Translate

lunedì 30 novembre 2020

19° STORMO BOMBARDIERI

676_19° STORMO BOMBARDIERI (Bombardier). Stati Uniti1943. Regia di Richard Wallace e Lambert Hillyer.

Il bombardamento di Dresda, in Germania, è forse l’evento più celebre di questa pratica bellica, a patto di non prendere in esame lo sgancio degli ordigni nucleari di Hiroshima e Nagasaki. Stiamo parlando di azioni di guerra della II Guerra Mondiale, naturalmente e, in realtà, ben prima del bombardamento che aveva raso al suolo la città tedesca, dal 1942 in Giappone erano cominciati terribili attacchi a suon di bombe dal cielo. Tokyo venne completamente annientata da questo tipo di azioni, tanto che c’è chi sostiene che le atomiche la risparmiarono, in favore di altri obiettivi, perché non c’era più nulla da distruggere. La guerra non è mai gentile, sia chiaro, ma gli americani avevano, di fatto, deliberatamente deciso di prendersela coi civili, che finivano sotto i bombardamenti, visto che la battaglia furibonda contro i soldati nipponici era difficilissima e assai dispendiosa, anche in termini di vite umane, da vincere. Da un punto di vista dell’opinione pubblica interna, essendo gli Stati Uniti un paese libero, era una scelta che poteva indurre a qualche perplessità. E’ in questo contesto che arriva sugli schermi 19° Stormo Bombardieri, solido film bellico per la regia di Richard Wallace coadiuvato, nelle scene aeree, da Lambert Hillyer. L’impressione è che si tratti di un film di forte propaganda, ma non tanto inerente al conflitto in sé, quanto al ruolo dei bombardieri. Nel film, infatti, è presentata una rivalità tra il ruolo di bombardiere e quello di pilota con il tentativo, abbastanza palese, di riscattare la figura del primo. E’ chiaro che, parlandone sommariamente, l’atto di bombardare è un’azione quasi al limite della viltà: si lascia cadere l’ordigno e dove capita capita. 

Ben diversa era l’azione dei piloti dei caccia dell’epoca che, con le mitragliatrici, guardavano a cosa sparavano e spesso erano impegnati in duelli dai toni cavallereschi. In effetti l’eredità nobile della figura del pilota (si pensi al Barone Rosso, come esempio) era ancora perfettamente valida nella II Guerra Mondiale. Nel film, il capitano Buck, interpretato da Randolph Scott, non manca mai di rimarcare la superiorità, vera o presunta che sia, dei piloti sui bombardieri. Gli si oppone il maggiore Davis (Pat O’Brien), ex pilota e ora convertito, per necessità di causa, al partito dei bombardieri. L’operato dell’ufficiale è quasi metalinguistico: nel momento in cui la guerra viene decisa da un uso smodato e indiscriminato dei bombardamenti sulle città piene di civili, occorre riqualificare la figura del bombardiere in seno all’esercito americano e, soprattutto, nelle platee dei cinema del paese. 


In tal modo, rendendo eroici questi soldati, sarà più semplice difendere poi la strategia sanguinaria perpetrata durante il conflitto, messa in atto, in senso per altro unicamente materiale, proprio da questo tipo di aviatori. In questa direzione va anche l’insistita dimostrazione degli innovativi dispositivi di puntamento che dovevano rendere i bombardamenti più mirati, meno legati al caso. In realtà sul Giappone questa attenzione scientifica non fu percepita, durante la guerra ma, come detto, questo aspetto nel film ha uno scopo probabilmente diverso. Si cerca cioè di ammorbidire l’idea dei bombardamenti per anticipare o contenere eventuali scrupoli di coscienza nell’opinione pubblica americana dell’epoca. A coronamento di un film che in definitiva cerca spesso di stemperare i toni drammatici, la vera protagonista della storia è una ragazza, Burton, interpretata da una pimpante Anne Shirley. E, in qualità di personaggio più carismatico della storia, è proprio lei che decreta l’esito della contesa piloti vs bombardieri. Messa al centro della tresca amorosa, corteggiata sia da Buck (pilota), che da Davis (ex pilota e ora comandante dei bombardieri), sceglie Carter (Walter Reed), un bombardiere al 100%.
Con buona pace delle macerie piene di cadaveri di civili nelle città bombardate, verrebbe da dire.
Spiace chiudere con un passaggio retorico per un film comunque godibile dal punto di vista avventuroso, ma non si deve in nessun modo concedere il fianco all’opera di sdoganamento della vile pratica dei bombardamenti, anche quando intesi in un contesto bellico.  



