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venerdì 31 dicembre 2021

QUANDO TUONA IL CANNONE: Capitolo 8_CIELI DI BATTAGLIA

Quando la città dorme presenta:

QUANDO TUONA IL CANNONE

IL KOLOSSAL DOSSIER

Capitolo 8

CIELI DI BATTAGLIA 

La Campagna di Gallipoli, che abbiamo visto in modo esaustivo nel precedente capitolo, ci introduce anche nella rassegna di pellicole prevista per questo mese. Il tema è quello dei primi approcci alla guerra aerea, un argomento che ha sempre affascinato il cinema e che ritornerà in futuro nel nostro colossal dossier. Per il momento, per questo Cieli di Battaglia, dopo l’apertura con Son Mektup, film turco ambientato ancora in quel dei Dardanelli, possiamo gustarci Ali, uno dei capolavori assoluti di Hollywood, opera del formidabile regista William A. Wellman. L’istrionico autore lo ritroveremo in seguito, sempre in questo capitolo, come del resto il mitico Gary Cooper che, seppur alle primissime armi, in Ali riesce a sfruttare al meglio l’irrisorio spazio a disposizione. Ma prima di parlare dei successivi contributi di queste due stelle del cinema americano, va presentato un altro maestro assoluto di Hollywood, Howard Hawks, a cui si deve lo splendido La Pattuglia dell’Aurora. Si è detto che la guerra aerea del primo conflitto mondiale era ritenuta particolarmente seducente per l’industria cinematografica americana e, infatti, ecco arrivare un’altra stella, ovvero Errol Flynn, in Missione all’alba, sostanziale remake del film di Hawks di cui si è scritto poco sopra. Per la verità il cinema di guerra aerea piaceva probabilmente a tutti, non soltanto agli americani, e L’equipaggio è la dimostrazione di come anche i francesi ci sapessero ricavare ottimi film, specie se a dirigerli era chiamato un califfo come Anatole Litvak. Il successivo La Squadriglia Lafayette vede all’opera alla macchina da presa ancora William A. Wellman, per quello che sarà il suo non certo indimenticabile congedo con la regia. Il film non è certo brutto ma si fa soprattutto ricordare per la presenza di un giovanissimo Clint Eastwood. Zeppelin è invece un curioso film degli anni settanta, non particolarmente riuscito sebbene il tema sia piuttosto interessante; ma delude un po’ le attese e c’è il rischio che, alla fin fine, impressioni maggiormente la presenza di Elke Sommer rispetto a quella dei giganteschi dirigibili tedeschi. E, per rimanere in tema di personaggi femminili, la chiusura del capitolo spetta alla pimpante Colleen Moore vedette de Le Sette Aquile, dove surclassa Gary Cooper che, come anticipato, ritorna di nuovo sullo schermo all’interno di questa stessa rassegna. Forse perché distratti dalle acrobazie degli aeroplani, non ci siamo accorti, ma siamo già nel 1915 e da più parti, dagli interventisti nella penisola agli stessi paesi belligeranti di entrambi gli schieramenti, si reclama l’entrata in guerra dell’Italia. Cave Adsum, sarà la risposta; ma lo vedremo il mese prossimo.   

Il programma

  

Capitolo 8: CIELI DI BATTAGLIA

Dalla notte del 31 dicembre

 

Tema


Primi scontri aerei.

Film


 

1_SON MEKTUP

 

2_ALI

 

3_LA SQUADRIGLIA DELL’AURORA

 

4_MISSIONE ALL’ALBA

 

5_L’EQUIPAGGIO

 

6_LA SQUADRIGLIA LAFAYETTE

 

7_ZEPPELIN

 

8_LE SETTE AQUILE

 


giovedì 30 dicembre 2021

TEMPESTA SU WASHINGTON

949_TEMPESTA SU WASHINGTON (Advise &consent); Stati Uniti, 1962; Regia di Otto Preminger.

