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domenica 30 aprile 2023

SHERLOCK HOLMES - L'ULTIMO DEI BASKERVILLE

1266_SHERLOCK HOLMES - L'ULTIMO DEI BASKERVILLE Italia, 1968; Regia di Guglielmo Morandi.

L’episodio trasmesso dalla Rai per secondo nella miniserie dedicata a Sherlock Holmes, porta sui teleschermi italiani di fine anni sessanta una delle storie tra le più celebri dell’investigatore inglese. Il precedente La valle della paura era invece un romanzo assai meno noto e questo era stato un suo innegabile punto a favore. Perchè L’ultimo dei Baskerville, tratto dal romanzo Il mastino dei Baskerville, patisce forse anche il suo essere un testo già più volte tradotto per lo schermo. Il rischio che il racconto si conosca, almeno per sommi capi, è insomma concreto e questo è un elemento che certo non gioca a favore del film di Guglielmo Morandi, soprattutto perchè si sta parlando di un giallo. Tuttavia la discrezione del regista alla direzione e l’impianto teatrale ma onesto delle scenografie, permettono a Nando Gazzoli e Gianni Bonagura di duettare da par loro. Gazzoli è, al solito, strepitoso, un filo autocompiaciuto in questo caso il che, probabilmente, interpreta al meglio la verve teatrale di Holmes. Il dottor Watson di Bonagura è solido in seconda battuta ed è spalla adeguata per reggere perfettamente la scena. Tra l’altro, nel racconto, Holmes si assenta per un discreto periodo dal luogo delle indagini e il fido dottore si prende la scena in modo inappuntabile. Tra gli altri interpreti, bene Paolo Carlini nel ruolo di Sir Henry Baskerville, mentre colpevolmente poco sfruttato il grande Franco Volpi, nella parte del Maggiore Frankland. Una nota di merito va a Marina Malfatti, sempre bellissima seppure la sua Beryl non abbia poi questa rilevanza nel racconto. Il ritmo non è certo il piatto forte degli sceneggiati Rai e men che meno di questo episodio specifico, tuttavia una certa flemma è anche congeniale al tipo di racconto. La struttura narrativa del giallo intriga più del colpo di scena finale, effettivamente un po’ estemporaneo ma comunque efficace, almeno per il suo ambito. Nel complesso, un film godibile.   



Marina Malfatti 


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sabato 29 aprile 2023

SHERLOCK HOLMES - LA VALLE DELLA PAURA

1265_SHERLOCK HOLMES - LA VALLE DELLA PAURA . Italia, 1968; Regia di Guglielmo Morandi.