 Anne Shirley


domenica 29 novembre 2020

ROADBLOCK

675_ROADBLOCK . Stati Uniti1951. Regia di Harold Daniels.

Pur non essendo certo un testo imprescindibile, Roadblock, film del 1951, è comunque interessante. In un genere così codificato come il noir, la pellicola del regista Harold Daniels ci ricorda in modo atipico la matrice ambigua del genere. E, dal momento che si tratta di uno sguardo alternativo alla consuetudine, contribuisce in modo costruttivo alla definizione della corrente forse più affascinante dell’intera storia del cinema. Oltre ad essere un buon film, tra l’atro, divertente e intrigante come sanno essere i noir americani dell’epoca. Certo, manca qualche nome di richiamo e anche la regia non è troppo raffinata, ma i cliché narrativi noir sono talmente ben definiti che aiutano tantissimo a far girare la baracca. Tra l’altro i due protagonisti, Charles McGraw (è il detective assicurativo Joe Peters) e Joan Dixon (Diane, la dark lady di turno), tutto sommato se la cavano e, in generale, il cast è di livello professionale, come di consueto ad Hollywood. Il titolo, Roadblock (letteralmente blocco stradale) merita attenzione perché mette già in chiaro l’ambiguità del testo oltre a permetterci di parlare di uno dei momenti memorabili del lungometraggio. Il blocco stradale citato non è infatti usato in modo propriamente corretto, visto che la strada che viene bloccata, e su cui Joe sta cercando di fuggire in Messico, è in realtà un fiume, il Los Angeles River. Prima di Grease, di Terminator II, di Senza un attimo di tregua o di Drive, per citarne solo alcuni, il letto asciutto in cemento del fiume della città degli angeli è teatro della emozionante scena conclusiva di Roadblock. Il tema della falsa apparenza (ad essere bloccato è il letto di un fiume e non una strada) è quello portante nel film e, volendo, porta allo scoperto la vera matrice del cinema noir

Abitualmente nei noir classici abbiamo un personaggio protagonista maschile, un po’ tribolato, che viene condotto in rovina dalla femme fatale della storia. Il che è quello che accade anche il Roalblock, che non è certo un prodigio di originalità narrativa, questo va detto. Però Daniels esplicita quello che in genere questi film lasciano sottointeso: ovvero, l’eroe non è questo stinco di santo e la dark lady non è poi così cinica come di compiace di apparire. Il che potrebbe sembrare un errore, perché in questo modo si smonta il meccanismo tipico del genere, che i grandi interpreti riescono a far funzionare anche quando è risaputo. Eppure, forse anche per il calibro minore dei due attori protagonisti di Roadblock, qui la cosa funziona: in fondo Joan Dixon è una bella ragazza ma non ha quel tipo di classe che il ruolo le avrebbe dovuto imporre mentre McGraw, col suo grugno non troppo raffinato, è credibile anche quando salta il fosso

Curiosamente l’inversione dei ruoli è abbastanza credibile, con Diane che si ravvede scegliendo una vita onesta proprio quando Joe decide di passare al crimine pensando di soddisfare i costosi vizi della ragazza. Quindi l’eroe è ben poco eroico e la bad girl è una brava ragazza, che poi è un po’ un discorso che vale per moltissimi altri noir, sebbene molto ben mascherato a livello narrativo, e comunque da tenere sempre presente. Il tema di scoprire le carte per mostrare il vero volto delle cose, oltre dal titolo e dalla struttura generale, era presentato già nell’incipit, con il falso omicidio che andava a mascherare una rapina. Quello che manca, a Roalblock, è un po’ di nerbo nelle fasi preparatorie, perché quando Joe passa dalla parte del crimine la storia regge bene fino al notevole finale.  