Esempio perfetto della poetica del cinema di Otto Preminger nel suo periodo più maturo, Tempesta su Washington è un film notevole. Stavolta sul tavolo da anatomia del lucido e implacabile regista finisce la Costituzione Americana, per rifarsi alle sue parole; nello specifico è il Senato degli Stati Uniti d’America ad essere teatro della vicenda tratta dal romanzo Premio Pulizer Advise & Consent di Allen Drury. Il titolo del libro, che poi è anche quello originale del film, fa riferimento alla forma collaborativa (consulenza & consenso) che ci deve essere tra la Presidenza degli Stati Uniti e il Senato nella nomina di tutti gli alti ufficiali governativi. In questo caso si tratta del segretario di stato e se Allen ci ricava un romanzo sorprendente (opera prima e frutto di un’esperienza come corrispondente al congresso) Preminger, da uno spunto tutto sommato tanto labile, imbastisce un gran bel film hollywoodiano che, oltretutto, si colloca coerentemente nella sua cifra stilistica. Il formidabile autore si premura di fornirci subito le chiavi di lettura del suo film: per manifesti, locandine e titoli è chiamato Saul Bass (ormai un habitué di Preminger) che, con la sua sublime arte grafica, stilizza ma al contempo definisce al meglio il messaggio che deve veicolare. In questo caso abbiamo la figura del Campidoglio, sede del Congresso, scoperchiata e dal quale emergono, a seconda dei casi, ora il titolo del film ora i nomi degli artisti coinvolti. Quest’immagine, richiamata poi nel film anche da una battuta del senatore Colby (uno strepitoso Charles Laughton) è esattamente l’operazione che compie Preminger, andando ad analizzare nel dettaglio i contorti meccanismi della politica americana. 

Ma attenzione: la poetica matura del regista è sempre un bisturi a doppia lama, come appunto indica la grafica di Bass, stilizzata ma talmente efficace da essere più chiara di un disegno realistico. Lo sguardo di Preminger, che ci porta ad osservare come funziona la politica statunitense nel dettaglio (la semplice nomina di un segretario di stato), non è affatto malevolo, anzi. E’ perfettamente percepibile una sorta di ammirazione per la nobiltà di intenti che, in fondo, grosso modo tutti i protagonisti hanno, anche quelli che si macchiano delle azioni più riprovevoli. Al tempo stesso, Preminger, se da immigrato nato nell’Europa imperiale guarda con benevolenza e ammirazione la funzionalità dell’apparato democratico statunitense, non lesina i colpi bassi, tremendi, a quelle istituzioni americane, come la MPAA (Motion Pictures Association of America) e il suo Codice Hays, che interferivano con la libertà autoriale del cinema. C’è il primo gay-bar della storia del cinema mainstream, e già questo non è un dettaglio poi secondario, se consideriamo le conseguenze della vicenda del ricatto al senatore Anderson (Don Murray). Ma c’è soprattutto la figura di Herbert Gellman, ambiguo testimone che è interpretato da quel Burgess Meredith finito nella lista nera di Hollywood nel dopoguerra con l’accusa di essere simpatizzante comunista. La stessa che ora il suo personaggio imputa al senatore Leffingwell (Henry Fonda), il suddetto candidato al ruolo di segretario di stato. Come sempre, in Preminger, l’accusa di Gellman è intrisa di menzogne e di verità allo stesso tempo. 

Fonda, visto il suo aspetto e anche il suo curriculum (basti citare La parola ai giurati, 1957, regia di Sidney Lumet) era garanzia di moralità ma qualche scheletro nell’armadio il suo Leffingwell ce l’aveva. Niente di drammatico, sia chiaro: da giovane aveva avuto simpatie comuniste, era vero. Ma se ora lo confessava, ci sarebbero andati di mezzo anche i compagni di allora: in America, essere comunisti era grave ma anche esserlo stato in passato poteva avere sgradevoli conseguenze. Leffingwell decide così di smascherare le bugie di Gellman omettendo, però, di chiarire laddove questi diceva il vero. In sostanza mente alla commissione istituita dal senato per valutare la sua idoneità come candidato: e, giustamente, per un politico mentire è un reato capitale; perlomeno in America. Come si vede la situazione non è così netta: il candidato non è comunista e se non ammette i suoi trascorsi è solo per non danneggiare altri che non hanno il suo peso nella società e verrebbero travolti dallo scandalo senza avere, come nel suo caso, l’appoggio del Presidente degli Stati Uniti. Una situazione tipicamente premingeriana, tanto precisa nel descrivere i risvolti morali della realtà ma da cui è impossibile ricavarne una posizione netta. 

