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lunedì 31 agosto 2020

L'ORA DELLE PISTOLE

 625_L'ORA DELLE PISTOLE (Hour of the Gun); Stati Uniti, 1967. Regia di John Sturges.

John Sturges ritorna, dieci anni dopo, sulla famosa sparatoria di Tombstone, con un film molto diverso dal suo precedente Sfida all’OK corral. Innanzitutto c’è una didascalia ad inizio pellicola che precisa che le immagini mostrate saranno strettamente legate ai fatti accaduti; ci si allontana, quindi, dalla leggenda del vecchio West che della sfida tra gli Earp e la banda Clanton ha fatto, in più di un’occasione, una pagina memorabile ma sempre in modo poco attendibile dal punto di vista storico. Del resto si sa che il Far West è il luogo dove la Storia ceda il passo alla Leggenda. Però, sul finire degli anni 60, era tempo di provare a guardare i fatti per come furono e non per come poteva tornare comodo, piacevole o anche utile ricordarli. Il film di Sturges è probabilmente un buon prodotto in questo senso: cioè, è difficile stabilire se sia storicamente attendibile, ma certamente prova a smuovere il mito e, se non proprio a farlo crollare, perlomeno a farlo vacillare. Ma per fare questa operazione di de-costruzione non persegue la strada del Western Crepuscolare, la corrente principale che il genere segue in quegli anni, ma prova appunto una ricostruzione dei fatti per come realmente avvennero. Il che porta con sé almeno un paio di limiti, dal punto di vista della costruzione del film: in primo luogo la trama è troppo complessa e ha uno sviluppo poco comprensibile, come d’altra parte è la realtà; e poi nelle file dei protagonisti manca una figura femminile, per altro aspetto abbastanza realistico del vecchio west. 

Il regista Sturges è bravo e convincente, gli attori, James Gardner (Wyatt Earp), Jason Robards (Doc Holliday), Robert Ryan (Ike Clanton), sono gente di sicuro mestiere per cui, nel complesso la pellicola è più che godibile. Il film, curiosamente, comincia con l’episodio clou, la sparatoria all’OK Corral, e da lì si sviluppa; volendo, può essere considerato come una sorta di seguito al precedente Sfida all’OK Corral opera dello stesso regista. Ma va sottolineato che tutte le opere ispirate alla famosa sparatoria di Tombstone abbiano come finale il duello dell’OK Corral e quindi questo L’ora delle pistole si pone sin dal principio con un punto di vista nuovo e differente sul tema. Rimangono nella memoria alcune belle sequenze: naturalmente l’incipit con la famosa sparatoria, ma anche la resa dei conti finale. Il punto debole della pellicola potrebbe essere intrinseco alla natura della stessa opera: infatti, l’epoca del Far West, spogliata del Mito, è un semplice periodo storico con fatti e accadimenti (come la rivalità tra le bande Earp o Clanton) o motivazioni personali (l’odio che muove le azioni di Wyatt) prive di particolare o significativo interesse. Insomma, L’ora delle pistole è certamente lodevole negli intenti, ma è dura non ammettere una sorta di nostalgia per il periodo classico del genere.





sabato 29 agosto 2020

TOTO' DIABOLICUS

624_TOTO' DIABOLICUS; Italia 1962. Regia di Steno.

