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mercoledì 30 ottobre 2019

THE GREY

434_THE GREY ; Stati Uniti 2012Regia di Joe Carnahan.

Thriller che si affida soprattutto ad una dirompente colonna sonora degli effetti, The Grey di Joe Carnahan è un film ambientato nella freddissima Alaska. John Ottway (un intenso Liam Neeson) fa il cacciatore per conto di una compagnia petrolifera e il suo compito è proteggere i lavoratori dall’attacco delle belve feroci, prevalentemente lupi. Il rapporto con la morte sembra toccarlo da vicino, non solo per via del suo dispensarla agli animali: è turbato, e pensa addirittura al suicidio. E’ evidente, anche dalla lettera che sta scrivendo, che c’è dell’altro. Comunque il suo turno di lavoro finisce e si imbarca su un aereo che lo riporterà a casa: almeno quello era il programma, ma una tempesta si mette di mezzo e il velivolo precipita nel nulla innevato e ghiacciato del freddissimo stato americano. Naturalmente Ottway si salva e insieme a lui un piccolo gruppo di uomini, tra cui vale la pena segnalare John Diaz, (Frank Grillo), il bullo della compagnia che, a suo spese, imparerà a stare al mondo (ironia della sorte) perdendo la vita nel tentativo di cavarsela nel dopo-disastro aereo. Infatti, se scamparla ad un simile incidente pare a qualcuno dei sopravvissuti un benevolo segno divino, questo qualcuno non ha fatto i conti con i lupi che approfittano della situazione per attaccare il gruppo di uomini. Si scatena così una battaglia, nella quale si mettono in mostra il capobranco, un enorme lupo quasi surreale, e ovviamente Ottway, a sua volta capobranco degli umani. La similitudine tra i due schieramenti è esplicitamente rilevata da Diaz e già solo questo fatto smorza un po’ il valore simbolico della cosa. 

E nonostante il continuo ricercare da parte del regista passaggi toccanti (riuscendo nello scopo in un paio di occasioni), The Grey rimane nella memoria più che altro per gli spaventi, provocati prevalentemente con efficacia dalle improvvise impennate degli effetti sonori, più che da quanto mostrato sullo schermo. Che pecca anche un po’ troppo di credibilità: è evidente che si tratta di un’opera di finzione, ma passaggi come la fune improvvisata, il tuffo dal dirupo o il bagno dell’acqua gelida a cui Ottway sopravvive senza eccessivi patemi, sono più duri da digerire dell’artificiale aspetto delle belve, capobranco in testa. Alla fine rimane il solo Ottway, per gli umani: l’uomo contro la Natura, fredda e ostile. Non c’è dio, infatti, tra le montagne dell’Alaska, o almeno ne Ottway ne Carnahan ce lo trovano. E allora il nostro protagonista deve arrangiarsi a far da solo, anche il momento religioso: e proprio mentre osserva le foto dei compagni, dei loro cari, in un momento che vuole essere intimo, ecco che si accorge di essere nella tana del nemico. E gli inquilini, i lupi, tra cui l’enorme capobranco, sono in casa. Non certo un periodo fortunato, per il nostro amico.     



  

lunedì 28 ottobre 2019

PERCHE' SI UCCIDE UN MAGISTRATO

433_PERCHE' SI UCCIDE UN MAGISTRATO ; Italia 1974Regia di Damiano Damiani.

Dopo qualche anno di pausa, il regista Damiano Damiani ritorna sui temi dell’impegno civile con il film Perché si uccide un magistrato, titolo a pensarci bene piuttosto scioccante. Ma ancora più spiazzante è la traccia metalinguistica presente nell’opera, dove il regista Giacomo Solaris (Franco Nero, puntuale) mette in scena un film in cui un magistrato corrotto paga con la vita la propria condotta. Nella narrazione, il film nel film è una palese opera di denuncia, una facilmente leggibile metafora dell’operato del giudice istruttore palermitano Alberto Traini (Marco Guglielmi). Soltanto che l’opera di fantasia (alquanto ispirata alla realtà, come si è detto) si scopre essere fin troppo profetica quando l’ambiguo giudice viene ammazzato per davvero. Qui subentrano i sensi di colpa di Solaris che, nel cercare di spiegare la sua posizione puramente dialettica, sembra invaghirsi della bella vedova del magistrato, Antonia (una Francoise Fabian molto brava, algida ma conturbante al tempo stesso). Tra il giornalista/regista che cerca di dimostrare la sua estraneità alla piega che hanno preso gli eventi e il gioco di potere tra mafiosi, politici, colleghi di giornale, mentre la vedova prova a difendere l’onorabilità del marito, ci attende una svolta imprevedibile. Ma prima, non si può fare a meno di leggere, nella complessità dell’intreccio, una sorta di punto della situazione di Damiani sulla sua opera in materia di impegno civile. E’ dunque pericoloso trattare i delicati temi della società in quelle opere di finzione che fungano anche da denuncia? 