Sul finire degli anni Sessanta la Rai, utilizzando come format quello dei suoi sceneggiati, si cimenta nell’impresa di ridurre per il piccolo schermo le avventure del più famoso detective della storia: Sherlock Holmes. Il Secondo Canale, come allora era chiamata Rai 2, aveva budget minori rispetto al Nazionale, la Rai 1, ma per questa operazione il risultato sarà comunque più che dignitoso. Il romanzo La valle della paura di Arthur Conan Doyle fu adattato con cura da Edoardo Anton per la regia discreta di Guglielmo Morandi. Su questa solida base si stagliano le interpretazioni degli attori, come era d’abitudine per gli sceneggiati Rai: su tutti Nando Gazzolo, Gianni Bonagura e Anna Miserocchi. Gazzolo è uno Sherlock Holmes compassato e compiaciuto, che conduce il racconto senza fretta e prendendosi il tempo che gli aggrada. Come fa notare il fido dottor Watson, è un detective di natura un po’ teatrale e la definizione pare quanto mai azzeccata. In ogni caso, come suo solito, il grande Gazzolo ha una eccellente capacità di tenere la scena e si disimpegna da par suo; per interpretare Holmes, un personaggio di suo un po’ caricaturato, recita in mondio sornione e quasi in scioltezza, senza mai forzare la mano. Il risultato è convincente, originale e nel complesso fedele allo spirito del character. Bonagura, che deve interpretare un personaggio meno brillante di Holmes, ovvero Watson, indugia forse più scopertamente nell’enfasi recitativa pur rimanendo comunque in terreno ampiamente positivo. Inoltre, l’alchimia tra i due, Holmes e Watson, funziona a meraviglia e anche questo è un pregio dello sceneggiato. Tra gli interpreti a cui vanno i maggiori meriti nella resa funzionale de La valle della paura manca da citare Anna Miserocchi, nel ruolo di Ivy Douglas, la moglie dell’uomo trovato morto nel castello ove è ambientata la vicenda. La Miserocchi è un’attrice sorprendentemente poco nota, eppure eccellente: nello sceneggiato di Morandi illumina la scena con la sua capacità recitativa e con una bellezza emozionante. Tutto sommato accettabile anche il resto del cast, sebbene qualche elemento, ad esempio Enrico Ostermann (è l’ispettore Mason), sia davvero troppo sopra le righe anche per il registro tipico di uno sceneggiato. Che peraltro, almeno in questo specifico episodio, si distingue per una dignitosa messa in scena, anche nelle scene in esterni – in genere punto debole di questo tipo di produzioni. Nel complesso il film è godibile, certamente un po’ compassato come ritmo narrativo ma, fintanto che la complessa trama gialla è avvolta nel mistero, riesce ad essere particolarmente avvincente. Il finale può, per assurdo, essere meno appassionante – per via di certe soluzioni spesso troppo artificiose – ma questo è un aspetto tipico di questo genere di racconti e dipende anche dal gusto dello spettatore. Sulle fasi narrative dedicate allo sviluppo dell’indagine è invece più semplice essere positivamente d’accordo visto il notevole grado di coinvolgimento che l’intricato intreccio produce magneticamente su chi vi si inoltra, lettore o spettatore che sia. 



Anna Miserocchi 


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venerdì 28 aprile 2023

NELLE TENEBRE DELLA METROPOLI

1264_NELLE TENEBRE DELLA METROPOLI (Hangover Square). Stati Uniti, 1945; Regia di John Brahm.

Sono pochi i film nella Storia del cinema nei quali la musica riesce a esprimere e interpretare in modo così totalizzante come in Nelle tenebre della metropoli il senso dell’opera. John Brahm ebbe a dire che il compositore Bernard Herrmann fu molto soddisfatto, addirittura incredulo, quando vide il film perché il regista aveva filmato direttamente la sua musica, una definizione certamente azzeccata. In effetti il lavoro di Brahm è notevole, un bel film che mischia sapientemente elementi provenienti da generi diversi: se la confezione formale e alcuni dettagli sono tipici del noir, altri passaggi hanno l’intensità di un horror mentre l’importanza della musica incarna il significato del film meglio di tanti musical espliciti. L’incipit, per cominciare dall’inizio, ci proietta in un horror espressionista con una terrorizzante scena di un omicidio in un bianco e nero angosciante, merito della fotografia di Joseph LaShelle. Del resto il protagonista Laird Gregar – qui nel ruolo del musicista George Harvey Bone – e il regista Brahm erano reduci da Il pensionante, remake del thriller di Hitchcock ispirato alle gesta di Jack lo Squartatore. Nel quale recitava anche George Sanders che ritroviamo anche in Nelle tenebre della metropoli, nel ruolo del dottor Middleton. L’idea che anche questa storia racconti di un serial killer è quindi supportata da questi espliciti rimandi mentre la vicenda leggera che debba far da contrasto agli scoppi di follia del protagonista si presenta sul momento come il classico intreccio sentimentale. George Bone, emergente compositore musicale, ha una sorta di fidanzata, Barbara (Faye Marlowe), figlia dell’eminente Sir Henry Chapman, illustre direttore d’orchestra. 