Chissà poi se il famoso fumetto Diabolik, uscito nelle edicole nel novembre di quello stesso 1962 che, nel mese di aprile, aveva visto nelle sale Totò Diabolicus, sia stato poi ispirato dal film di Steno. L’assassino che compare nel lungometraggio indossa una completa calzamaglia nera, con la sola scritta Diabolicus sul petto; insomma, difficile credere che questo non abbia influenzato le sorelle Giussani, nella creazione del loro eroe. Tra l’altro, ad un certo punto, si scopre che uno dei personaggi del film indossava una maschera per camuffarsi ed assumere un’altra fisionomia, uno degli stratagemmi più usati dal re del terrore del fumetto italiano. Coincidenze, forse, ma se, come è certamente possibile e anche probabile, la cosa ha qualche rimando concreto, è quantomeno interessante. L’Italia, si sa, è un paese del tutto particolare, e le cose spesso qui funzionano in modo inverso che al consueto: ad esempio, in questo caso, potremmo avere un fumetto nero, serio (nel senso che su Diabolik non si scherza per niente) che viene ispirato da quella che, a prima vista, sembra la sua parodia cinematografica. In genere succede esattamente il contrario: da una serie di fumetti o di film d’avventura, dell’orrore, o comunque di tono drammatico, si coglie lo spunto di enfatizzare adeguatamente alcuni toni per ricavarci una versione che sdrammatizza e la mette sul ridere. Qui sembra che sia successo il contrario; certo, nel caso, probabilmente le sorelle Giussani hanno solo colto quelle potenzialità drammatiche che Steno aveva un po’ trascurato, intento a seguire le multiple (ben sei) interpretazioni di Totò. 
In effetti il film è un po’ scialbo dal punto di vista narrativo e, anche vista la mole di sceneggiatori (tra gli altri Marcello Fondato, Giovanni Grimaldi e Bruno Corbucci) era lecito attendersi qualcosa di più. E poi anche il cast lavora sotto tono: Raimondo Vianello è incolore, Luigi Pavese e Mario Castellani si limitano al compitino, mentre le prime donne, la francese Béatrice Altariba e l’americana Nadine Sanders, fanno giusto una comparsata con funzioni di mero arredo. D’altra parte il principe della risata occupa tutto quanto lo spazio recitativo disponibile, con risultati spesso ottimi ma lasciando più di qualche perplessità. Notevole la gag del chirurgo nella sala operatoria, più di routine le altre interpretazioni, con una non adeguata resa nel doppiaggio: così così sia Carlo Croccolo che presta la voce a Laudomia, un’interpretazione femminile di Totò meno efficace di altre, che Renato Turi che si occupa di quella, sempre opera dell’attore napoletano, del monsignore. Ma è l’incipit con la voce propria di Totò, stranamente afona e un po’ roca, (nella parte in cui il comico è Galeazzo) a sembrare quasi fastidiosa. Stucchevole, poi, il solito qualunquismo tipicamente italiano che Steno interpreta benissimo (e a cui anche Totò si presta evidentemente volentieri) per cui il galeotto Pasquale Bonocore non tradisce i compagni fintanto che è povero, ma quando sa di avere ereditato una fortuna, diventa subito un informatore della polizia. Il passaggio è fastidioso non per fare del moralismo, ma perché sottintende alcuni luoghi comuni come fossero condivisibili: in primis il fatto che sia giusto non tradire i complici ma, soprattutto, il concetto che il ricco sia opportunista a prescindere, come se la moralità di una persona non dipendesse dalle proprie scelte ma sempre e solo dall’opportunità che gli si paventano. E la ciliegina sulla torta di questo eclatante esempio di italico pensiero è la scena finale, con l’arrivo del vero nemico dell’abitante del belpaese, l’esattore delle tasse. Simbolicamente doppiato dallo stesso Vinicio Soffia autore della risata di Diabolicus, l’inviato dell’erario si presenta nell’ultima scena, a chiedere conto (in pratica nelle vesti di un ladro) delle imposte che gravano sul Bonocore, ora divenuto ricco. Insomma, un individuo in prigione per complicità in una rapina, scarcerato per aver collaborato, ma solo dopo aver avuto l’eredità e quindi non certo per essersi pentito, erede di una fortuna nobiliare e quindi per niente meritata, dovrebbe avere, secondo Steno, il coraggio di ritenere il pagare le tasse come un furto. Purtroppo, non è questa parte satirica del film.






Béatrice Altariba

Nadine Sanders


giovedì 27 agosto 2020

RIO CONCHOS

623_RIO CONCHOS; Stati Uniti 1964Regia di Gordon Douglas.

Il regista Gordon Douglas non è certo ricordato per originalità o per una particolare cifra artistica; opere con Stanlio e Ollio o Elvis Presley e tanti cosiddetti film di serie-B. Tuttavia il suo Rio Conchos è un lavoro interessante, un western crepuscolare per niente banale e abitato da personaggi sfaccettati ed affascinanti. Su tutti spicca il maggiore Lassiter, interpretato magistralmente da Richard Boone, attore a cui basta la presenza sullo schermo per infondere un po' di inquietudine nello spettatore. Come suo solito, anche in questo Rio Conchos, Boone ha tutto sommato il ruolo del villain di turno, ovvero quello di ex-confederato dopo la fine della Guerra Civile; le circostanze lo costringono però ad aiutare i soldati dell'Unione. L’impresa in cui si deve impegnare è scongiurare il tentativo, da parte di un folle ufficiale sudista, di riaprire l’aspra contesa civile, ormai appunto chiusa da un paio d'anni con la sconfitta del Sud. Nello specifico, la missione è recuperare i fucili a ripetizione che i ribelli, rintanati in Messico, vogliono vendere agli Apaches; della pattuglia fanno parte il capitano Haven (Stuart Withman, bravo ma un filo troppo ordinario), il sergente Franklyn (Jim Brown, ottimo) e Rodriguez, un desperado messicano (Anthony Franciosa). La presenza del sergente di colore mette subito in luce negativa Lassiter che, da buon sudista, mal digerisce la convivenza con un afroamericano, anche per via del grado di sottoufficiale di questi. Ma l'ex confederato è un bel personaggio e, nel corso del film, avrà modo di ravvedersi, pur mantenendo questa sua evoluzione in secondo piano (notevole, anche in questo, la performance di Boone), per via di una curiosa forma di pudore nell’apparire più corretto di quanto voglia ammettere di essere. 

