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lunedì 15 settembre 2025

CAROVANA D'EROI

1730_CAROVANA D'EROI (Virginia City), Stati Uniti 1940. Regia di Michael Curtiz 

L’anno successivo al suo esordio con il genere, Gli avventurieri [Dodge City, 1939], Michael Curtiz si cimenta nuovamente con il western con Carovana d’eroi, riuscendo anche stavolta a portare a casa il risultato. In realtà Carovana d’eroi è un western atipico, in quanto ambientato durante la Guerra Civile Americana, un elemento storico sempre piuttosto ingombrante al cinema hollywoodiano. In effetti non sembra affatto un caso che l’anno di uscita del film sia di poco precedente all’entrata in guerra degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale. Anche in quell’occasione gli States avevano soppesato la cosa per un certo tempo e il film di Curtiz sembra proprio un appello all’unità nazionale di fronte ad una difficile scelta. Al di là di questi elementi in qualche modo condizionanti, il regista di origine ungherese, pur non essendo acclamato come uno dei maestri del cinema autoriale, sapeva il fatto suo e raramente non coglieva nel segno. Carovana d’eroi è un film che supera le due ore ma Curtiz, una volta impostato il suo ritmo, non concede nemmeno un minuto alla noia: l’impressione, guardando queste sue vecchie pellicole, è che il regista di Casablanca sia stato un cineasta sottovalutato. In Carovana d’eroi Curtiz si permette anche alcune citazioni illustri, come la scena della galleria scavata dai galeotti che ricorda nientemeno che La grande illusione [La grande illusion, Jean Renoir, 1937] o quella più inerente al genere dell’uomo che si getta tra i cavalli di una diligenza lanciata a tutta velocità [lo stesso stuntman Yakima Canutt l’aveva girata l’anno prima in Ombre rosse, (Stagecoach), John Ford]. Ma la qualità migliore di Curtiz anche in questa pellicola è probabilmente sempre quella di assoggettare tutti gli elementi a sua disposizione alla riuscita di un film che funziona come un meccanismo oliato e perfettamente registrato. Solida sceneggiatura, opera di Robert Buckner e Howard Koch, musiche classiche di Max Steiner, fotografia stilosa in bianco e nero di Sal Polito: dal punto di vista tecnico non ci sono pecche, tutt’altro. 

Sul cast, che è comunque sontuoso, qualche appunto si può fare, ma il terzetto d’assi è davvero ragguardevole: Errol Flynn è Kerry Bradford, ufficiale del controspionaggio nordista; Randolph Scott è Vance Irby, suo corrispettivo sudista; Humphrey Bogart è il bandito John Murrell. Come sempre, la sfacciata ed esuberante personalità di Flynn annichilisce chiunque gli capiti a tiro, tuttavia sia Scott che Bogart sono buoni incassatori. Il primo riesce ad essere credibile come avversario che, col tempo, si guadagna il rispetto dell’eroe del film, che è ovviamente il personaggio di Flynn, e, pur essendone sempre secondo, non ne viene sminuito in modo eccessivo. Diversamente da Scott, Bogie non aveva una presenza scenica per reggere il protagonista ma, a quel tempo, era ancora utilizzato come villain, ruolo che, in Carovana d’eroi, ricopre con particolare efficacia. Il suo Murrell è un tipo viscido e infido che ispira assai poca fiducia, soprattutto per il ghigno sinistro che era uno dei segni distintivi del Bogart prima maniera. Ad affiancare poi Kerry Bradford, il protagonista, ci sono un paio di spalle comiche: Alan Hale è Olaf e Gun «Big Boy» Williams è Marblehead, inserite nel copione per non far calare mai il tono del racconto. Curtiz, ancora una volta, dimostra la capacità di gestire con grande profitto il cast che la Warner Bros gli aveva concesso: Flynn era libero di scorrazzare a piacimento, Scott era comunque bravo a non farsi pestare i calli, Bogart sapeva stare defilato, con fare insidioso, mentre Hale e «Big Boy» Williams intervenivano nei momenti opportuni per alleggerire il racconto e prepararne il rilancio. 