Purtroppo il musicista protagonista soffre di amnesie momentanee durante le quali potrebbe commettere qualunque cosa – lo spettatore ne ha avuto un esempio giusto all’inizio del film – per cui si rivolge al dottor Middleton che, oltre ad interessarsi al caso clinico, mette gli occhi sulla deliziosa Barbara. George Sanders aveva quell’ambiguità necessaria per gestire la cosa nella maniera più naturale possibile, senza passare per spudorato dongiovanni. Fin qui la trama regge il canovaccio del thriller – a tratti, come abbiamo detto, anche dell’horror – con lo psicopatico che è in lotta melodrammatica con l’eroe buono della storia che, mentre sostiene di volerlo curare, cerca di soffiargli la ragazza. Il tutto immerso nella solida ambientazione musicale in cui un compositore del calibro di Herrmann non si risparmia assolutamente. 

Ma, come detto, il film assume prevalentemente una connotazione noir e questo è dovuto all’entrata in scena della vera regina della pellicola, una stratosferica Linda Darnell, quintessenza della dark lady dall’anima assai dark e ben poco lady ma con un tale charme che rimane comunque adorabile. Memorabile, in tal senso, l’occhiolino che Netta, il suo personaggio, fa a sé stessa mentre si sta baciando con George, dopo averlo ancora una volta convinto a scriverle una canzonetta sospendendo il lavoro di composizione che rappresentava l’occasione della vita per il musicista. Netta era una semplice cantante da night club mentre George componeva musica di livello più nobile, nella fattispecie un concerto con pianoforte; può sembrare una distinzione di natura tecnica eppure uno degli aspetti più interessanti del film è inerente proprio alla sfera musicale. L’eccellente musica di George Bone – in realtà di Herrmann, ovviamente – creata per un severo concerto di pianoforte, prende una consistenza diversa ma non meno affascinante una volta armeggiata da Netta – nelle occasioni musicali doppiata da Kay St. German Wells. La musica è una sorta di metafora nella quale si possono riflettere anche le due figure femminili che, a loro volta, simboleggiano la strada che George Bone voglia intraprendere. Il nostro buon George vuole davvero diventare un musicista serio e apprezzato? 

Finisca di scrivere il concerto e si dedichi a Barbara, ragazza innamorata oltre che ottimo partito. Ma, e qui emerge la struttura noir del racconto, può un uomo come George resistere ad una femme fatale come Netta? Eccolo quindi lasciare la musica seria – e Barbara – per soddisfare i capricci di Netta e adattare la sua musica per le canzonette da bar della vedette. Quando, inevitabilmente, George scoprirà di essere stato manipolato e tradito dalla donna, saranno dolori ma, va riconosciuto, che mai il musicista è sembrato ardente di vita come nei momenti passati con Netta. La Darnell, tra l’altro, si supera in un’interpretazione davvero eccellente, anticipando tra gli altri passaggi, la scena che forse l’ha resa più famosa, quella in cui si massaggia il piede ne Un angelo è caduto (1945, regia di Otto Preminger). Al suo personaggio Brahm riserva un’uscita di scena clamorosa, degna di una vera strega, con tanto di rogo in cui il suo povero cadavere finisce arrosto. Il momento è un’altra incursione horror del racconto, con il falò di Guy Fawkes – un dettaglio oltretutto storico – per una resa sullo schermo talmente impressionante da venir ripescata anni dopo dallo stesso Brahm per Il mostro delle nebbie (1954). L’immagine che la passione sia qualcosa che bruci ma che possa finire per bruciare chi se ne lasci dominare è il vero tema del film, di cui la musica è un’altra efficace metafora – una delle tante – a cui il talento di Herrmann riesce a dare potente credibilità. Come Netta, l’unica altra vera persona davvero appassionata nel film, George finisce bruciato, in un finale tragico e intenso. Nell’insieme potrebbe suscitare qualche perplessità la vena horror del racconto – legata alla schizofrenia del protagonista – che destabilizza un po’ la struttura della trama. Tuttavia Brahm fa un lavoro sopraffino e riesce a innestarla con perizia, tanto che il racconto risulta convincente e appassionante. I personaggi borderline – il musicista schizofrenico, la ragazza esibizionista ed opportunista – sono quelli che si godono maggiormente la vita, anche se ne finiscono bruciati. Si prendano le scene con Netta sul palco oppure la differenza tra l’interpretazione finale tra George e la fidanzata Barbara, che ad un certo punto lo sostituisce al pianoforte. Nel finale, la stessa Barbara, il dottor Middleton e sir Henry si ritrovano in strada, increduli di fronte alla scelta autodistruttiva di George. Le banali persone comuni non possono comprendere davvero il genio dell’arte, né quando è ai suoi massimi livelli e men che meno quando è ai suoi minimi. 