Ad aggiungere un po' di pepe rosa alla situazione arriva Sally, una ragazza apache piuttosto carina, interpretata da Wende Wagner. Haven non ha il carisma necessario per tenere sotto controllo la situazione, nonostante il valido supporto del sergente; Rodriguez e la squaw sono due elementi ingestibili e ben preso la missione sembra andare a gambe all'aria. Lassiter, ha dato la parola d'onore ma, sinceramente, non le spetterebbe certo il ruolo di leader della spedizione; ciononostante, forse anche perché convinto in cuor suo che la questione civile sia morta e sepolta, pur mostrando una eccessiva recalcitranza di facciata, si prodiga per condurre in porto le operazioni. Il suo sacrificio finale suggella il percorso di redenzione: quando gli eroi di serie-B vengono promossi nella massima categoria.









Wende Wagner







martedì 25 agosto 2020

HANNAH ARENDT

622_HANNAH ARENDT; Germania, Lussemburgo, Francia 2012Regia di Margarethe von Trotta. 

In fondo, la regista Margarethe Von Trotta deve essersi sentita lei stessa come la protagonista del suo film biografico, Hannah Arendt. In modo proporzionale, chiaro; però, affrontare un tema ancora non del tutto sanato come l’Olocausto, prendendo come interprete un personaggio difficile ed elevato come la filosofa nata in Germania nel 1906 a cui è dedicato il titolo dell’opera, non è certo il modo per rendersi facilmente comprensibili al pubblico. Ma ha naturalmente ragione la Von Trotta: c’è bisogno di qualcuno che scommetta sulla voglia degli spettatori di sforzarsi, di capire e magari non riuscirvi del tutto, anche perché il cinema non ha la profondità riflessiva o i tempi prolungati alla bisogna di altre forme di comunicazione. Ma poche forme d’arte hanno la capacità del cinema di instillare un dubbio, magari sottotraccia, mentre la storia principale scorre e intrattiene. Hannah Arendt racconta del periodo in cui la studiosa tedesca di origine ebraica seguì per conto del periodico New Yorker il processo al criminale nazista Adolf Eichmann, in Israele. La capacità straordinaria di cogliere l’essenza delle cose della Arendt la farà passare alla Storia come l’autrice della definizione l’incarnazione assoluta della banalità del male, riferita a Eichmann, il contabile del Terzo Reich. E già questa intuizione, ovvero il fatto che i nazisti non erano dei geni del male e nemmeno dei diavoli, ma piuttosto personcine mediocri che approfittavano della situazione per non avere problemi, non pensare, non riflettere, ma semplicemente essere parte di un sistema che decidesse per loro, era ovviamente straordinaria. 
Ma la Arendt non era tipa da compromessi o da calcoli su quello che era meglio dire o non dire; e nemmeno si accontentava di essere già, con il suo concetto sulla banalità del male, una delle persone più acute in circolazione. No, la Arendt diceva quello che andava detto, senza sconti, e questa sua profonda onestà intellettuale, oltre a permetterle di avere una capacità di analisi superiore, aveva anche controindicazioni. A volte quello che diceva, o meglio scriveva, poteva essere scomodo, ad esempio. In quegli articoli per il New Yorker, scritti nei primi anni sessanta e da cui fu tratto l’illuminante saggio La banalità del male, la Arendt dovette affrontare anche il tema dei capi delle comunità ebraiche.
Secondo la studiosa, se gli ebrei non si fossero fidati dei loro leader, che collaboravano nell’organizzazione dei rastrellamenti coi nazisti per aver in cambio salva la vita, si sarebbero potuti salvare circa la metà delle persone finite nei campi di sterminio. Un’accusa grave, che la Arendt però sosteneva fosse uscita dalle deposizioni del processo, e che indignò l’opinione pubblica israeliana e mondiale visto che, al tempo, si cercava con forza di ribadire la legittimità del processo e delle ragioni dello stato di Israele. Ma non era certo nelle intenzioni della scrittrice accusare il popolo ebraico: si trattava semplicemente di capire come un fenomeno terrorizzante come l’antisemitismo organizzato dai nazisti avesse condizionato anche il comportamento di quegli ebrei che avevano visto l’opportunità di scampare all’Olocausto. Riflessioni molto lucide, analitiche, che la capacità di estraniarsi dall’essere parte in causa (la Arendt era ebrea e venne rinchiusa in un campo di prigionia) rendeva quasi fredde e distaccate.
Ed è un’accusa che venne fatta, alla studiosa, quella di non avere umanità; forse per questo la Von Trotta quasi eccede, nel suo film, con i siparietti da romantica situation-comedy tra Hannah (nel film Barbara Sukova) e il compagno. Gli scherzi con le amiche, le occhiatacce, le insinuazioni, le allusioni, negli scampoli di vita quotidiana… sembra quasi di assistere ad una versione di Sex and the City della mezza età. E il film è piuttosto eterogeneo, visto che ci sono poi sequenze più serie, alcune anche vibranti, come la lezione nell’aula gremita, nel finale, oppure direttamente le immagini storiche del processo Eichmann. Un film composto da differenti momenti, sottolineato anche visivamente dalla natura delle immagini. Articolato, tridimensionale, come doveva essere Hanna Arendt nella realtà: una donna anche sentimentale, capace di amare e soffrire, ma nella sua professione in grado di studiare lucidamente e formulare poi le sue teorie con grande rigore e notevole acume. Nel cast da ricordare Julia Jentsch, già vista anni prima nel ruolo di Sophie Scoll in La rosa bianca (2005, regia di Marc Rothemund).   

