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venerdì 31 agosto 2018

QUANDO LA CITTA' DORME

201_QUANDO LA CITTA' DORME (While the city sleeps). Stati Uniti 1956;  Regia di Fritz Lang.

 A guardarlo in modo un po’ distratto, Quando la città dorme può anche passare per un onesto giallo spruzzato di noir d’epoca; in realtà è il manifesto funereo con cui il sublime maestro Fritz Lang si congeda dall’America, più che dal cinema americano. Si, certo, dopo questo film dirigerà L’alibi era perfetto, il cui risultato sarà però un po’ troppo inficiato dalla postproduzione che massacrerà la pellicola in sala di montaggio. Inoltre, in L’alibi era perfetto, Lang azzardava una trama piuttosto elaborata, interessante, certo, e poggiata su uno spunto geniale, ma Quando la città dorme nella sua semplicità di base, risulta più efficace per mostrare senza alcuna via di scampo, sullo schermo, le magagne della società americana. In effetti, alcuni passaggi narrativi della storia appaiono un po’ troppo semplicistici: dalla lettura psicanalitica del criminale, alla coincidenza del pianerottolo su cui si affacciano le porte di due appartamenti cruciali nella vicenda. Ma non è l’intreccio giallo che interessa a Lang, o meglio la sua verosimiglianza; per lui è solo un meccanismo da innescare e che, nel suo sviluppo, metterà a nudo il degrado morale della società americana in quello che è il suo cuore. C’è un omicida, il giovane Robert Manners (John Drew Barrymore), che uccide giovani donne, e lascia una traccia, una scritta col rossetto (“chiedi alla mamma” ) o un albo a fumetti, sul luogo del delitto.

Ad indagare, non tanto la polizia guidata dal tenente Kaufman (Howard Duff) ma tutta quanta la Kyne, una holding giornalistica che stampa il quotidiano New York Sentinel oltre ad avere un’agenzia di notizie, una fotografica e a produrre una rubrica televisiva. Insomma, la Kyne gestisce l’informazione a 360° e viene messa in campo in modo completo dal regista austriaco proprio perché il problema sollevato da Quando la città dorme, non è un aspetto specifico ma riguarda tutto quanto il settore. Un settore nevralgico, nel paese della libertà, perché manifesta, proprio con il suo esistere, operare, la libera espressione. E la critica di Lang risulta quindi particolarmente pesante, nel momento in cui è estesa a tutta quanta la struttura della holding.

Come dire che lo speculare sull’informazione di massa sia un fatto intrinseco nella radice stessa della libertà di stampa, che invece viene sempre considerata come una delle anime pulite su cui si fonda la stessa America. Alla morte di Amos Kyne, il figlio Walter eredita l’impero delle comunicazioni Kyne: ad interpretarlo è chiamato Vincent Price che, se nel 1956 non è ancora divenuto quell’ambigua icona cinematografica universalmente riconosciuta, in passato ha già avuto ruoli di malvagio in alcuni film e non è certo una presenza scenica che ispiri grande fiducia. Sotto di lui, ma comunque ai vertici dell’organizzazione Kyne, ci sono quattro personaggi, tre dei quali messi dallo stesso proprietario in gara tra loro per diventare Direttore Generale. C’è Mark Loving, direttore dell’Agenzia di notizie, a cui presta le sembianze George Sanders, che è anch’esso un attore dall’aspetto un po’ equivoco, sempre sorridente, amichevole (amabile verrebbe da dire, pensando al cognome del personaggio del film), ma che sembra sempre pronto a cogliere qualsiasi opportunità, lecita o meno, a proprio vantaggio. John Griffith è a capo del giornale, il NY Sentinel, e l’onestà che si specchia nella figura di Thomas Mitchell, ci da qualche garanzia; in seguito, apprendiamo che per via della moglie malata e della famiglia da mantenere, anch’egli non può farsi troppi scrupoli. L’agenzia fotografica è gestita da Harry Kritzer, un bellimbusto piuttosto evanescente che deve il suo aspetto a James Craig: sembra fuorigioco ma lavora sottotraccia, tenendosi un asso (e che asso) nella manica.
Chiude il quartetto il giornalista che si occupa della striscia serale televisiva, Edward Mobley, interpretato da un Dana Andrew che ha (o meglio avrebbe) tutte le carte in regola per recitare il ruolo del classico eroe americano, anche perché non coinvolto direttamente nella bagarre per conquistare il posto da Direttore Generale. Per spronare ulteriormente i tre uomini alla competizione per accaparrarsi tale impiego, Walter Kyne promette l’incarico a chi scoprirà l’identità dell’assassino del rossetto (come è stato battezzato Manners): la caccia al clamoroso scoop giornalistico mette gli uomini uno contro l’altro, senza troppi riguardi. Ma, a questo punto, subentrano in gioco altri tre elementi che saranno decisivi, sia nell’indagine che nella nomina a Direttore Generale, mantenendo per altro il livello dei colpi sempre sotto la cintura, a testimonianza che l’arrivismo nella società americana non risparmia nemmeno l’altra metà del cielo. Entrano in scena infatti le donne, con ruoli nient’affatto di secondo piano, sebbene in apparenza questa possa essere l’impressione: la prima che si nota sullo schermo è Nancy Ligget (una Sally Forrest carina e compunta) segretaria di Loving e fidanzata di Mobley.