Linda Darnell






 Faye Marlowe 

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mercoledì 26 aprile 2023

PER LA VECCHIA BANDIERA

1263_PER LA VECCHIA BANDIERA (Thunder over the plains). Stati Uniti, 1953; Regia di André De Toth.

Curiosamente contraddittori i presupposti di Per la vecchia bandiera, western del 1953 diretto da André De Toth. Pur presentandosi come tipico B-movie – con un bravo regista per questo tipo di pellicole e l’attore forse più congegnale, Randolph Scott – il film insiste con convinzione sulla sua matrice storica. Che per un film di serie B è una bella pretesa, volendo appunto vedere. Ma, sorvolando su qualche comprensibile inesattezza, il tema centrale del racconto filmico è effettivamente attendibile: tra il 1865, anno di capitolazione della Confederazione del sud nella Guerra Civile Americana, e il 1870, anno di riannessione del Texas all’Unione, ci furono i classici problemi post bellici che contraddistinsero gli stati sconfitti. Gli speculatori arrivavano in questo contesto cercando di approfittare della crisi che la guerra aveva generato, espropriando i vecchi possidenti terrieri con manovre spesso poco pulite. Chi mal sopportava questa situazione si ribellava e passava per fuorilegge: per riportare l’ordine Washington spediva sul posto cosiddette truppe d’occupazione. Il capitano Porter (l’inossidabile Randolph Scott), è spronato dal suo superiore, il tenente colonnello Chandler (Henry Hull) a sedare i disordini e catturare il pericoloso Westman (Charles McGraw). Il problema è che il capitano è originario del Texas e conosce bene le ragioni dei suoi concittadini; tuttavia il suo superiore non è disposto a sentire ragioni, è prossimo alla pensione e non vuole altre grane. Che invece arrivano al forte sotto forma del Capitano Hodges (Lex Barter). Hodges non è affatto soddisfatto del luogo della sua destinazione e vorrebbe tornare all’est; non è, quindi, dell’idea di fare sconti ai rivoltosi. Prima chiude la questione, prima può sperare in una promozione e in un trasferimento in un luogo più consono ad un ufficiale d’accademia come lui. 

Con il capitano Porter si crea quindi una divergenza d’opinioni destinata ad inasprirsi sempre più quando Hodges mette gli occhi sulla moglie del collega. Norah (Phyllis Kirk) è una donna molto bella intristita dalla vita in una terra di frontiera che le è oltretutto ostile: la signora Porter rimpiange il tempo in cui viveva ad est e Hodges alimenta questa sua nostalgia rievocando i suoi trascorsi di inizio carriera ai tempi dell’accademia. Tra i due si stabilisce una certa intesa, peraltro Norah ha unicamente bisogno di distrarsi dalla monotona quotidianità, mentre l’uomo cerca di approfittare dell’occasione. Ad un certo punto l'uomo si spinge troppo in là e, come prevedibile, Porten coglie i due in un atteggiamento intimo. Con Hodges la faccenda si chiarisce subito a cazzotti ma, con la nonchalance tipica dei personaggi di Randolph Scott, Porter non avrà alcun dubbio in merito alla fedeltà della moglie. Intanto i faccendieri arrivati dall’est, Standish (Elisha Cook Jr) e Balfour (Hugh Sanders), hanno incastrato Westman con una falsa accusa di omicidio: la situazione degenera e il tenente colonnello Chandler mette Porter spalle al muro. Westman è quindi catturato e rischia di finire sulla forca; i texani reagiscono e rapiscono Standish, chiedendo uno scambio di prigionieri. Porter cerca di scagionare Westman e ristabilire un minimo di calma; Hodges, al contrario, agita le acque, così come Balfour, vera anima nera della comitiva. Alla fine – e c’era da dubitarne? – il capitano dal volto imperturbabile di Randolph Scott sistema tutto quanto e il Texas può finalmente ritornare nell’Unione. Per la vecchia bandiera sarà anche a sfondo storico ma Randolph Scott nei suoi western non lascia conti in sospeso troppo a lungo.  