Joan Dixon





sabato 28 novembre 2020

ODIO IMPLACABILE

674_ODIO IMPLACABILE (Crossfire). Stati Uniti1947. Regia di Edward Dmytryk.

I Quaranta nel cinema, si sa, sono gli anni del genere noir: la capacità di queste pellicole di interpretare al meglio quel determinato periodo fu tale da eleggere a modello di riferimento quelli che in fondo erano film che potevano essere già catalogati come drammatici o polizieschi. Invece i noir, pur avendo sostanzialmente quegli elementi che li potevano far accostare a questi generi, sono indiscutibilmente qualcosa di diverso, di peculiare. A contribuire a rendere così unica questa corrente della settima arte furono certo i contenuti e i presupposti (il periodo tra le due guerre mondiali del XX secolo fu un apice tragico nella Storia dell’Umanità), ma fu la resa scenica, l’iconografia, a renderla cinematograficamente immortale. I cliché narrativi e ancor più figurativi sono talmente potenti da avere una forza comunicativa che finisce per far appartenere al genere anche film che se ne dovrebbero discostare, come forse è il caso di Odio Implacabile. Crossfire, questo il titolo originale, è un lungometraggio del 1947 del valido Edward Dmytryk; si tratta di un dramma, tratto dal romanzo The Brick Foxhole di Robert Brooks, nel quale l’intolleranza estrema nei confronti di un omossessuale è stata modificata nella trasposizione sullo schermo, in ossequio al Codice Hayes, in antisemitismo. La chiarezza del quadro morale, o meglio il suo essere totalmente esplicito (e non potrebbe essere diversamente), disinnesca gli aspetti torbidi che la vicenda potrebbe offrire. 

La storia è perciò un poliziesco (o volendo un crime movie, per dirla all’americana) ma è presto evidente che il cattivo è Montgomery, al quale Robert Ryan cerca di dare un certo spessore in modo un po’ diverso dal suo solito. Ryan è un assoluto maestro nel tratteggiare villain dalla forza feroce, a cui riesce a dare particolare credibilità; qui deve lavorare in un registro minore, perché il suo odio (quello implacabile del titolo italiano) non può essere portato sempre allo scoperto, essendo troppo scontatamente negativo. Certo, ci sono anche i momenti in cui il suo personaggio si sfoga, ma sono circoscritti, mentre nel resto del racconto l’attore mostra il suo lato apparentemente accomodante, quasi amichevole; comunque inquietante. Quindi, se dovessimo valutare questi primi indizi, potrebbe anche sembrare difficile ipotizzare poi che il film funzioni questo granché: l’argomento di fondo, l’inaccettabile odio verso gli ebrei (o comunque i diversi), è certamente condivisibile ma messo in questi termini non offre molti spunti di riflessione; si tratta di un elemento inconfutabile e questo chiude brevemente il discorso. D’altro canto anche il tema poliziesco non offre grandi enigmi investigativi da risolvere: il personaggio di Ryan è il cattivo e la trama gialla si sviluppa unicamente nello scoprire meglio i dettagli degli avvenimenti. 


E dire che c’è un buon lavoro in flashback sui particolari della serata cruciale, quella in cui viene ucciso Samuel (Sam Levene), con Mitchell (George Cooper), militare in stato confusionale, che fatica a rimettere i ricordi al loro posto. Il testo cala, in questo frangente, un altro carico pesante dal punto di vista etico: Mitchell non ricorda gli avvenimenti della sera forse perché aveva bevuto coi commilitoni un bicchiere di troppo ma soprattutto per il suo generale stato psicologico, gravato da seri problemi di reinserimento nella vita civile dopo la guerra. Questo aspetto non è però sviluppato in modo così accurato, in fondo si tratta di un film poliziesco, e il suo semplice accennarne rischia di avere effetti controproducenti, appesantendo inutilmente la storia. Oltretutto la bonarietà del capitano Finlay (Robert Young), poliziotto incaricato delle indagini, non aiuta a rendere la questione più intrigante. Insomma, cos’è che salva Odio Implacabile, oltre alla regia solida di Dmytryk e alla fotografia (forse perfino troppo smaccatamente espressionista) di J. Roy Hunt? 