Probabilmente, Carovana d’eroi è troppo influenzato dal peso del tema principale per poter essere ascritto a qualche corrente del western: la «guerra tra gli stati», rammentata per fare appello, per contrasto, all’unità nazionale in vista dell’entrata in guerra, era come detto troppo ingombrante. Tuttavia il film risente comunque del clima generale che era diffuso nel genere, sebbene poi ne tradisca l’elemento cardine. Per il cinema western gli anni 40 furono caratterizzati da una fortissima deriva romantica che, in effetti, non manca nemmeno in Carovana d’eroi, anzi, tutt’altro. Del resto Errol Flynn era la tipica faccia da schiaffi che incarnava perfettamente l’ideale romantico di questo tipo di racconti. Tuttavia l’argomento principale, la Guerra Civile, non permetteva troppe divagazioni per cui, Carovana d’eroi non è propriamente un western romantico, corrente che altri titoli interpretarono in modo più fedele. Anche perché la protagonista, la pur valida Miriam Hopkins (è Julia), è lasciata da sola a fronteggiare troppi personaggi maschili. La Hopkins era una grande attrice, aveva recitato con registi del calibro di Ernst Lubitsch e Howard Hawks ma, nonostante bravura, bellezza, charme, intensità, non le manchino nemmeno in quest’occasione, non riesce a rendere davvero indimenticabile il suo personaggio. E, a ben vedere, in questo senso Carovana d’eroi è allora un perfetto Western Romantico, perché le sue sorti dipendono più dall’attrice che non dall’attore protagonista, cosa che nel successivo periodo, quello «classico» del genere, non sarà più vera. 

E Carovana d’eroi, sebbene sia senza ombra di dubbio un film godibile, non va oltre quello; il che, stante tutti gli elementi a disposizione, qualche rimpianto lo lascia. A prima vista, a tradire è proprio il personaggio di Julia: il problema, probabilmente, non risiede nelle qualità dell’attrice, dal momento che la Hopkins era interprete di talento e non mancava del physique du rôle, come si può vedere nelle piacevoli scene del saloon dove si esibisce nei tipici abiti succinti. Così come difficilmente può essere Curtiz in regia a fare un passo falso: forse non avrà mai raggiunto le vette dei più grandi, ma ben raramente il cineasta nato a Budapest metteva il piede in fallo. Il punto è che Carovana d’eroi, come tutti i prodotti della grande Hollywood, coglie gli spunti del momento, che erano appunto quelli del western romantico: quindi, giovanotti ribelli ben oltre il consentito e ragazze gagliarde in grado di tener loro testa che, per ricondurli sulla retta via, ricorrevano alle loro classiche armi, bellezza e sensualità. Ma, in Carovana d’eroi, non succede niente di ciò: le schermaglie tra Kerry e Julia sono legate alle questioni politiche della Guerra Civile e, oltretutto, a stare con il Sud, e quindi dalla parte del torto –almeno a rigor di Storia ufficiale– è la ragazza. In sostanza il personaggio maschile, che nel western rimane comunque il riferimento, non ha alcuno sviluppo, nella vicenda; e, quello femminile, che in questi casi è il vero e proprio motore della storia, non ha che un pallido ruolo sentimentale da compiere. Nonostante tutto, Curtiz riesce a dare confezione formale di grande livello e Carovana d’eroi non delude certo lo spettatore; ma rimane forte il dubbio che sia un’occasione sprecata.   






Miriam Hopkins 





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mercoledì 27 agosto 2025

I BANDITI DELLA CITTA' FANTASMA

1720_I BANDITI DELLA CITTA' FANTASMA (Bad Men of Tombstone), Stati Uniti 1949. Regia di Kurt Neumann