Phyllis Kirk 



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lunedì 24 aprile 2023

IL POSTINO SUONA SEMPRE DUE VOLTE

1262_IL POSTINO SUONA SEMPRE DUE VOLTE (The Postman always rings twice). Stati Uniti, 1946; Regia di Tay Garnett.

La MGM era stata tempestiva nel comprare i diritti del torbido romanzo hard-boiled di James M. Cain, Il postino suona sempre due volte, ma metterlo sullo schermo non era cosa da prendere alla leggera. Il Codice Hays era uno scoglio arduo da affrontare, con un tema così scottante come la storia raccontata nel libro; mentre ad Hollywood si temporeggiava, prima in Francia (1939, Le dérnier tournant di Pierre Chenall), poi in Italia (1943, Ossessione di Luchino Visconti) si diedero più che valide trasposizioni del racconto. Ma, per la questione dei diritti, le opere europee furono ostacolate dallo studio del leone ruggente; intanto, nel 1944, La fiamma del peccato (regia di Billy Wilder), ugualmente tratto da Cain e anch’esso con un grado di morbosità notevole, superò i problemi di censura: rinfrancata da ciò, la MGM diede il via all’operazione Il postino suona sempre due volte affidandone la direzione a Tay Garnett. Il film, anche a vederlo oggi, conserva il suo approccio malsano, dal momento che i protagonisti sono in fin della fiera due criminali. Ma non due volgari fuorilegge: semplicemente due persone troppe deboli e incapaci di reggere una propria dirittura morale. La cosa che sorprende oggi, e stupisce maggiormente, è però un’altra. La protagonista indiscussa del film è Lana Turner nel ruolo di Cora Smith; da notare che Cain, una volta visto il film, si disse soddisfatto al di là delle più rosee aspettative per l’interpretazione del suo personaggio da parte della diva platinata. Lanallure, lo chiamavano, l’allure di Lana; un fascino con ben pochi eguali a Hollywood e non solo. Ma è proprio qui il punto critico: la Turner è superba, intendiamoci. 

Il suo iconico ingresso in scena, a partire dalle décolleté bianche e poi, salendo, gambe perfette, calzoncini, top e turbante ugualmente candidi, si iscrive di diritto nella galleria di immagini delle divinità hollywoodiane. Di fronte a lei, chinatosi umilmente a raccoglierle il rossetto, il suo sparring partner, John Garfield nel ruolo di Frank. Il rapporto tra i due è però abbastanza contraddittorio, perché fin da subito l’uomo, dopo aver raccolto il cosmetico, non lo consegna alla donna ma aspetta che sia lei a muoversi per riprenderselo. Andranno avanti così per tutto il film, con un rapporto di dominazione/dominato che vede Cora avere una certa supremazia ma non totale e completa. I due sono amanti, o meglio lo diventeranno nel corso del film; perché la donna è sposata con Nick (Celcil Kellaway), un pacioso individuo che non si capisce mai quanto sia fesso o quanto reciti a farlo. 