C’è il rischio che qualcuno prenda alla lettera quelle che dovrebbero essere unicamente delle provocazioni artistiche, visto che, per quanto vi possa essere un ruolo di denuncia sociale, il cinema rimane comunque arte e quindi puramente concettuale? Insomma, c’è il rischio che il cinema d’impegno sociale possa venire strumentalizzato? La risposta di Damiani è un si, ma lo è in modo imprevedibile. Perché se è vero che l’opera di Solaris funge da spunto per uccidere il giudice Traini, le motivazioni dietro questo delitto sono del tutto estranee ai problemi affrontati dal regista interpretato da Franco Nero nel suo provocatorio film. Nello specifico il movente è una banale questione di corna che vede coinvolti il giudice Traini, sua moglie Antonia e il dottor Valgardeni (Giorgio Cerioni). Quindi c’è strumentalizzazione, ma manca il nesso. E allora la riflessione finale sembra essere che si, ci sono rischi nel raccontare i problemi reali del paese, ma non sarà mai il cinema ad essere la scusante per chi vuole delinquere.
Almeno non il valido cinema di Damiani o di chi opera in buona fede. 






Françoise Fabian





sabato 26 ottobre 2019

TARAS IL MAGNIFICO

432_TARAS IL MAGNIFICO (Taras Bulba); Jugoslavia, Stati Uniti 1962Regia di J. Lee Thompson.

Alla base di Taras il magnifico, film di J. Lee Thompson, c'è Taras Bul'ba, una sorta di racconto epico di Nikolaj Gogol', nel quale, il grande scrittore russo, romanzava alla bisogna le cronache storiche della steppa ucraina. Non si tratta quindi di un fondamento storicamente attendibile, e quindi non è certo in quella direzione che dobbiamo cercare gli spunti di interesse del film hollywoodiano con protagonisti Yul Brynner e Tony Curtis. Taras il magnifico è piuttosto un gustoso film di avventure, di forte evocazione storica, con una vicenda romantica che irrompe nel flusso delle battaglie, creando una sorta di isola sentimentale all'interno  del racconto filmico, creando i presupposti per il finale a suo modo educativo. Va detto che il pastiche storico creato da Thompson sullo schermo è piuttosto efficace e, in fondo, non poi così storicamente inattendibile più di quanto probabilmente non lo sia il testo di Gogol' all'origine. D'altronde nessuno dei due si propone di essere una cronaca storica: se quello dello scrittore russo era un testo con finalità epiche, Thompson si serve degli aspetti storici, culturali e folcloristici della steppa ucraina del dopo XV secolo, per raccontare una vicenda di conflitti nazionali e relazioni sentimentali tra le parti avverse. Perfetto Yul Brynner nei panni del cosacco Taras, molto meno convincente Tony Curtis, il cui aspetto moderno stona all'interno di una pellicola che fa della messa in scena molto convincente uno dei suoi punti di forza. E dire che il copione gli riserva il ruolo principale (in contraddizione col titolo che fa riferimento al personaggio di Brynner), ovvero di colui che, grazie all'amore per Natalia (Christine Kaufman), nobildonna polacca, riuscirà a superare l'odio per il nemico. 