Del resto, in un dialogo tra il senatore Anderson e il senatore Monson (Walter Pidgeon) emerge proprio la contraddizione della realtà: il primo, incaricato di presiedere la suddetta commissione, aiutato dalle manovre del senatore Colby, ha capito che Leffingwell ha mentito. Monson, lo invita alla moderazione, osservandogli come in politica non sia mai tutto bianco e nero, ma Anderson sbotta, in questo caso sì, la questione pare chiara: una bugia è una bugia. Il riferimento al bianco e nero ci riporta alla superba fotografia di Sam Lewitt, che ammanta con una suprema definizione dalle mille tonalità di grigio l’aula del Campidoglio. In pratica un bianco e nero (elementi in contraddizione) quasi senza bianchi e neri. Coerente con questo doppio binario anche l’ambientazione della storia: prevalentemente ci si trova nell’aula del senato, ampia, aperta, pubblica, d’accordo. 

Ma con i tanti corridoi, le scalinate, il trenino, viene al contempo mostrato l’aspetto labirintico della politica. Perché, in questo senso, è da sottolineare come, in un sistema che si basa unicamente su due forze politiche (viene anche detto esplicitamente), in realtà poi il confronto avvenga tra esponenti di un’unica fazione, quella repubblicana. Anche questo è un tema tipicamente nelle corde del regista: se lo scontro fosse tra repubblicani e democratici sarebbe possibile darne una lettura manichea, buoni vs cattivi o viceversa. Ma nel momento in cui l’aspra disputa avviene tra i membri dello stesso partito, con Colby totalmente avverso a Leffingwell di cui Van Ackerman (George Grizzard) è invece sfegatato sostenitore, allora questo discorso viene meno. Colby e Van Ackerman si rendono protagonisti di azioni ignobili: se il primo, tipico conservatore, è un malefico rovistatore e burattinaio, il secondo, fanatico pacifista, fa addirittura peggio, arrivando a ricattare Anderson e a causarne il suicidio. Tornando all’ambientazione della storia, oltre ai luoghi della politica Preminger concede abbastanza spazio ai momenti di vita privata dei tantissimi protagonisti: ma, a parte Anderson, che comunque finisce tragicamente per i suoi trascorsi omosessuali, nessuno di loro sembra essere il rappresentante della più tipica e capillare istituzione americana, la famiglia tradizionale. E dire che sono tutti membri del partito conservatore: scapoli, vedovi, o indefiniti e indefinibili come Colby. Però la presenza femminile non è totalmente trascurata da Preminger: oltre alla moglie di Anderson, c’è una escort, che esce dalla camera del senatore Smith (Peter Lawford), scapolo impenitente, e c’è soprattutto l’amante del senatore Munson, vedovo. Dolly è interpretata dalla splendida Gene Tierney che torna sulle scene dopo un’assenza di sette anni per i problemi di salute legati alla disgrazia occorsa alla sua secondogenita. 

Fa un po’ tristezza vedere una diva come Gene relegata in una parte tanto secondaria, sebbene non si possa che essere grati a Preminger per averci riportato sullo schermo la sua Laura. C’è da dire che, a parte forse Laughton, (davvero bravissimo anche nel valorizzare i suoi spazi; purtroppo al suo ultimo film prima della morte) l’estrema coralità della storia riserva poco tempo procapite agli interpreti: anche Fonda, che figura come prim’attore, si deve accontentare di poca visibilità. In effetti un po’ stupisce, la scelta di Preminger, avendo Fonda nel ruolo che potrebbe essere il principale, preferisce, peraltro fedele alla sua idea di cinema, dare uno sguardo complessivo, ramificato in tutte le diramazioni che l’intrigo propone. Un intrigo che si risolve in niente: questo infatti il risultato del tentativo di nominare il segretario di stato. 

Ma, a parte le conseguenze gravi interne al racconto (come il suicidio di Anderson), Tempesta su Washington ci lascia in eredità un’interessante analisi sulle istituzioni americane e sull’America in genere. C’è, come detto, una positività d’intenti complessiva: anche le persone più riprovevoli, come Colby o Van Ackerman, sono animate da propositi positivi. Colby ha della ruggine personale con Leffingwell ma, nel finale, arriva pubblicamente ad ammetterlo, scontando, in un certo senso, penitenza; è vero, forse l’esperto senatore non capisce la positività e l’apertura mentale del candidato, ma è un vecchio conservatore del sud, a cui, in questo senso, si può concedere una certa dose di buona fede. Van Ackerman pecca di fanatismo e, ben più gravemente, di non farsi scrupoli, causando la morte di Anderson: ma il suo intento è pacifista e, quindi, apprezzabile, almeno in linea teorica. Per contrasto, i personaggi positivi, Leffingwell in testa, hanno tutti qualche neo; è nella superba poetica di Preminger, lo si è detto. Ma i passaggi migliori sono legati a due figure un po’ anonime, tratteggiate in modo volutamente più vago, indefinito: il vicepresidente (Lew Ayres) e il senatore Smith, il donnaiolo. Se il primo aveva apertamente manifestato il suo sentirsi inadeguato in caso che il presidente, gravemente malato, dovesse morire, il secondo era sembrato semplicemente allineato alle disposizioni di partito. 