I Quaranta si avvicinavano al termine ma il Western Romantico, che aveva imperversato in quegli anni, aveva ancora alcune cartucce da sparare, prima di lasciare campo alla Golden Age degli anni 50, vera e propria epica americana. Accettato, in un modo o nell’altro, la propria natura violenta, gli americani si poterono, a quel punto, dedicare a raccontarsi come erano stati in gamba a costruire il proprio Paese, e questo avvenne appunto nei Faboulous Fifties. Ma, come lasciato intendere, non fu esattamente una passeggiata fare i conti con la propria metà oscura: il Western Romantico fu tra i migliori espedienti cinematografici per cercare una qualche soluzione in questo senso. Le principali tematiche di questa corrente cinematografica erano due: quella sentimentale, a cui si deve il nome del sottogenere, e quella criminale. I protagonisti dei western Romantici erano sempre banditi, evidente punto di contato con altri generi coevi quali i Crime-movie o i Noir, con cui questi film condividevano anche l’utilizzo del bianco e nero della pellicola. Certo, un primo motivo di questa scelta era da ricercare nel contenimento dei costi, dal momento che questi generi non disponevano, abitualmente, di grossi budget. Comunque è un dato di fatto che la prime pellicole a colori furono a disposizione prima degli anni Quaranta e il western, nei successivi anni Cinquanta, farà di questa soluzione, potendo così sfruttare pienamente la policromia degli spettacolari scenari, uno dei suoi punto di forza. Ma, se anche produttori e registi dei Western Romantici rimasero fedeli al bianco e nero per una mera questione economica, certo è che il contrasto insito in questo tipo di fotografia ben esplicitava il bivio in cui si trovavano i personaggi dei film. La violenza, e condurre una vita randagia e solitaria come era tipica dei fuorilegge, o l’amore, dando retta al cuore e fermarsi per metter su famiglia, prima organizzazione sociale tipica della nostra civiltà? I banditi della città fantasma, godibile film di Kurt Neumann, è un western del 1949: ormai, come detto, siamo agli sgoccioli del periodo «romantico», e la questione è quindi chiarissima. 

Non ci sono equivoci di sorta: Tom Horn (Barry Sullivan) è un bandito senza troppi scrupoli, la sua bella, Julie (Marjorie Reynolds) lo sa e decide perfino di non denunciarlo. A Julie non importa come si facciano i soldi, e men che meno importa a Tom: l’importante è averne per potersi godere una vita agiata in qualche rispettabile città. Tra l’altro, Tom Horn è un personaggio storico del West, prima esploratore e poi uomo di legge, che ebbe una sorte sfortunata: probabilmente venne accusato, condannato e impiccato ingiustamente. La scelta di utilizzare un nome simile per un protagonista che, ad onor del vero, lascia invece pochi dubbi a suo carico, serve forse ad alimentarne il fascino facendo riferimento ad un personaggio vittima della malagiustizia. Un po’ come dire che il Tom Horn del film non fosse cattivo d’animo ma semplicemente condizionato dalle circostanze e, in questo senso, si può leggere tutta la velocissima parte in cui il protagonista arriva a Gold City. Nel tempo record di un canonico incipit, una manciata scarsa di minuti, Tom giunge in paese, cerca da dormire, bere, mangiare, gioca a poker, perde 200 dollari, il cavallo, tenta una rapina, viene scoperto e finisce in prigione. Non troppo avveduto, insomma, del resto è un avventuriero, il tipico protagonista dei Western Romantici. Qui la sceneggiatura di Philip Yordan e Arthur Strawn è sottile: quando si siede al tavolo da poker, Tom comincia giocando solo un dollaro, a testimonianza di un’indole prudente; sarà solo il barare del gambler a portarlo alla perdita di una somma che non possiede e, di lì in poi, sulla cattiva strada. C’è anche, per dovere di cronaca, un altro passaggio che, forse, si iscrive in questo senso: prima di derubare la banca, Tom chiede un prestito al cassiere, per quanto potrebbe anche essere stata tutta una strategia nell’ottica della rapina. Senza garanzie da offrire, ottiene risposta negativa e, a quel punto, prova a forzare la mano finendo per rovinarsi. 