Perché tra cosacchi e polacchi non correva certo buon sangue, e questo è un fatto anche storicamente attendibile; nel film, all'inizio, pur non potendo essere definiti popoli amici e stimati, sono però alleati contro i turchi. Ed è proprio dopo una vittoria militare polacca ottenuta anche grazie all'intervento cosacco, che sorgono i problemi: a quel punto i polacchi vorrebbero amministrare i rozzi alleati, e Taras rompe dunque il sodalizio con un colpo di shaska, la spada cosacca. La scena in cui mozza parte della mano all'ufficiale polacco è improvvisa e particolarmente forte, in linea col temperamento dell'ardimentoso cosacco coprotagonista del film. Pur con queste premesse, il clima del film non è affatto truce, in quanto ben presto prende il centro della scena Andrei, il figlio di Taras, a cui Curtis provvede a fornire la sua tipica faccia da schiaffi rubacuori, e la pellicola vira sui canoni della commedia sentimentale persino troppo sdolcinata. Ma è solo un intermezzo, per altro piuttosto corposo, perché poi si ritorna al conflitto tra cosacchi e polacchi, sebbene il seme dell'amore tra i popoli (nello specifico tra il cosacco Andrei e la polacca Natalia) sia ormai stato gettato e quindi la disputa secolare finirà per essere superata. A parte l'edificante messaggio che sintetizza la situazione, ovvero l'amore è l'unica arma per combattere l'odio e quindi la guerra, di questo Taras il magnifico ci rimangono le scene di battaglia, molto evocative, e alcuni passaggi che, probabilmente, ci rendono abbastanza bene lo spirito cosacco. Ad un certo punto, due cavalieri sono in arrivo al campo cosacco, il padrone di casa li avvista, prende il fucile, dice unicamente una parola, ‘stranieri!’, e gli spara. 

Mancandoli, grazie a Dio, essendo i due i figli di Taras di ritorno dagli studi presso l'università di Kiev, al tempo governata dai polacchi. Il loro ritorno semina qualche discordia: proprio in quel momento i cosacchi sono chiamati alle armi dai nuovamente alleati polacchi ma Andrei, che da Kiev è fuggito tumultuosamente a causa dei problemi avuti per aver disonorato Natalia, la figlia del governatore, non ne vuole sapere di partire a combattere per conto degli odiati rivali. Nell’accesa riunione, vola la parola ‘codardo’, cosa non accettabile presso i cosacchi; e allora, per lavare l'offesa, si deve ricorrere ad una sorta di salto del coniglio stile Gioventù bruciata, sennonché bisogna saltare oltre un precipizio a cavallo e non è assolutamente prevista l'ipotesi di gettarsi prima del baratro. Esagerata come soluzione del diverbio? Forse, ma come sentenzia Taras: ‘ci sono parole per cui gli uomini devono morire’. Perlomeno gli uomini cosacchi.    









Christine Kaufmann




giovedì 24 ottobre 2019

KING KONG

431_KING KONG ; Stati Uniti 1933Regia di Marion C. Cooper e Ersnt B. Schoedsack.

Caposaldo del cinema in senso assoluto, King Kong è un film che ha molti motivi di interesse, tra i quali quello di interpretare il genere fantastico nella sua completezza e in modo mirabile. Perfettamente bilanciato tra film d’avventura e dell’orrore, incarnando così appieno lo spirito del genere fantastico, King Kong ha anche una vena romantica ma più che altro è una storia di grande valenza simbolica. La struttura speculare su cui verte è infatti ben calibrata, e permette una facile lettura del significato senza per altro distogliere l’attenzione dal compito primario della pellicola, che è quello di meravigliare. La meraviglia intesa nel film è quella primordiale, che crea una sensazione di ammirazione nell’uomo, mentre nel contempo lo atterrisce anche un poco perché mette in evidenza la minuscola (rispetto alla grandiosità della manifestazione meravigliosa) condizione umana. La matrice metalinguistica dell’opera è intrinseca: il cinema è l’arte che meglio di ogni altra può ambire a produrre nello spettatore una moderna versione della Sindrome di Stendhal; quindi, in questo caso, la meraviglia nello spettatore è raddoppiata, per il cinema come spettacolo da un lato e, nello specifico, per il protagonista di questa storia, King Kong. E nel secondo caso, questa sensazione si traduce quasi istantaneamente in terrore, essendo il primate gigante un soggetto piuttosto pericoloso. Ma, considerato anche che lo spettacolo cinematografico ci mantiene al sicuro al di qua dello schermo, si può tranquillamente affermare che, prima di esserne spaventati, la gigantesca figura di Kong eserciti sul pubblico un fascino notevole. E, questa sensazione, ben comunicata dal film di Cooper e Schoedsack, è un altro aspetto del genere fantastico; e l’attenzione al genere è un altro dettaglio metalinguistico. 