Eppure, nel momento critico, quello della votazione finale, è proprio quest’ultimo che ha una crisi di coscienza e vota contro il candidato che aveva colpevolmente mentito alla commissione, facendo finire pari la votazione e mandando a monte i piani di Munson e del Presidente. Che, nel frattempo, muore. Il suo vice, che si era sentito impreparato fino ad un minuto prima, nel momento in cui è chiamato al suo dovere, prende il toro per le corna e non conferma, come sarebbe stato in suo potere, la nomina di Leffingwell. Eccolo, lo spirito americano secondo Preminger: persone mediocri o comunque non eccezionali che, alla bisogna, sanno fare il proprio dovere. Ed è grazie a loro, gente semplice e non eroi, campioni o supereroi, se gli Stati Uniti sono divenuti il paese leader a livello mondiale. E, in questo senso, pienamente da ammirare. Peccato che, col tempo, pare se lo siano dimenticati loro stessi e ora celebrino e, ahinoi, votino persone dallo smaccato egocentrismo. Come un qualunque paese europeo del primo ventesimo secolo. 


Gene Tierney


Betty Murray AKA Betty Johnson 


martedì 28 dicembre 2021

ANGELICA E IL GRAN SULTANO

948_ANGELICA E IL GRAN SULTANO (Angélique et le sultan); Francia, Germania, Italia, Tunisa, 1968; Regia di Bernard Borderie. 

Quinto episodio della saga della bellissima nobildonna francese, Angelica e il Gran Sultano, prosegue nel viaggio verso sud delle avventure dell’eroina impersonata dalla magnifica Michèle Mercier. La bellezza della Mercier rimane anche in questo capitolo la componente più importante ed apprezzabile del film ma va detto che anche Angelica, parlandone strettamente come personaggio, è assai carismatico. Anche ne Angelica e il Gran Sultano appare perfettamente a suo agio, come del resto nei precedenti, sebbene la trama le riservi qualche passaggio davvero scomodo e doloroso. Se il recente L’indomabile Angelica aveva visto la saga spostarsi dalla Francia al Mediterraneo, in questo Angelica e il Gran Sultano si arriva in Africa, e precisamente in Algeria. La componente sadomasochistica che è sempre stata il filo rosso delle storie della bella marchesa, subisce ora la connotazione intrinseca alla religione musulmana, che nel racconto ritiene la schiavitù al signore di turno (in questo caso il Gran Sultano) una questione di assoluta importanza e la propone quasi come un privilegio. Ovviamente Angelica non si sottometterà né si concederà all’eminente signore, anche perché ormai è consapevole che il marito Jeoffrey (Robert Hossein) è vivo ed è alla sua disperata ricerca. Il fortunato che riuscirà finalmente a trovarla e a condurla sulla propria nave, chiudendo con un lieto fine, certamente meritato, le favolose gesta della più bella tra le eroine francesi viste al cinema. Non sono certo capolavori, questi film di Borderie dedicati alla bella Angelica: ma, non appena abbiamo finito di vederne uno, già ne abbiamo nostalgia.






Michèle Mercier









domenica 26 dicembre 2021

IL MOSTRO DELLA LAGUNA NERA

947_IL MOSTRO DELLA LAGUNA NERA (Creature from the Black Lagoon); Stati Uniti, 1954; Regia di Jack Arnold.