Intanto se c’è Robert Mitchum (è il sergente Keeley) il film vale comunque la pena, soprattutto se si tratta di un poliziesco a tinte noir. Mitch non è però chiamato ad una grande prova, essendo il testo troppo manicheo e lasciando così ben poche aree di chiaroscuro in cui il mitico attore possa far valere le sue qualità specifiche. A riuscire in questa difficile impresa è invece la vera star della pellicola, Gloria Grahame. La sua Ginny è la classica dark lady del cinema noir e l’attrice riesce ad essere pienamente convincente, pur nelle difficoltà suddette della storia, in cui è oltretutto messa a confronto con una bionda platino come Jacqueline White che invece interpreta una devota moglie affettuosa e comprensiva. 

Il soggetto sembra infatti fatto apposta per mettere in cattiva luce la figura di Ginny (che è una ragazza di vita e non pretende di essere un modello di virtù, sia chiaro) ma la mancanza di nerbo di Mary, (la White), subito disposta a perdonare la scappatella del marito Mitchell, finisce per esaltarne lo spirito vitale. La Grahame è giovane, certo, non ha ancora raggiunto lo splendore ambiguo dei suoi ruoli degli anni Cinquanta, ma è già un’attrice superlativa, una delle migliori che abbia mai irradiato gli schermi. Il modo in cui interpreta il ruolo della ragazza cattiva (dal cuore buono) esprime meglio di chiunque altro lo spirito di quegli anni e quindi l’essenza del genere noir. Gloria è la voglia di cambiare ma è anche l’impossibilità di farlo, è la voglia di essere pulita e onesta ma anche l’incapacità di resistere alle tentazioni che l’avvenenza le offre: l’America (e il mondo) al tempo si trovava in quelle stesse condizioni, nella disperata necessità di uscire da un periodo da incubo ma nel timore di non potercela realmente fare nel modo giusto. Insomma, se c’è Gloria Grahame nel ruolo di dark lady, qualunque film entra di diritto nei noir da vedere e, di conseguenza, nei film da ricordare.   






 Jaqueline White


Gloria Grahame









giovedì 26 novembre 2020

RITRATTO DI DONNA VELATA

673_RITRATTO DI DONNA VELATA . Italia; 1975. Regia di Flaminio Bollini.

Opera forse non pienamente riuscita, Ritratto di Donna Velata, sceneggiato per la regia di Flaminio Bollini, recupera in sede di bilancio finale facendo dimenticare i passaggi un po’ deboli delle fasi iniziali. È un giallo, quasi un thriller, e quindi si può considerare quasi fisiologico che, nella parte in cui si va imbastire la trama, ci sia qualche momento di stanca; a patto che sia propedeutico al classico finale dove i nodi verranno al pettine. Ma in questo caso i dubbi riguardano, tra le altre cose, la qualità visiva dell’opera, aspetto che, in un trattamento televisivo, non può comunque passare in second’ordine. Certo, storicamente gli sceneggiati RAI hanno sempre palesato qualche lacuna, in questo ambito, non fosse altro perché in genere coesistevano, nello stesso prodotto, differenti metodi di ripresa. Da quella televisiva per gli interni all’uso di pellicole per gli esterni; la differente grana dell’immagine, la diversa resa sullo schermo, poteva creare un certo fastidio nel veder accostate immagini di natura tanto dissimile. In Ritratto di Donna Velata le scene all’aperto, pur se girate in una location d’eccezione come Volterra, sembrano spesso insufficienti per qualità. Da un punto di vista narrativo, Bollini accumula misteri su misteri e in qualche passaggio sembra che la storia gli possa sfuggire di mano. Poi nel complesso se la cava, facendo qualche scelta che può lasciare perplessi ma che può anche essere intesa come dimostrazione di un certo coraggio narrativo. 