L’avventura è avvincente, c’è ritmo quando serve e suspense in abbondanza: il compito di divertire è certamente assolto. Il tema, ribadito anche nel film a più riprese proprio da Carl Denham (Robert Armstrong), di professione regista e importante personaggio nella storia, è quello della bella e la bestia. Che il protagonista della vicenda sia un regista e che il racconto narri proprio delle riprese di un film, tolgono ogni possibile dubbio sul fatto che King Kong sia una pellicola che mette il cinema al centro del suo obiettivo. Il nostro Denham vuole girare un film in un’isola dove pare vi sia un mistero di grande fascino; ingaggia quindi una ragazza, la bellissima Ann Darrow (Fay Wray, davvero splendida), non certo un’attrice professionista, e parte con una nave alla volta della terra misteriosa. Gli sviluppi delle vicende per la bella e per la bestia, sono simili: Denham si reca nella giungla cittadina, dove il muro di indifferenza della metropoli tiene segregata dalla società la povera Ann. 

L’ingaggio della ragazza avviene per trasformarla in un’esca per attirare attenzione. La stessa sequenza viene poi ripetuta per Kong: nella giungla dell’isola sperduta, tenuto separato dal villaggio da un alto muro, viene catturato per finire a fungere da richiamo per gli spettatori di New York. Queste due storie si intersecano a metà, essendo Ann l’esca per richiamare Kong: la bestialità è quindi strettamente connessa alla bellezza, di cui si può dire che sia l’altra faccia della medaglia. E parlando di bestialità non può non essere evidente che ci si riferisca a quella umana: infatti nel film abbondano i mostri, perlopiù dinosauri, ma il mostro per eccellenza della storia è King Kong. Il quale è una sorta di gorilla, quindi un primate, ovvero qualcosa di fortemente imparentato (certamente più dei dinosauri) con l’uomo. 


C’era quindi la necessità, secondo gli autori, di mettere al centro della storia una bestialità che fosse condivisibile dall’uomo; diversamente si poteva usare come mostro protagonista del film, uno dei dinosauri presenti nell’isola. Ma, ovviamente, lo scopo di mostrare il lato primordiale umano serve a ribadire come sarà la bellezza, anch’essa in un certo senso primitiva, (nel senso di assoluta e pura), a redimere la bestia, e non tanto l’intelligenza. E questo non per disprezzo nei confronti dell’intelletto umano, ma perché, almeno stando al film, questa altro non è che un ulteriore aspetto della forza. Non a caso è proprio l’intellettuale del gruppo (il regista) a vincere la bestia; ma lo fa con uno scopo utilitaristico, speculativo, di sfruttare cioè il mostro. Non può quindi essere questa la via dell’evoluzione, se si passa semplicemente da un criterio di forza bruta per sopraffare gli altri, ad uno che utilizza mezzi più sottili come l’intelligenza e l’astuzia per ottenere lo stesso scopo. La bellezza femminile di Ann lavora invece in modo diverso, instillando nella bestia la premura di non rovinarla: dopo gli inizi nell’isola, forse eccessivamente focosi, Kong, pur se in modo un po’ rozzo, cerca infatti di salvaguardare la salute ragazza e perde completamente le staffe quando vede la giovane essere cinta in vita da un uomo, temendo per la sua sorte. E’ questo, quindi, il ruolo della bella, smussare la bellicosità della bestia. Azzardando una citazione in modo forse un po’ irriverente, potremmo dire che la bellezza salverà il mondo, laddove la bellezza potrebbe essere intesa anche quella dello spettacolo cinematografico e non solo quella esibita dalla Wray.
Chissà, probabilmente, negli anni 30 del secolo scorso, poteva essere un discorso valido.
E’ possibile crederlo ancora oggi?






Fay Wray












martedì 22 ottobre 2019

MANTO NERO

430_MANTO NERO (Black Robe); Canada, Australia, Stati Uniti 1991Regia di Bruce Beresford.