In ogni caso la storia non manca di altri riferimenti di matrice politico-sociale, per così dire: ad esempio, è in prigione che il protagonista conosce Morgan (il grande Broderick Crawford), capo della banda di fuorilegge a cui Tom si unisce. Quasi a dire che la detenzione non sia una possibilità di redenzione quanto, piuttosto, quella per il definitivo passaggio sulla sponda sbagliata. La vera critica sociale arriva però quasi nel finale: il colpo con cui i banditi vogliono chiudere la propria attività è un affare enorme e viene proposto loro da una coppia di loschi ma distinti uomini d’affari che si oppone alla nuova Legge che prevede la lottizzazione del territorio dell’ovest. Questi rispettabili imprenditori detengono la stragrande maggioranza del bestiame della nazione e, se i terreni venissero recintati, non potrebbero più spostarlo a piacimento, vedendo andare in fumo tutto il loro business. La loro richiesta è semplice e, a suo modo, emblematica del razionalismo yankee che fu alla base della conquista del west: ai banditi viene chiesto di eliminare fisicamente le persone più in vista tra i potenziali acquirenti dei territori da lottizzare, in modo da scoraggiare il fenomeno. Né Tom, né tantomeno Morgan, hanno alcunché da obiettare: uccidere è un modo come un altro per far soldi, quindi, una volta trovato l’accordo economico, l’affare si può concludere. L’unica speranza di redenzione per l’eroe, se vogliamo chiamarlo così, non è quindi nella sua moralità, di cui è sostanzialmente privo, ma nell’amore. Julie, infatti, seppure in principio non sia differente dal suo uomo, col passare della storia si lascia sedurre da una prospettiva più quieta, un modo di vivere più consono alle persone civili. Al ballo, prima del giorno decisivo, lei e Tom conoscono un’altra giovane coppia con tre figli che, a differenza loro, non intende andare a vivere a San Francisco per spassarsela. Il loro obiettivo è, appunto, uno degli appezzamenti in attesa di essere assegnato; tra l’altro, il fatto che il «lavoro» propostogli dagli affaristi ostacoli i piani di brava gente con cui ha appena fatto amicizia, non pone nessuno scrupolo a Tom. Sarà invece l’esplicita pretesa di Julie a far cambiare idea all’uomo che, non per questo, tuttavia, intende lasciar perdere la sua parte di bottino dell’attività criminale della banda, cha aspetta ancora di essere divisa. Lo scontro con Morgan lo vede prevalere grazie alla sua astuzia nei duelli con la pistola: è quindi questa la chiave del sogno americano? In realtà, Neumann, europeo e solido cineasta di genere, non perde l’occasione per inframmettere grate, sbarre e steccate tra i suoi protagonisti, Tom e Julie, e lo schermo: non ci sono i presupposti per avere speranze, sembra volerci dire. Il pistolotto posticcio finale serve solo ad indorare la pillola e convincere produttori e uffici censori della moralità d’intenti della pellicola. Ma ciò che rende I banditi della città fantasma un film illuminante, è che espone quali furono i principi fondanti del nascente Paese: zero scrupoli, determinazione e scaltra intelligenza. Verità troppo brutale? Ci penseranno i film dell’imminente Golden Age del western, i classici degli anni 50, a renderla digeribile.  


Marjorie Reynolds



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venerdì 7 marzo 2025

ARRIVA UN CAVALIERE LIBERO E SELVAGGIO

1633_ARRIVA UN CAVALIERE LIBERO E SELVAGGIO (Comes a Horseman). Stati Uniti 1978. Regia di Alan J. Pakula

Dopo i successi della cosiddetta trilogia della paranoia (Una squillo per l’ispettore Klute, Perché, un assassino e Tutti gli uomini del presidente) Alan J. Pakula si cimenta con il genere classico per eccellenza, il western. L’approccio è decisamente personale, sebbene in tema con i tempi che sembrano ormai irrimediabilmente passati per il western classico: l’ambientazione è posteriore ai tempi della conquista del west, siamo già intorno dopo il 1940 e la protagonista scorazza per la campagna con una vecchia automobile, oltre che a cavallo. La protagonista è Ella –una Jane Fonda un po’ trasandata e sciupata, nel vano tentativo di imbruttirla– una ranchera che si oppone alle prepotenze Jacob Ewing (il sempre utile Jason Robards), il classico allevatore espansionista. Ad aiutare la donna, in principio, c’è solo il vecchio Dodger, (Richard Farnsworth) di cui sarà memorabile soprattutto l’uscita di scena, e per fortuna che a dar manforte all’improbabile duo di allevatori (una donna e un vecchio) arriverà Frank, il cavaliere del titolo, interpretato da un nerboruto James Caan. Il film non offre particolari espedienti narrativi né interpretazioni della cultura western che siano originali: Ewing conosce solo la legge della prepotenza e la impone, a chiunque gli si pari davanti, anche ai banchieri interessati al petrolio di cui pare sia ricca la zona. Anche Ella, in gioventù aveva ceduto, più che subito, alla violenza dell’uomo ma, da allora, le cose sono cambiate e la donna è divenuta l’ultimo baluardo irriducibile all’espansione di Ewing. Non sono queste cose, però, a rendere memorabile il film, in quanto non sono particolarmente originali: non basta che l’eroe che si oppone alle ingiustizie sia una donna, nemmeno una donna come Jane Fonda, per rendere la cosa particolarmente significativa. 