La poverina è un po’ in balia degli eventi, sia per l’amore per Mobley, che si rivela tipo niente affatto affidabile, sia per i guai in cui proprio lui la infila, usandola come esca per smascherare l’assassino del rossetto. Mildred Donner (una vorace e ancora avvenente Ida Lupino) è una giornalista di gossip, che flirta con Loving, ma che seduce facilmente, aiutata dall’alcol, un deludente Mobley, per ottenerne la collaborazione e agevolare lo stesso Loving nella corsa alla carica di Direttore Generale. Chiude il tris di donne l’elemento cardine di tutto il sistema: Dorothy Kyne (una spettacolare Rhonda Fleming), moglie di Walter, amante di Kritzer, apparentemente bella e stupida, ma in realtà in grado di gestire i suoi due uomini a piacimento. Sarà soltanto un caso fortuito che manderà all’aria, sul filo di lana, i piani delle bellissima Dorothy, impedendo a Kritzer di accaparrarsi la carica di Direttore Generale; ma l’escamotage narrativo in cui apprendiamo che gli intenti della donna sono stati vanificati, sembra più che altro un aggiustamento posticcio per lenire un po’ il quadro generale: un lieto fine volutamente poco credibile. In ogni caso, come si vede, tutto questo intreccio verte sulla volontà di fare carriera degli uomini, e se le donne non sono coinvolte direttamente nella corsa a Direttore Generale, hanno comunque il loro bel daffare ad accaparrarsi la posizione migliore; i sentimenti sono decisamente messi in secondo piano.

E la lotta al criminale sembra quasi divenire addirittura un mero pretesto, una scusa per vendere più copie, avere più ascolti o, in questo caso, ottenere l’impiego tanto agognato. Vedendo questi personaggi, non solo sembra quasi più umano di loro l’assassino che, pur con le sue debolezze, è soltanto un disperato, ma si rimpiange anche il tribunale dei criminali di M- Il mostro di Dusseldorf, che nel finale del film tedesco di Lang giudicavano l’omicida delle bambine interpretato da Peter Lorre. I componenti di quel fantomatico tribunale non erano certo stinchi di santo, e nemmeno erano animati da buoni propositi: il loro sembrava un moto più che altro di opportunismo, perché il mostro di Dusseldorf rovinava loro la piazza, agitando la polizia e l’opinione pubblica. Ma gli individui all’opera in Quando la città dorme sembrano anche peggio: eleganti, istruiti, si spacciano per paladini della libertà ma potrebbero benissimo mettere in piedi una distilleria di cinismo.