Su uno dei manifesti originali di Black Robe la tagline recita: patch twice the punch of ‘Dance with wolves’! E’ quindi legittimata dagli stessi produttori del film Manto Nero, l’idea di ricercare in Balla coi lupi lo spunto di partenza dell’opera di Bruce Beresford. Perché è un’impressione forte quella che si avverte, e che viene a prescindere da quanto scritto sul poster, anche perché, ad esempio, su quello italiano non c’era alcun riferimento al film di Kevin Costner. Però, ad un anno di distanza, vedere ancora sullo schermo, in modo così significativo, gli indiani d’America, è un fatto che balza all’occhio, visto che era tempo che questo non accadeva. Ma sono evidenti anche alcune differenze: il film di Costner, pur se di un certo impatto realistico, aveva un respiro epico, una magniloquenza che celebrava degnamente (e finalmente) la cultura dei nativi in modo aperto e scoperto, senza scomodare sottotesti da interpretare o letture a diversi livelli. Ad onor del vero, va detto che il cinema di Hollywood era da tempo sostanzialmente filo-indiano, seppure l’intento portante era un altro; e questo sin dagli anni 50 del western classico ma, per una ragione o per l’altra, l’attenzione alle ragioni dei nativi presenti nei film di John Ford e compagni furono sostanzialmente ignorate. Basta riguardarli oggi (ma farlo, non andare a memoria), per rendersi conto di come la questione indiana fosse già al tempo trattata in modo equo dal cinema. In ogni caso, agli arbori degli anni novanta del XX secolo esisteva ancora, e non solo in America, la convinzione che il cinema hollywoodiano avesse bistrattato in modo eccessivo gli indiani (quando invece, furono più che altro la politica e la società americane a farlo). 

In quest’ottica, Balla coi lupi cercò di sanare il debito con gli indiani (e ci riuscì, almeno per quel che gli competeva), con una celebrazione che rendeva il giusto riconoscimento ad una cultura che andava assolutamente rimessa in posizione di massimo rispetto. Costner, per il suo film, prese come protagonista la nazione Sioux, che tra le popolazioni indiane era di quelle più affascinanti, per costumi e tradizioni; nel lungometraggio, per la prima volta, i dialoghi dei nativi erano nel loro vero linguaggio e moltissima cura fu prestata per le caratteristiche culturali dei pellerossa. 

Inevitabilmente, pur con tutta la buona volontà da parte di Costner di essere fedele alla realtà storica, tutta questa massa di buone intenzioni (chiamiamole così), finì per edulcorale alcuni aspetti della civiltà degli indiani che, per quanto rispettabile e certamente nel complesso piena zeppa di valori positivi, aveva anche un lato oscuro, selvaggio, anche un po’ primitivo. Ecco, in questo spazio (virtuale) che si crea tra quella che doveva essere la cruda realtà dell’America dei pellerossa e l’idea epica di Kevin Costner, si inserisce Manto Nero, come del resto esplicitato dalla citata tagline che vanta, per il film, una durezza doppia rispetto a Balla coi lupi. Il film è un curioso pastiche di provenienze autoriali: il regista Bruce Beresdorf è australiano, mentre soggetto e sceneggiatura sono di Brian Moore, scrittore nato in Irlanda del Nord e solo successivamente emigrato nel Canada dove è ambientata la nostra storia. Al centro del racconto c’è un gesuita francese (padre LaForgue, interpretato da Lothaire Bluteau), circondato da indiani, di ceppo algonchino e irochese,  prevalentemente ostili o comunque molto diffidenti. Il film si distingue, nel complesso, per una eccessiva durezza, sia sul piano violento che su quello sessuale, e lo spettatore è obbligato, come lo stesso gesuita del resto, ad assistere ad alcuni spettacoli decisamente pesanti, e anche un po’ gratuiti. 