Del resto la storia, se non è nota abbastanza, non è difficile da immaginare: ‘bella donna sposata per interesse ad un uomo benestante ma non attraente, trova l’amante e con la sua complicità uccide il marito.’ I timori della MGM erano legati innanzitutto alla prospettiva del racconto, che segue le vicende del duo criminale senza mai criticarne il comportamento da un punto di vista morale o etico. Inoltre le allusioni erotiche erano certamente piccanti, in quanto la Turner sfoggiava per tutto il film il perfetto personale, peraltro senza scadere mai nel volgare. E qui torniamo al punto curioso di cui si diceva: perché la Cora interpretata da Lana Turner non sembra aver niente a che fare con il resto della storia. Cioè, che una bella ragazza sposi un attempato uomo per sistemarsi, è cosa credibile; ma Lana Turner nel 1946 non era una generica bella ragazza, e ne Il postino suona sempre due volte meno che mai. Lana era un’autentica divinità pienamente consapevole del fascino laccato e impeccabile, quasi freddo tanto la sua bellezza era curata alla perfezione. Una bella ragazza poteva certamente sistemarsi alla locanda delle Querce Gemelle, una 'Lana Turner' era decisamente meno probabile. Non è che l’attrice americana sia stata la donna più bella di sempre, non è questione di bellezza e nemmeno di fascino. Le classifiche lasciano il tempo che trovano e ad Hollywood di dive, nel corso dei decenni, se ne son viste parecchie. 


La cosa che stupisce è che se Lana adeguava abitualmente ben poco il suo guardaroba alle circostanze, in questo film non lo adeguò del tutto: ne Il postino suona sempre due volte l’attrice è sempre pettinata e vestita a puntino come una modella pronta per la sfilata pur recitando il ruolo di locandiera di periferia. Essendo l’epicentro della storia – Cora è il vertice del classico triangolo melodrammatico, compreso tra Frank e Nick – la cosa contribuisce ad un effetto straniante sulla storia. Il film segue il classico schema noir, con Frank, il protagonista un po’ spiantato, che incontra sulla sua strada la dark lady, ovviamente Cora, che lo condurrà alla rovina. Sulla carta il tenore della storia è torbido, con i due amanti che se la intendono sotto il naso del marito, amoreggiando sotto il suo stesso tetto addirittura con il suo apparente beneplacito – si veda la scena in cui tornano dalla spiaggia che è già notte e Nik non sembra minimamente curarsene. Eppure il distaccato glamour di Lana raffredda l’atmosfera, la mantiene ambiguamente accettabile da un punto di vista formale contribuendo ad alimentare l’ipocrisia con cui i due protagonisti procedono impunemente lungo la storia. Ma l’ipocrisia di Frank è, a conti fatti, poca roba, è l’ipocrisia di un debole: l’uomo, infatti, si lascia sedurre pur se recita convintamente il ruolo di macho della vicenda, si lascia convincere agli intenti criminali di Cora, si lascia intimorire dal procuratore Sackett (Leon Ames) e così via. Cora, invece, almeno sotto questo aspetto, è di altro livello, con un’ipocrisia forse pari a quella del marito Nick. 