Cinismo che, al contrario, è del tutto estraneo alla poetica di Fritz Lang: il suo sguardo lucido e implacabile riguarda sempre le situazioni, i comportamenti, ma mai il lato umano dei suoi personaggi, verso i quali il grande autore ha sempre rispetto quando non una sorta di umana comprensione. Come già il mostro di Dusseldorf, anche nei confronti di Manners non c’è certo una giustificazione, ma uno sguardo che, se ne mette in risalto senza sconti l’abietto e criminale comportamento, da un punto di vista umano non esita a riconoscerne la condizione disperata. Lo stesso sguardo, che è la cifra morale del grandissimo autore austriaco, è riservato ai cinici protagonisti della Kyne: in fondo, Mobley, pur essendo un ubriacone donnaiolo, è semplicemente un debole; e la stessa Mildred, che lo seduce in modo subdolo, lo fa per poter stare a galla, così come si è già detto delle giustificazioni sociali di Griffith. Certo, ci sono persone migliori di altre, così come si fatica a scorgere qualcosa di buono in Walter Kyne, ma nel complesso, se il comportamento dei personaggi della vicenda è certamente riprovevole, non possiamo dire che siano tutte persone connotate completamente in modo negativo.

Alla fine Fritz Lang, e essendo il penultimo film americano possiamo ben donde dire “alla fine”, rovescia il concetto classico dell’eroe americano: si è sempre detto che il campione, il protagonista del Nuovo Mondo è l’uomo normale che in condizioni eccezionali, si comporta in modo eccezionale. Ecco, Lang capisce che in America troppo spesso quelle condizioni sono eccezionali, ma in senso negativo, e l’uomo della strada si ergerà si sopra la media, ma in sintonia con l’ambiente. La competizione, la lotta per emergere, l’arrivismo, non producono eroi alla John Wayne, ma più facilmente, personaggi servili e opportunistici alla Harry Kritzer, burattini nelle subdole mani di altri.
Il sogno americano, in realtà, è solo il riflesso del sogno di qualcun altro.


Sally Forrest


Ida Lupino



Rhonda Fleming










mercoledì 29 agosto 2018

COSMOPOLIS

200_COSMOPOLIS . Canada, Francia, Italia, Portogallo 2012;  Regia di David Cronenberg.

Nessun dubbio, stavolta: Cosmopolis appare da subito come un tipico film di David Cronenberg. Non uno dei suoi più semplici, onestamente. Siamo dalle parti de Il pasto nudo, di Crash, di Videodrome. Un film spiazzante, dunque; dopo quarant’anni di cinema cronenberghiano, evidentemente, ancora non siamo preparati alla sua prossima opera. Così la domanda giusta stavolta non è “ma è un film di Cronenberg?”, (interrogativo legittimo per altri lavori recenti del regista), ma è “perché il canadese ha fatto questo film?” (o se preferite, la domanda giusta potrebbe essere quella che si sono posti i pochi spettatori presenti in sala: “perché sono venuto a  vedere questo film?”). Rispondendo a questi ultimi: non certo per vedere un film bello nel senso classico od hollywoodiano del termine; ma quand’è che il regista canadese ha atteso le aspettative del grande pubblico?
No, non si va a vedere un film di Cronenberg per divertirsi, né per passare una serata spensierata. Si vede un film di Cronenberg per tornare coi piedi per terra; qui, ora. L’inesorabile puntualità: questa è la risposta, forse la parola chiave di tutto il cinema di Cronenberg, e anche di questo Cosmopolis. Vi sembra un periodo facile, questo? Un tempo chiaro e privo di incognite? Mentre siamo intenti a decidere se cambiare il nostro iPhone8 per il nuovo iPhoneX, le notizie ci martellano che siamo prossimi al baratro finanziario globale. Cosa c’è di comprensibile in una situazione del genere? Non aspettatevi, allora, dal miglior interprete della realtà contemporanea, un film banalmente decifrabile.
Le terribili contraddizioni del mondo moderno sono la struttura portante del film: la nostra società, basata sulle comunicazioni, è in realtà un insieme di individui che non sono in grado di comunicare tra loro. Certamente le fortune finanziarie di Eric Parker, il giovane uomo d’affari protagonista, un inespressivo ma efficace Robert Pattinson, sono basate su una vasta rete di comunicazioni, che infatti gli permettono di intuire in anticipo le sorti della finanza globale. Ma i dialoghi del film, forzatamente artificiosi, specie nella prima parte, riflettono l’incapacità delle persone di comunicare veramente tra loro. Nell’era della comunicazione globale, la comunicazione tra individui è morta.
Il controllo totale, esercitato da reti informatiche che calcolano, prevedono, influenzano, determinano i destini delle masse, è messo in discussione dall’anarchica protesta caotica, altrettanto astratta e priva di etica morale, rappresentata dal movimento dei ratti. Siamo sull’orlo del baratro, ma come Parker viaggiamo nelle nostre limousine insonorizzate, asettiche, avveniristiche, mentre intorno a noi scoppia il caos. 