Capolavoro assoluto del cinema, Il Mostro della Laguna Nera del formidabile Jack Arnold è un film che offre una serie di chiavi di lettura che ne giustificano la fama in ogni ambito. Volendo è infatti opera di puro intrattenimento che si sviluppa narrativamente come un piccolo gioiello dal punto di vista della costruzione avventurosa. Arnold non sfrutta più di tanto, come potrebbe essere facile pensare, l’effetto suspense per la presenza della Creatura (come da definizione dell’opera originale): del resto la figura dell’uomo pesce era già stata sbandierata su poster e locandine per attizzare la curiosità del pubblico. Il regista gioca comunque con questo elemento con saggia maestria mostrandone quasi subito semplicemente una mano mostruosa per poi, comunque abbastanza presto nell’economia del racconto, mettere bene in mostra lo strano essere sullo schermo. L’efficacia della rappresentazione della Creatura, sia la sua forma che la sua capacità di abitare la storia, ad esempio quando nuota sott’acqua senza maschere per l’ossigeno visibili, è un altro punto di forza del film. Il Mostro della Laguna Nera è una produzione Universal e il fascino della Creatura la colloca di diritto a fianco dei vecchi protagonisti mostruosi dei film horror che lo studio mise nelle sale negli anni 30. In una galleria di personaggi dell’orrore marchiati Universal, accanto a Dracula, alla creatura di Frankenstein, all’Uomo Invisibile, alla Mummia, all’Uomo Lupo, il Mostro della Laguna Nera ha e avrà sempre un posto di rilievo. Quello di Arnold è infatti considerato, giustamente, un film di culto, con schiere di appassionati, anche illustri se pensiamo a Guillermo del Toro e al suo La forma dell’acqua, splendido tributo uscito oltre cinquant’anni dopo al film del 1954. 

Accanto a questi motivi, che già rendono immortale Il Mostro della Laguna Nera, ci sono anche quelli propri del racconto, che rinverdiscono e adeguano il mito della bella e la bestia, ricordando, in alcuni passaggi, l’interpretazione che ne dava un altro film sui mostri degli anni 30, lo splendido King Kong di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack. L’aspetto più interessante dell’opera di Arnold è però un altro. I film del terrore citati sono, come detto, degli anni 30. Sono film di genere fantastico in parte legati al folclore o alle tradizioni (Dracula, La Mummia), o alla paura della nostra matrice primitiva (King Kong, L’Uomo Lupo) ma altri avevano già spunti scientifici o pseudoscientifici (Frankenstein, L’Uomo Invisibile). Gli anni 30 furono il decennio che portò il mondo nell’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale e quei film coagulavano sullo schermo l’angoscia che aleggiava al tempo, anticipando il terrore che si scatenò poi nella realtà. Quasi in risposta a questo, nel dopoguerra ci fu, soprattutto negli Stati Uniti d’America, il paese che uscì trionfalmente dal conflitto, un forte moto di ottimismo. Questo aspetto è facilmente riscontrabile nel cinema fantastico che prevalentemente ha come scopo quello di intrattenere il suo pubblico e quindi cerca di coglierne e di soddisfarne le aspettative con un ruolo quasi catartico. Infatti, uno dei generi che meglio incarna lo spirito degli anni 50 è la fantascienza americana dei B-movie, film d’intrattenimento ma spesso d’alta scuola, di cui lo stesso Arnold può essere considerato un maestro. 

La fantascienza celebrava la conquista dello spazio con lo spostamento della frontiera, essendo ormai esaurita quella ad ovest, quella del selvaggio west, oltre i confini del pianeta. Era anche il genere che celebrava la competizione con l’Unione Sovietica che nella realtà era il nuovo nemico e il concreto avversario nella corsa nello spazio. Spesso, nei film di fantascienza meno raffinati e più conformati del periodo, il dualismo con i russi era usato in modo strumentale per esaltare le ragioni dell’America, confinando idealmente il nemico sovietico nel ruolo dei mostri o degli extraterrestri cattivi. Arnold, che come detto della corrente era uno dei maestri, utilizzò il genere con una capacità superba e assai più acuta nell’interpretazione di quella che era la realtà del tempo. Gli anni cinquanta non erano affatto quei fabulous fifties che si raccontava, o almeno non solo: sotto la coltre ostentata del benessere del boom economico covavano tensioni che sarebbero rimaste in parte congelate dalla Guerra Fredda e in parte in procinto di esplodere nel decennio successivo. Insomma, il clima era meno idilliaco di quello che si poteva pensare a prima vista. 

