, la seconda delle tre di cui si accennava, è che la donna, contrariamente a quanto supposto, una garanzia da proporre al banchiere la trova: la mano di carte che ha ereditato dal marito, quando a questi è venuto il colpo. Bella pensata, ma non sembra bastare, né al banchiere e nemmeno al regista. E allora la terza sorpresa è ancora più spiazzante e manda all’aria tutta l’idea che ci siamo fatti guardando il film: quasi nulla di quanto abbiamo visto è come ci è apparso. La cosa buffa è che la ragazza ci fa un figurone, tanto da sconvolgere anche un cinico come Drummond, che finalmente torna a casa, dove era atteso da ore per il matrimonio della figlia. 


L’uomo appena arrivato si apparta con colui che doveva divenire suo genero, gli dà una mancia, gli consiglia di lasciar perdere sua figlia e lo sprona a cercarsi una donna vera. Una come Mary, insomma. L’unico barlume di positività nella storia: valori sani, ingegno, forza d’animo, faccia tosta, una perfetta icona del sogno americano. Che in realtà è un bluff. La donna, lungi dall’essere la brava ragazza intesa dai compagni del poker, è una giocatrice d’azzardo di rango superiore ai cinque giocatori e, coi complici, ha messo nel sacco tutti, spettatori compresi. In un dialogo, nel finale, Meredith e Mary difendono la ‘legittimità’ del bluff e sembrano anche convincere il banchiere a cui era scappata la parola imbroglio

Ma è una teoria che fa un po’ acqua: un bluff è qualcosa di contemplato dal gioco mentre quello a cui assistiamo assomiglia di più ad una truffa. Certo, pare che la cosa sia motivata da una precedente ingiustizia ma, in ogni caso, la tresca non sembra troppo pulita, del resto viene tenuta opportunamente segreta. E, in questo senso, la storia che i bluff non si possano ‘vedere’, visto che non si è pagata la posta per poterlo fare, come fa notare uno dei giocatori beffati, non è una scusa sufficiente per giustificare la clandestinità con cui i quattro imbroglioni si tutelano da eventuali rivendicazioni. Insomma, forse possiamo anche noi essere accondiscendenti per i bellissimi occhi della Woodward, ma viene onestamente difficile parteggiare per un banchiere del far west. 


Joanne Woodward