A questo proposito, a livello visivo, notevole è la messa in scena dell’incedere di Parker nella limousine/astronave: sembra la scenografia di certi film ambientati nel futuro prossimo venturo, un mix tra accessori futuribili e ambientazioni da re-imbarbarimento. Soltanto che qui l’ambientazione non è nel futuro, né prossimo né remoto: è il presente quello che vediamo, tutto assolutamente, plausibilmente contemporaneo.

Sono molti i temi e tanta e la carne al fuoco che, con spietato rigore, inchiodano le contraddizioni del nostro oggi. Ma la cosa più importante del film rimane la scelta del protagonista di darci un taglio. Già, proprio l’ineluttabile esigenza di Parker di sistemarsi i capelli, metterà in moto una personale discesa di ritorno del protagonista verso la propria condizione umana. Nella società moderna, dominata dalle sovrastrutture, Parker di spoglia di tutto, cominciando un percorso di sottrazione che elimina via via tutto ciò che è superfluo per  un ritorno alle origini (via gli occhiali, la cravatta, la giacca, la moglie, la guardia del corpo, la limousine). Ma ad attenderlo non c’è nessun paradiso perduto: il parrucchiere che lo aspetta nel vecchio quartiere d’origine è incapace anch’egli di imbastire un valido dialogo e il suo taglio sarà maldestro e lasciato a metà. L’incontro cruciale è con la sua nemesi: il disordinato e caotico loser che lo vuole morto in quanto vertice della piramide sociale che opprime le masse. Non si preoccupino i grillini italiani, nonostante le evidenti similitudini con un adepto del movimento a cinque stelle, Paul Giamatti/Benno non ha una funzione di critica politico sociale (almeno non esplicita, sebbene certamente calzante); si potrebbe dire che, quasi al contrario, permette piuttosto a Parker di compiere il definitivo taglio, il passo decisivo: riappropriarsi della propria umanità attraverso il riconoscere i propri umani limiti, (l’imperfezione della prostata), il proprio odore (vero e proprio sottotema durante tutta la durata del film) o il dolore di un colpo di pistola alla mano. Nell’attesa di un altro colpo di pistola, quello definitivo, alla nuca, in quella che è la magistrale scena finale, sospesa un attimo prima di quello che sembra l’unico possibile ritorno all’umanità dell’uomo moderno: la propria morte.


Juliette Binoche


Sarah Gadon




lunedì 27 agosto 2018

UN POSTO AL SOLE

199_UN POSTO AL SOLE (A place in the sun). Stati Uniti 1951;  Regia di George Stevens.