D’accordo, si cercava di smascherare l’aura di epica, probabilmente poco realistica, che Balla coi lupi aveva lasciato in eredità, ma forse lo si poteva anche fare senza beccarsi la famigerata ‘R’ (per restricted, definizione che ne limita la visibilità; la versione americana del nostrano Vietato ai Minori). Il riferimento alle diverse origini geografiche degli autori può essere utile per cercare di capire quello che forse è il tentativo di universalizzare la questione indiana ridivenuta di attualità all’alba degli anni novanta. Con il suo essere molto fedele alle culture interessate dal film, il citato Balla coi lupi rischiava di essere interpretato come un testo specifico sui Sioux o al massimo sugli indiani delle praterie; oppure, in estrema istanza, riferito a tutte quante le tribù pellerossa degli States. Manto Nero non solo estende il discorso ai nativi del Canada attraverso la storia narrata ma, se consideriamo che il film che ricorda  maggiormente è Mission, (di Roland Joffé, 1986), ambientato tra gli indios del Sudamerica, allora si può intendere come una riflessione sui problemi della colonizzazione di tutto quanto il continente. 

E se a dirigerlo è un regista australiano, viene il sospetto che in suddetta riflessione possano venir interessati anche i problemi che hanno sofferto gli aborigeni dell’Oceania con l’arrivo anche là degli europei. La storia narrata è l’incursione nella natura selvaggia di un uomo di chiesa, peraltro molto pragmatico come tutti i gesuiti: ma padre LaForgue rappresenta soprattutto la civiltà di origine europea e il suo essere in quei territori completamente fuori luogo è il rovesciamento dei canoni di normalità e quindi di civiltà. Il prelato è fuoriposto sia in aperta natura, sia dentro la tenda, manufatto e concreto esempio della civiltà indigena americana. 
Il gesuita si perde nel bosco prima e, in seguito, è palesemente turbato per i rapporti sessuali dei suoi coinquilini dentro l’abitazione itinerante. Daniel (Aden Young), il giovane che l’accompagna insieme agli Algonchini, rivede presto i suoi intendimenti, a proposito di recarsi in Francia e seguire la via talare: a contatto con la natura, trova più ovvio, più normale, divenire algonchino; ad essere onesti anche per via della presenza di Annuka (Sandrine Holt). Chomina (August Schellenberg), il capo degli Algonchini lo ammette, perfino gli odiati Irochesi non sono uomini crudeli, sono gente normale, si comportano con la necessaria durezza in un ambiente spietato che non concede errori; ma per la verità, lo stesso indiano si rende conto, proprio in punto di morte, di non essere stato molto diverso da un comune uomo bianco. 

Tuttavia, l’atteggiamento di padre LaForgue, la sua attenzione a cose che agli occhi degli indiani paiono bizzarrie, è sottolineato più volte nei dialoghi tra i pellerossa come del tutto privo di senso. E proprio Chomina, mentre sente la vita sfuggirgli, rinuncia alla proposta di conversione, rivelando quanto sia vana l’opera del Manto Nero. Lo stesso gesuita si rende così conto, nel finale, dell’inefficacia del suo affannarsi nell’opera di conversione dei nativi, e il suo sconforto si avverte nella parole di commiato dai suoi ultimi compagni di viaggio, Daniel e Annuka. Raggiunta la missione ha il tempo di assistere alla morte del suo predecessore; a quel punto arrivano gli Uroni che, disperati per le febbri che falcidiando la loro popolazione, si sono decisi a convertirsi. 

Dietro questa decisione c’è la convinzione, da parte degli indigeni, che l’infezione sia stata portata dai bianchi come punizione per chi non si converte: cosa, almeno nella prima parte, probabilmente neppure troppo lontana dalla verità. Nonostante la perplessità di padre LaForgue, che auspicherebbe una comprensione dei valori cristiani prima della conversione, si potrebbe pensare comunque ad un mezzo successo, per l’opera dell’evangelizzazione dei nativi. Nella realtà storica, e una didascalia nel finale del film si premura di informacene, questa conversione al cristianesimo e la connessa alleanza con i francesi costò cara agli Uroni che furono sterminati dagli Irochesi, 15 anni dopo i fatti narrati. Insomma, non ci fu niente di epico nella colonizzazione, che non fu altro che uno scontro di civiltà, con più punti di contrasto che di incontro. Ma il regista sembra concludere con amara ironia, sottolineando come nel colonialismo ci fossero anche ‘buone intenzioni’: in effetti Manto Nero si chiude con la bellezza universale di un tramonto, con il sole che illumina il crocefisso della missione. L’estrema sintesi della nuova vita offerta ai pellerossa e a tutti i popoli colonizzati dagli europei: il martirio sulla terra, da vivere in prima persona.



Sandrine Holt