Il tema principale dell’intrigo verte infatti su un complotto ordito da Sergio (Manlio De Angelis), personaggio che se ne starà buono buono nell’ombra per tutto lo sceneggiato, lasciando campo alla sua complice Elisa (Daria Nicolodi). La Nicolodi, al tempo, era all’apice della fama grazie al contemporaneo successo del cult Profondo Rosso; e forse proprio il carisma eredità dell’importante ruolo nell’epocale film di Dario Argento aiutò l’attrice in una parte così rilevante e strutturata. Le sue doti recitative e soprattutto la sua voce sono certamente singolari ma, in un certo ambito (quello che va dall’horror al giallo), la Nicolodi ha indiscutibilmente una presenza suggestiva. A contendergli la scena, e a rendere l’atmosfera meno angosciante, ci pensa il protagonista della storia, Luigi Certaldo, interpretato da Nino Castelnuovo. Anche l’attore nato a Lecco inizialmente fatica forse un po’ ma, a gioco lungo, riesce ad interpretare in modo eccellente la vena sarcastico/surreale con cui il suo personaggio deve far fronte ad una serie di situazioni diverse tra loro e certamente di non facile gestione. La storia imbastita dagli autori Gianfranco Calligarich e Paolo Levi è infatti particolarmente complessa. 

C’è, come detto, un intrigo volto ad impossessarsi di un ipotetico tesoro etrusco in quel di Volterra; c’è poi una storia d’amore, con Luigi che si invaghisce di Elisa; c’è l’arcaico cugino di Luigi, Alberto (Mico Cundari) che vive in una vecchia villa che sembra un castello infestato; c’è il mistero, che si rivela doppio se non triplo, del ritratto da cui prende il nome lo sceneggiato; c’è Sandra (la bella Luciana Negrini) una restauratrice ambigua che pare in combutta con strani individui; c’è un fantasma che sembra essere un vero fantasma e c’è un ragazzino dai sorprendenti poteri telepatici. In tutta questa matassa narrativa la cosa che sorprende e spiazza maggiormente è che l’intrigo giallo vede coesistere due nature in genere antitetiche: da una parte c’è una spiegazione razionale, per gli imbrogli di Sergio e soprattutto per il colpo di scena del ritratto su cui è incentrata la storia, mentre la componente soprannaturale ha comunque un ruolo rilevante e, nel caso del fantasma a cavallo, nemmeno chiarito. 

Ma, anche per questi aspetti inconsueti, che possono quindi lasciare interdetto lo spettatore almeno sul momento, è poi il proseguo a finire per essere convincente, in questo caso nell’escalation finale davvero riuscita. Nel complesso il risultato è quindi positivo, sebbene le perplessità disseminate nell’opera non possono essere negate; ma ci sono anche scelte che vanno al contrario plaudite senza se e senza ma. Come l’ambientazione etrusca, che ricorda come anche l’Italia possa essere una location esotica e misteriosa adatta ad imbastire storie fantastiche anche di tono leggero. Di questo ultimo aspetto dello sceneggiato, di quella sua agilità narrativa, c’è consapevolezza, da parte degli autori e, oltre al registro interpretativo di Castelnuovo, in questo senso si possono intendere i ripetuti omaggi ai fumetti in cui appunto Luigi, il suo personaggio, si imbatte. 

Ritratto di Donna Velata potrebbe essere un soggetto per una storia di Kriminal, serie a fumetti di cui intravvedono alcune copertine, sebbene Luigi sembri un’italica versione di Alan Ford (un altro personaggio a fumetti di Magnus e Bunker) mentre i rimandi fantastici della vicenda possono ricordare qualcosa dei comics americani, quelli dei supereroi. Per cui l’operazione nel suo insieme è molto interessante: si prendono spunti culturali importanti dalla nostra Storia (gli Etruschi) ma il trattamento televisivo è leggero, strizzando l’occhio alla cultura popolare in voga al tempo (i fumetti). Un modo per consolidare l’ampiezza della gamma di offerta che gli sceneggiati RAI, già rinomata dalle tante trasposizioni di grandi autori della letteratura cosiddetta alta ma valorizzata anche da altre opere in tono più leggero. Oltre a ciò, la fase finale dello sceneggiato è notevole per suspense e colpi di scena e quindi nel suo momento cruciale Ritratto di Donna Velata non viene meno, vincendo la sua scommessa. Almeno quella decisiva.  


  Daria Nicolodi





  Luciana Negrini