Ci sono film che diventano, al di là del reale valore dell’opera in senso stretto, di importanza capitale nella storia del cinema: è il caso di Un posto al sole di George Stevens. Il film rappresentò, infatti, una sorta di congiuntura di eventi, tutti di carattere ampiamente positivo, che gli fecero meritare un posto di rilievo nella golden age di Hollywood, l’età d’oro del cinema classico americano. Innanzitutto per la contemporanea affermazione di due attori, due autentiche star, che immetteranno nel cinema classico americano i primi semi del dubbio, le prime incertezze, che poi nei tardi anni 60 evolveranno nelle svolte più eclatanti. Elizabeth Taylor e Montgomery Clift, che in Un posto al sole sono gli splendidi protagonisti, pur mantenendo il carisma cristallino degli attori della golden age, hanno già qualche increspatura moderna, qualche incertezza, nella loro purezza divistica, un filo di ambiguità che li attraversa. Questo aspetto, nel film di Stevens, è certamente esaltato nell’interpretazione di Monty, che dà vita ad un personaggio certamente ambiguo, quel George Eastman che si rende protagonista di una vicenda piuttosto torbida. La Taylor, che gioca ancora un po’ sulla sua giovane età (non ha ancora vent’anni), è radiosa, ma sorprende, e forse in un certo senso inquieta, la facilità con la quale l’attrice riesce, in modo assai convincente, a passare dalla ricca, esuberante e viziata ragazza snob, ai panni di donna innamorata che si vuole maritare, capace di un intenso sentimento romantico, totalizzante.
Liz è stata spesso indicata come l’ultima grande diva di Hollywood: ed effettivamente la sua folgorante bellezza classica verrà in genere utilizzata per contrasto, per sottolineare il crescente disagio che attraverserà i decenni fino agli anni della contestazione generazionale. Ma in questo caso regge ancora la sua bellezza assolutamente pura: in Un posto al sole Liz è l’evidente incarnazione del sogno americano; già, perché il film apre una sorta di trilogia sul tema da parte di George Stevens, che si compone insieme a Shane - Il cavaliere della Valle Solitaria e Il gigante, e che lancerà l’autore nel firmamento dei grandi registi hollywoodiani. Questi tre film, che possono apparire un po’ datati ai giorni nostri per via dei toni accesi, rappresentarono il momento più intenso della carriera del regista che, non a caso, ottenne la giusta gratificazione anche dall’Academy (Oscar alla miglior regia per Un posto al sole e Il gigante).
L’affermazione definitiva di Stevens (che era comunque un regista già ben considerato) si unisce all’arrivo sulla ribalta per i due attori protagonisti, Montgomery Clift e Liz Taylor, e la consacrazione di tre personaggi di tale calibro, rende, quasi d’ufficio, Un posto al sole un film epocale. Alla fama dell’opera certamente contribuì il tema scabroso della gravidanza scomoda e illegittima del terzo lato del triangolo amoroso melodrammatico: la povera Shelley Winters. Povera perché la brava attrice è costretta dall’ingrato copione al confronto con una stella come la Taylor, più giovane (di 12 anni!), più bella, più carismatica, in un doppio match (sul set e fuori) troppo amaro per la Winters. Infatti, la storia vede George Eastman (Clift), parente povero di alcuni facoltosi industriali californiani, venire assunto presso l’azienda di famiglia inizialmente con un umile impiego in fabbrica.

Qui conosce Alice (la Winters), e comincia a frequentarla; lui è nuovo in città, lei è sola, sono giovani, e la cosa prende piede. Se non che, a casa dei ricchi parenti, incontra la bellissima e giovanissima Angela (la Taylor): sul momento la cosa ha poche conseguenze. Intanto la storia tra George e Alice procede, fino alla notte galeotta in cui la ragazza resta incinta; ma l’uomo rivede Angela, e stavolta anche lei lo nota. E’ l’inizio della fine. Montgomery Clift sembra nato per recitare la parte del bravo ragazzo nel quale il senso di colpa lavora sottotraccia, rivelando un’ambiguità che, a prima vista, non traspare. E’ quindi perfetto per interpretare questo George Eastman che prima seduce Alice e poi, una volta compresa la concretezza delle sue possibilità con una ragazza come Angela, cerca di svincolarsi in modo educato, senza strappi.

Peccato che Alice sia incinta, e quindi questa strategia del distacco morbido, non possa funzionare; ma più il tempo passa, più George diventa insofferente verso le proprie responsabilità, siano esse verso il nascituro, verso Alice, o verso tutto quello che si frapponga tra se e Angela.
Stevens gira in un bianco e nero molto bello, con stile classico; al montaggio si avvale dell’abilità di William Hornbeck, che insiste molto sulle dissolvenze incrociate, ottenendo nella pellicola sia un clima ambiguo, di contaminazione, sia una delicata deriva romantica. Del resto l’atteggiamento del protagonista maschile è ondivago, e il dubbio sulla sua condotta morale regge quasi fino alla fine; sarà proprio la bellezza di Angela, per stessa ammissione dell’uomo, a decretarne l’assoluta certezza di colpevolezza.