domenica 23 agosto 2020

L'ISTRUTTORIA E' CHIUSA: DIMENTICHI

621_L'ISTRUTTORIA E' CHIUSA: DIMENTICHI ; Italia, 1971Regia di Damiano Damiani.

Prima di entrare nello specifico de L’istruttoria è chiusa: dimentichi di Damiano Damiani, una considerazione: lascia un po’ interdetti il fatto che un tema particolare come quello dell’uso a sproposito della carcerazione preventiva in Italia, sia comune a due film usciti simultaneamente nelle sale italiane. Ad affrontare gli stessi temi dell’opera di Damiani era, in quello stesso periodo, anche Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy con Alberto Sordi. Il tenore delle due opere è diverso, ovviamente, l’Albertone nazionale lascia sempre la firma un po’ farsesca anche nei suoi ruoli impegnati, mentre Franco Nero, protagonista di L’istruttoria è chiusa: dimentichi tiene un registro interpretativo più drammatico. Detto di questa curiosa coincidenza, va registrato che Damiani irrobustisce il suo curriculum legato all’impegno civile con un altro testo di grande spessore. L’anomalia italiana nell’uso spesso improprio della carcerazione preventiva permette al regista friulano un’incursione in un carcere del belpaese che appare decisamente credibile in quanto lo squallore a cui si assiste (corruzione, abusi di potere, favoritismi e via di questo passo) ci è purtroppo assai famigliare. Il carcere, si può dedurre dal film di Damiani, è un semplice concentratore e amplificatore dei peggiori vizi e difetti dell’Italia, per i quali, almeno stando al lungometraggio, non sembra esserci soluzione. Nel racconto filmico la speranza è infatti negata simbolicamente dalla sorte toccata a Pesenti (Riccardo Cucciolla), testimone di una vicenda ispirata ai fatti del disastro del Vajont, la cui testimonianza avrebbe dovuto far luce sulle negligenze e sulle colpe dell’azienda costruttrice di una diga al centro di un pesante disastro. 
I tentacoli della piovra del malaffare italiano arrivano però anche dentro le mura del carcere e il povero Pesenti viene ucciso inscenando un suicidio. Damiani forse esaspera, in questo caso, la classica teoria del complotto, (diffusissima in Italia e non del tutto a torto) immaginando che il protagonista di questa storia, l’architetto Vanzi (Franco Nero), sia stato incarcerato con un banale pretesto al fine di averlo nella cella insieme a Pesenti. Una volta che il Vanzi fosse riconosciuto estraneo all’accusa pretestuosa di incidente colposo, la sua affidabile testimonianza che il compagno di cella si fosse suicidato, avrebbe cancellato ogni possibile dubbio in merito. Del resto il Vanzi è uno stimato professionista e la sua parola avrebbe appunto avuto un peso non indifferente, e questo è plausibile, ma in questo passaggio forse Damiani si lascia prendere un po’ la mano dal complottismo.
Perché la storia del suo personaggio nel carcere era stata fin lì corposa e avvincente, del resto Damiani possiede il ritmo del bravo narratore; ma a quel punto diventa un po’ difficile credere ad un complotto complesso come quello che avrebbe dovuto prevedere le peripezie carcerarie del Vanzi. A parte queste perplessità, il film è avvincente dal punto di vista narrativo, anche se piuttosto deprimente dal punto di vista messo sotto analisi dall’intrinseca denuncia sociale. Del resto, nel finale, lo stesso Damiani issa la bandiera bianca di fronte al tipico opportunismo italico. Se dentro il carcere, il suo personaggio, aveva avuto slanci di eroismo che tutto sommato bilanciavano i passaggi meno lusinghieri (i tentativi fatti col denaro per corrompere le guardie o di ottenere favori), quando Vanzi è libero e torna alla sua vita, è rapidissimo ad appiattirsi sul conformismo borghese che gli appartiene. In procinto di salpare per la crociera con gli annoiati amici che gli chiedono di raccontare la sua avventura tra le mura carcerarie, riceve l’inaspettata visita della figlia di Pesenti, l’attivista che voleva denunciare le colpe del disastro della diga. La ragazza vuole sapere della fine del padre, non può credere che si sia suicidato. Ma Vanzi non ha tempo ma una crociera che l’aspetta e, in Italia, il motto imperante parla proprio di barche e ce lo dice il testo di una nota canzonetta, fin che la barca va, lasciala andare e, soprattutto andrebbe aggiunto non lasciartela scappare. E tanti saluti alla memoria del Pesenti, della giustizia e della dignità nazionale.