Per questo Il Mostro della Laguna Nera, seppur si presenti, in modo programmatico in più di un dialogo, come un film fantascientifico di matrice ottimista, finisce per essere paragonabile ad un horror degli anni ’30. Anche qui siamo ad una vigilia di una guerra, quella cosiddetta fredda coi sovietici, e il tema del racconto è infatti l’incapacità dell’uomo, anche negli anni 50, di confrontarsi con l’altro. Arnold in pratica, utilizzando il cinema di fantascienza, uno degli strumenti che celebrava, romanzandole come costume della settima arte, le conquiste dello spazio americane, ribaltava completamente il concetto, mettendo in luce i problemi che avrebbero attanagliato un mondo che manteneva ancora un’impostazione tra i suoi abitanti di reciproca aggressività. Da un punto di vista squisitamente visivo, il film si avvale di una messa in scena accattivante: Arnold conosce il mestiere e opera le scelte azzeccate per far funzionare il suo film, mantenendo fede alle premesse sopracitate. Il bianco e nero, nel 1954, non sembrava adeguato al genere fantascientifico ma in questo caso funziona alla grande, sia da un punto di vista delle atmosfere dell’ambientazione che nel richiamare i citati horror degli anni 30. L’incipit e parte della spedizione hanno un carattere scientifico, alimentato anche da dettagli tecnici come l’attesa durante la risalita per la decompressione da parte dei subacquei; e c’è anche un tentativo di comprendere scientificamente l’elemento irrazionale, quello della mostruosità della Creatura, paragonando lo spazio infinito ai remoti angoli nascosti del nostro pianeta in particolare sotto il livello delle acque. 

Un quadro certamente positivo e in linea coi tempi, gli anni 50, ma la natura ambigua dell’umanità è già raffigurata dalla differente natura dei due personaggi maschili della storia: David (Richard Carlson) è animato da pura fede scientifica mentre Mark (Richard Denning) è dominato dall’interesse economico. Questa differente inclinazione si riverbera poi nel rapporto con la Creatura, un essere da studiare ma soprattutto da rispettare, per il primo, da catturare per trarne profitto, per il secondo. Curioso che la splendida protagonista femminile, Kay (una perfetta Julie Adams), pur se ufficialmente fidanzata col primo, non compia praticamente mai una scelta di campo decisa. 

Kay, elemento chiave della vicenda, è il contraltare della Creatura, con la quale inscena una splendida danza subacquea: la ragazza impersona la bellezza assoluta, e la Adams è superlativa, laddove la Creatura è un essere mostruoso. E proprio la bellezza di Kay ad ammaliare l’uomo pesce, sulla scorta dell’impostazione tipica della fiaba La Bella e la Bestia, ammorbidendone quasi magicamente l’aggressività. Arnold, però, cambia naturalmente qualcosa nel suo aggiornamento: Kay non è affatto un elemento passivo, la bella ragazza rapita che finisce alla mercé del mostro. La giovane è una studiosa che prende parte all’organizzazione della spedizione scientifica ma dimostra un’attitudine anche pratica, concreta, difendendo le ragioni di Mark, che finanzia la missione, anche dialogando col fidanzato David. Ecco, la grande bellezza de Il Mostro della Laguna Nera è proprio nella sottile insinuazione che Kay abbia comunque un lato oscuro. Non che si veda, eh, sullo schermo. La Adams in costume da bagno sfoggia una forma fisica spettacolare e, grazie alla pulizia delle linee anatomiche, alla forma del viso, al fascino dei grandi occhi chiari, come detto incarna l’ideale perfetto, anzi puro di bellezza. E, appunto, il mostro ne è l’esatta metà oscura. Eppure, nella Creatura alberga una forma di tenerezza, che è possibile riscontrare nella cura con cui evita di far male alla ragazza, nelle occasioni in cui la rapisce. E allora la domanda sorge spontanea: ma se la ragazza ne è l’immagine rovesciata, allora, mantenendo l’equivalenza, qualcosa di poco limpido forse lo nasconde. 

Una considerazione rafforzata proprio dalla bellezza impeccabile della protagonista; fosse stata una dark lady o anche solo una ragazza con un che di ambiguo, il paragone rovesciato non starebbe più in piedi. E l’accondiscendenza nei confronti di Mark, un individuo interessato solamente all’aspetto economico e insensibile alle ragioni dell’altro, potrebbe essere il gancio che cerchiamo. Come qualche mezzo dialogo che sfugge al controllo della giovane, ad esempio quando sembra piccata per la repentina risalita di Mark e David da una missione subacquea nella laguna. Per un attimo, ma poi la ragazza riprende subito il controllo, sembra quasi che Kay sia più preoccupata per la mancata riuscita dell’impresa che per un eventuale problema occorso ai due uomini. Sfumature e congetture? Forse. O forse un’insinuazione, da parte di Arnold, non netta e dichiarata, ma volutamente lasciata sospesa a metà, sospesa in un’ipocrisia tipicamente borghese. Nell’America degli anni 50 la bellezza non salverà più il mondo, come diceva il protagonista de L’idiota di Dostoevskij, ma sé stessa e i propri interessi.  

Julia

Julie Adams