Sia l’operato di Stevens e Hornbeck, sia l’atteggiamento di Clift, sempre interiormente turbato, manterranno il livello di romanticismo a livello di melodramma, ma d’alta scuola. Il tema è sentimentale, e quindi funziona ad ogni latitudine, ma in America, la terra della libertà, della competizione, della realizzazione personale, Angela rappresenta efficacemente il sogno di ogni uomo; ma questo sta a significare, esattamente come accade a George verso Alice, che la realtà quotidiana è solo una pietosa bugia alla quale credere unicamente se non si ha la possibilità di coronare i propri reali desideri. La Taylor (come obiettivo da raggiungere) è l’ideale per incarnare l’estrema ambizione di arrivare, a fronte della quale sacrificare qualunque cosa, inizialmente il figlio (i tentativi di far abortire Alice), poi la ragazza stessa (la gita sul lago). Insomma, non è solo l'ultima diva della Golden Age di Hollywood. 
E' Elizabeth Taylor, il lato oscuro del sogno americano.


Elizabeth Taylor







sabato 25 agosto 2018

ALL'OVEST NIENTE DI NUOVO

198_ALL'OVEST NIENTE DI NUOVO (All quiet on the Western Front). Stati Uniti 1930;  Regia di Lewis Milestone.

L’importanza di All’ovest niente di nuovo, capolavoro di Lewis Milestone tratto dal romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque, è soprattutto per lo sguardo antimilitarista che pervade l’opera. E questo aspetto assume una valenza superiore se consideriamo che il film venne prodotto nel 1930, quando tutta l’Europa era percorsa da pericolosi moti nazionalisti che, al contrario, vedevano nella Grande Guerra una possibile fonte di spinta verso nuove derive bellicose. Non a caso, nel film, è un professore, un individuo che nella sua professione è incaricato di istruire i giovani, a spronare i suoi studenti all’arruolamento. L’Europa del tempo era una società che insegnava la guerra, si potrebbe quindi dire; e la cosa fa rabbrividire anche oggi. Ma, se è possibile, da un punto di vista strettamente cinematografico, All’ovest niente di nuovo, è addirittura un’opera superiore, per le sue scelte innovative (si tratta di uno dei primi film sonori), per la capacità di orchestrare al meglio le possibilità offerte dalla macchina da presa, per l’uso sapiente del montaggio. Ad esempio, prima dell’assalto francese alle linee tedesche, che è uno dei momenti folgoranti della pellicola, c’è spazio anche per una divertente scenetta dal sapore simbolico: alcuni ratti vengono infatti scovati nella trincea teutonica, e si scatena una battaglia corpo a corpo tra i soldati dell’impero e i roditori.

La scena, oltre a stemperare la tensione della noiosa vita di trincea condotta sotto il martellante suono dei bombardamenti, serve da un lato a preparare lo spettatore, quasi a depistarlo, per l’escalation emotiva del susseguente assalto, mentre denuncia impietosamente lo stato ben poco igienico in cui si trovavano a vivere i soldati. Oltre al citato valore simbolico, in cui la condizione dei soldati è paragonata a quella di volgarissimi ratti, quella coi roditori può essere intesa come una specie di anticipazione; ben più pericoloso sarà lo scontro che di li a poco vedrà i soldati tedeschi impegnati contro quelli francesi.

Ma questa è solo una scenetta interlocutoria, perché è con l’assalto francese, e la successiva controffensiva tedesca, che Milestone sciorina un campionario di alta scuola cinematografica. Carrelli in avanzamento sulle truppe tedesche in attesa, stipate nel solco della trincea, carrelli laterali dall’alto sull’attacco francese, soggettive dalla mitragliatrice che falcia vite umane, carrelli in arretramento ad ammortizzare l’urto degli attaccanti nella postazione germanica, rivelando man mano un’autentica mattanza. L’utilizzo della macchina da presa asseconda ed enfatizza, con i suoi movimenti e la sua posizione di ripresa, in modo sontuoso lo sviluppo delle scene di battaglia mostrato sullo schermo. Esempio lampante, in questo senso, è la ripresa che si sovrappone all’opera della mitragliatrice, ma anche il carrello in arretramento, quasi fosse in ritirata, che scopre man mano i soldati sulla difensiva aggrediti dagli attaccanti.