Con la sua aria perfettina – lei è quella che si mette la cuffia per non sciuparsi i capelli biondo platino ogni volta che si fa un tuffo nel mare – maschera un’anima che non esita a macchiarsi di un crimine odioso come l’omicidio del marito semplicemente perché lo ritiene necessario. Ma lo stesso consorte Nick non è di pasta diversa, anzi: lui non ha la forza per progettare un omicidio vero e proprio ma ha la cattiveria sadica e subdola per mascherare di bontà – l’assistenza alla sorella inferma – un’azione chiaramente volta a danneggiare la moglie. Tutta la strategia dell’uomo a chiaramente ambigua: prende sotto il suo tetto un aitante giovanotto, quando è chiaro che può essere un pericolo per la sua stabilità coniugale, arrivando a spingere poi sua moglie direttamente nelle braccia dell’ospite la sera in cui Cora ballerà con Frank. In seguito c’è l’ulteriore scena con i due che tornano dal mare e lui è già a letto e, quando si sveglia e li scopre abbracciati in cortile, non dà il minimo peso alla cosa. Ingenuo? In differenti situazioni, quelle legate agli affari, per intenderci, Nick non sembra poi così sprovveduto per cui il quadro complessivo del personaggio è quantomai fosco. Il tema dell’ambiguità è chiaramente introdotto già dal titolo, con quel ‘suona sempre due volte’ che è una ripetizione e richiama anche la natura duplice del racconto, ambientato, tra l’altro, in una locanda che si chiama Le Querce Gemelle. In ogni caso molti sono i passaggi che si ripetono, dai tentativi di omicidio, alle confessioni, agli incidenti in macchina, in genere con un distinguo: dei due eventi uno è reale, l’altro è in qualche modo posticcio, finto, fasullo. Il primo tentativo di omicidio si accoppia con il fatale secondo; la confessione al procuratore a quella inutile ai fini processuali, resa da Cora a Kennedy (Alan Reed) che non lavorava per l’accusa ma all’opposto per il suo difensore, l’avvocato Keats (Hume Cronyn). E anche gli incidenti in macchina sono due ma se nel primo è solo inscenata la morte di Nick, visto che l’uomo è stato ucciso in precedenza, successivamente sarà un vero schianto a uccidere Cora. Ufficialmente il significato del titolo, e del film, è che la verità viene sempre a galla, anche se cerchiamo in prima istanza di ignorarla o nasconderla. Un po’ come il postino che insiste finché non gli apriamo, per stare con l’esempio utilizzato come appellativo dell’opera. 


Così Frank, prima della fine del film, pagherà per l’omicidio di Nick, mentre Cora a quel punto era già stata punita dal Destino, finendo, lei sì, uccisa in un incidente. La mano beffarda del fato si riconosceva anche nella sorte di Frank, che finiva alla pena capitale per un omicidio che non aveva commesso dopo averla scampata per quello invece di cui era responsabile. Ancora ripetizioni, con la Giustizia che fa cilecca ma che, almeno in un caso – posto di accettare la morte di un condannato come atto di Giustizia – assolve concettualmente al suo compito: Frank era un assassino e come tale andava punito. E’ quindi questo, il senso del film? Inutile affannarsi, pagheremo in ogni caso i nostri debiti? E il bambino che Cora porta in grembo, quale colpa avrebbe? 

E’ solo il simbolo di una felicità impossibile da raggiungere per i nostri due protagonisti? O forse è il simbolo di un futuro irrealizzabile in un paese – l’America ma vale in conseguenza per tutto il mondo occidentale – dove nessun personaggio, né Cora, né Frank, né Nick, e neppure i rappresentanti delle istituzioni, procuratori e avvocati, è davvero onesto nelle sue azioni? Tutti hanno un duplice comportamento, accanto a quello di facciata: ognuno cerca di fare spudoratamente il suo interesse. Cora finge di essere una brava moglie ma in cuor suo vuol solo liberarsi del marito; Frank accetta un incarico per mettere le corna al suo datore di lavoro; Nick spaccia per umanità verso la sorella il sadismo nei confronti della moglie; il procuratore e l’avvocato ricorrono continuamente a sotterfugi per raggiungere il proprio scopo nelle dispute legali. E l’amore tra Cora e Frank, di cui il figlioletto in arrivo era il frutto? Per quanto zoppicante, è l’unica cosa positiva del film e trova conferma nel duplice atto di fede nel finale. La prova a cui si sottopone la donna, nelle acque profonde del mare, e il pentimento di Frank poco prima della condanna, sembrano l’unico raddoppio davvero valido del film. Cora e Frank sono le uniche persone che hanno un moto di fiducia in un contesto dove l’inganno – il tema del doppio – è la normalità, la norma, quasi una legge, verrebbe da dire.
Forse non a caso i due sono i riconosciuti fuorilegge della storia.       


 Lana Turner 










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