In realtà non c’è niente di particolarmente significativo, in questo film, se non la resa del Sogno Americano. E Pakula, per rendere esplicito il fallimento di questo importante manifesto della cultura occidentale, e non solo a stelle e strisce, sceglie il genere che per antonomasia lo ha celebrato, il western, ma lo svuota completamente. Abbiamo visto come nel film ci siano infatti tutti gli stereotipi dei classici film sulla conquista del west ma non funzionano. La vera lotta, lo si capisce nella seconda parte della storia, non è tra l’allevatore piccolo e quello più grande ed espansionista, ma tra due sistemi economici, uno più arretrato e l’altro più speculativo e legato allo sfruttamento selvaggio delle risorse. Non di meno, se è vero che nella vicenda alla fine si unisce una coppia, non si vedono all’orizzonte figli o discendenti; mentre viene celebrata in modo discreto ma significativo la morte del vecchio mandriano, simbolo del tempo che fu. Anche la fotografia del celebrato Gordon Willis è tutt’altro che affascinante; forse tecnicamente ineccepibile, ma i paesaggi che mostra, pur se di grande fascino, mettono tristezza per via dei colori spenti e tipicamente televisivi. Pakula mostra la rabbia di una generazione: la stizza di Ella, la furiosa reazione di Frank che malmena brutalmente i due sgherri di Ewing. Rabbia per le ingiustizie, per le avversità e, nel contempo, questa generazione vede anche andare in fumo i propri sforzi, insieme al loro ranch che brucia e si consuma in un attimo: con la stessa assenza di enfasi con cui viene sbrigata la formalità dello scontro finale. Nel finale, i due si aggirano per i resti dell’incendio cercando di risistemare qualche trave: un’immagine triste, tra il commovente e il patetico. Se ci sarà una ricostruzione non sarà in questo cinema.   





 Jane Fonda 

martedì 25 febbraio 2025

LA VIA DEL WEST

1628_LA VIA DEL WEST (The Way West) . Stati Uniti 1967. Regia di Andrew V. McLaglen

Il film La via del west è tratto da un fortunato romanzo western The way west (che è anche il titolo originale del film), premio Pulizer nel 1950, che pare fosse molto ambito tra gli studios di Hollywood. In effetti, la trama del racconto è molto articolata e il regista Andrew V. Mclaglen e i suoi sceneggiatori avranno avuto il loro bel daffare a raccordare il tutto nei tempi cinematografici, come al solito più vincolanti rispetto a quelli letterari. L’idea che con una base succulenta, condita da un cast coi controfiocchi (Kirk Douglas, Robert Mitchum, Richard Widmark solo per citare i tre prim’attori) possa bastare ad ottenere un filmone, è, tuttavia, solo una pia illusione dei produttori cinematografici. Il film non è male ma, viste le premesse, naviga a vista e non decolla mai totalmente.
Troppa carne al fuoco cotta in modo sbrigativo: la ragazza maliziosa (Sally Field) che rimane in cinta, il tentativo del senatore Tadlock (Kirk Douglas) di sedurre la moglie (Lola Albright) di Evans (Richard Widmark), ma anche la follia della signora Mack (Katherine Justice), che pure è efficace, sono tutti passaggi appena abbozzati, poco approfonditi. Mitchum, (che interpreta Dick Summers) regge la scena grazie alla sua presenza, ma già Douglaus e Widmark, che pure sono grandi attori, non riescono a dare il loro meglio; nel complesso le vicissitudini della carovana, anche grazie a qualche passaggio a tinte forti, anzi fortissime (per esempio l’impiccagione), tengono ben desta l’attenzione per uno spettacolo tutto sommato comunque sufficientemente apprezzabile. 
  




sabato 15 febbraio 2025

JOE BASS L'IMPLACABILE

1623_JOE BASS L'IMPLACABILE (The Scalphunters). Stati Uniti 1968. Regia di Sidney Pollack