E poi, con la ritirata francese e il conseguente contrattacco tedesco, di nuovo le stesse scene, solo con protagonisti invertiti, con il costante martellamento dell’artiglieria a distribuire esplosioni in ogni dove. Il tutto orchestrato con un sapiente montaggio alternato tra le varie azioni di guerra che non da alcuno scampo: si muore e si uccide in ogni angolo del campo di battaglia. Il gusto simbolico, tipico dell’epoca, ricompare in altre scene, valga per tutti quella celebre delle mani rimaste aggrappate al filo spinato: espediente forse un po’ datato, ma certamente ancora d’effetto. L’impatto visivo complessivo è devastante e lo spettatore rimane atterrito condividendo, almeno un poco, le sensazione dei soldati; non c’è spazio ne tempo per la retorica classica della guerra, per l’eroismo, per la propaganda, e nemmeno per le questioni su chi abbia ragione o torto nella contesa.

Non a caso il punto di vista scelto è quello tedesco che, nel mondo cosiddetto occidentale, quando ci si riferisce alle guerre è sostanzialmente quello sbagliato.
Ma a Milestone non interessano questi aspetti, quanto l’assurdità della guerra nel suo complesso. Quell’assurdità che ti fa sentire in colpa per aver ucciso un nemico, un uomo che come te condivideva solamente il fatto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
E come l’assurdità di morire per mano di un cecchino, per una piccola distrazione, affascinati per un istante dalla bellezza di una farfalla. Sembra quasi ironica, la cosa, pensando, ad esempio, a quello che diceva Dostoevskij, la bellezza salverà il mondo.
Ma era prima del XX secolo.



giovedì 23 agosto 2018

ATOMICA BIONDA

197_ATOMICA BIONDA (Atomic Blonde). Stati Uniti 2017;  Regia di David Leitch.

Tratto dalla graphic-novel The Coldest city di Anthony Johnston e Sam Hart, Atomica Bionda si presenta proprio come un fumettone cinematografico. Non che questo sia un difetto, anzi. Il regista David Leitch mette subito le cose in chiaro: ha per le mani una vera e propria bomba come la fantastica Charlize Theron e decide di lasciare campo alla sua esteticamente sublime fisicità. L’attrice sudafricana, oltre che bellissima, ha il look giusto per il tipo di operazione imbastito da Leitch: Atomica Bionda fonda la sua funzionalità sulle scelte estetiche dell’ambientazione e sulle scene di pura azione, con Charlize a rendere aggraziati (a suo modo) anche i furibondi combattimenti corpo a corpo di assoluta iperviolenza. La diva funziona alla grande nei panni della spia inglese Lorrainne Broughton, in un film ambientato nella Berlino del 1989, durante i giorni della caduta del muro. La scelta di molte canzoni dell’epoca, da David Bowie ai Queen, a Nena che con la sua 99 Luftballons sembra davvero portarci nella Germania degli anni 80, contribuisce, unitamente ad una fotografia immersa nella luce blu dei neon, a creare una sorta di mondo distopico, sospeso tra le scenografie alla Blade Runner e i videoclip degli eighties. La storia è una questione di spie al tempo della Guerra Fredda, con un classico pretesto, non è il caso di scomodare il MacGuffin hitchcockiano, che mette la nostra atomica eroina in grado di far valere le sue qualità atletiche. Trattandosi di spionaggio è normale che ci siano doppi giochi e tradimenti, ma alla lunga l’intricato garbuglio fatto di inganni, depistaggi, bugie, finisce per appesantire la trama, che invece scorre veloce e ben oliata quando Charlize fa viaggiare le mani.
In film è visto dalla prospettiva di una serie di flashback, durante i quali Lorrainne fa il suo tribolato rapporto ai superiori sull’andamento della missione berlinese. Narrativamente è una scelta di routine, che specialmente in casi di intrecci particolarmente tortuosi, permette qualche scorciatoia; Leitch se la cava quindi con mestiere. C’è anche John Goodman nei panni di uno dei funzionari che interrogano Lorrainne e, all’inizio, viene appellato dalla stessa ragazza con un volgare termine sessista abitualmente maschilista. Un primo indizio, ma ci sarà anche la storia con la dolce spia francese Dalphine (Sofia Boutella), ad indicare che Lorrainne, anche sessualmente, non è certo un tipo ordinario.
Bionda si, ma atomica.

Charlize Theron