Sidney Pollack si cimenta con il western con un film avvincente e divertente, che utilizza gli ingredienti tipici del genere mescolandoli in modo inconsueto. Nel film ci sono infatti tantissimi topoi del genere: c’è l’eroe tutto d’un pezzo, lo Joe Bass del titolo italiano (uno spassoso Burt Lancaster), ci sono gli indiani Kiowas, ci sono i cacciatori di scalpi del titolo originale (The scalphunters, di cui il formidabile Telly Savallas è il capo), ci sono i cavalli, le pellicce, la «ragazza» del saloon (un’ormai appesantita Shelly Winter). E c’è il paesaggio, magnifico, immortalato in una fotografia sontuosa; e c’è anche la colonna sonora di Elmer Bernstein, a cui si devono alcune delle musiche più memorabili del cinema western, una vera garanzia. Gli ingredienti quindi ci sono e sono i soliti; il personale contributo di Pollack al genere può quindi essere considerato il rimescolamento generale. Anzi, più che rimescolamento, si potrebbe parlare di ribaltamento: abbiamo, infatti, gli indiani che truffano il cacciatore bianco nel commercio di pellicce, i predoni scalpatori che non sono pellerossa ma bianchi, e, tanto per rendere questo rovesciamento di ruoli evidente al massimo, nel provvidenziale «arrivano i nostri» troviamo gli indiani nell’inedito ruolo di salvatori. Inoltre il regista introduce un elemento poco frequente nei film ambientati nella frontiera: lo schiavo di colore (Ossie David che interpreta Joseph Lee). Ulteriore stranezza di questo film, il personaggio arriva nella storia in modo del tutto imprevedibile: sono i Kiowas a barattarlo con alcune pelli, e quindi il nostro Joseph cerca sì di affrancarsi dalla schiavitù, come sarebbe anche prevedibile, ma dagli indiani e non dai bianchi. In realtà l’uomo si professa addirittura Comanche, in quanto in seguito alla fuga dall’est è stato adottato da quest’altra tribù; in ogni caso è ben istruito e ha una gran faccia tosta. Le vicissitudini della storia, godibilissima e mantenuta avvincente e allo stesso tempo divertente, lo portano ad affiancarsi a Joe Bass; non sarà una convivenza semplice perché questi è razzista e cocciuto. Tra i due nasce però una stima reciproca che sarà alla base della futura e prevedibile amicizia: in ogni caso, la vicendevole frequentazione arricchirà entrambi, fino alla scena in cui, dopo una furibonda e simbolica scazzottata nel fango, non sarà possibile praticamente distinguerli.
Un buon western, quindi; sapore classico, spirito moderno. 
 





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sabato 1 febbraio 2025

IMPICCALO PIU' IN ALTO

1616_IMPICCALO PIU' IN ALTO (Hang 'Em High). Stati Uniti 1968. Regia di Ted Post

Il regista Ted Post firma questo western che segna il ritorno in patria di Clint Eastwood, dopo i fasti della trilogia italiana diretta da Sergio Leone. Il film è anche la prima produzione della società di produzione The Malpaso Company, di proprietà dello stesso attore americano, che testimonia l’insolita intraprendenza di Eastwood anche fuori dallo schermo. Il periodo sotto la direzione di Leone ha lasciato una pesante eredità, che si nota nell’influsso che il genere Spaghetti Western ha su questo Impiccalo più in alto. Il film è senz’altro godibile, sorretto dalla verve di Eastwood che, pur non avendo un gran registro espressivo, è ormai un’icona western che basta da sola a reggere il peso della pellicola. Il cast è comunque molto ricco: come non citare Inger Stevens, dalla elegante figura bionda e snella, particolarmente intrigante in ambito western. Bene anche l’istrionico premio Oscar Ed Begley ( il capitano Wilson), buone anche le comparsate di Ben Johnson (lo sceriffo Dave Bliss), Dennis Hopper (il predicatore), Pat Hingle (il giudice Fenton), Bruce Dern (Miller), e Ned Romero (Charlie Blackfoot) mentre lascia un po’ perplesso lo spento Charles McGraw (lo sceriffo Calhoum). Insomma il film ha tutto per ben figurare: la simbolica iniziale scena biblica del buon pastore, qui in versione “buon allevatore”, vira subito sul drammatico per uno fulminate incipit. Anche l’arrivo dei titoli di testa, in particolar modo “starring Clint Eastwood” che folgora il nostro eroe appena appeso ad un ramo, è di quelli che lasciano il segno. Tuttavia forse occorre riconoscere che l’uso delle zoomate sui volti, i primi piani insistiti, le espressioni quasi da cinema espressionista, insomma tutto il corollario che vorrebbe riprendere il cinema di Leone, lo fa in modo un po’ troppo manierista. Inoltre, qualche passaggio nella messa in scena e della narrazione, non convince fino in fondo. La struttura della storia poi, dà l’idea di essere un po’ dispersiva: insomma, non sembra che il regista abbia padroneggiato al meglio il materiale a disposizione. Nel complesso, un western sufficiente ed interessante anche nell’ottica di cogliere l’influsso europeo sulla produzione americana del genere.



Inger Stevens