venerdì 21 agosto 2020

CHI UCCIDERA' CHARLEY VARRICK?

620_CHI UCCIDERA' CHARLEY VARRICK? (Charley Varrick); Stati Uniti, 1973Regia di Don Siegel.

Forse in ossequio a chi aveva pensato che il regista di Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo! fosse un paladino della polizia e dei suoi metodi sbrigativi, un paio di anni più tardi Don Siegel chiarisce il suo punto di vista sulla questione con l’altrettanto eccellente Chi ucciderà Charley Varrick? In questo film, un poliziesco di pura e solida azione, il regista nato a Chicago dà una evidente dimostrazione di come egli non parteggi per una fazione o per l’altra, ma stia semplicemente dalla parte dei suoi anti-eroi, in questo caso, Charley Varrick, l’ultimo degli indipendenti. La contesa, aspra e che mette in ballo tutto, dalla ricchezza alla vita stessa, vede in gara più che altro differenti organizzazioni, da quelle istituzionali a quelle criminali, mentre l’individuo che non si affilia, l’indipendente anti-eroe tanto caro a Siegel, rischia di rimanere fuori dai giochi che contano. Anzi, a ben vedere, si può piuttosto dire che la capacità di tenersi ai margini è diventata quasi indispensabile per questi personaggi, come il Charley Varrick del film (uno strepitoso Walter Matthau), per poter sperare di non infastidire i pescicani troppo voraci e potenti. In effetti, la rapina alla banca di Tres Cruces messa in preventivo da Varrick e dai suoi improvvisati complici, mira ad un bottino di poche migliaia di dollari; così, giusto per non disturbare eccessivamente. Le cose vanno però in modo completamente imprevisto dagli inesperti banditi: ci scappano subito tre morti (tra cui un poliziotto) e il bottino è molto più importante di quanto preventivato, addirittura quasi un milione! 

Purtroppo nel conflitto a fuoco rimane colpita mortalmente anche la moglie di Varrick, Nadine (Jaqueline Scott) la cui presenza nella storia è forse utile a dimostrare l’umanità dell’uomo nei frangenti che contano. Perché Varrick, pur se compare nelle vesti di rapinatore di banche, non è un individuo completamente negativo, anzi; è semplicemente l’ultimo degli indipendenti, come recita il suo biglietto da visita. E in una società dove è assente (o quasi) il quadro morale, bisogna sapersi arrangiare, improvvisare, ma anche essere in grado di pianificare di momento in momento, velocemente, con sangue freddo e determinazione. La citata assenza, in questa storia, di un quadro morale va specificata, perché non è così netta. In effetti, la polizia e in generale le forze dell’ordine, svolgono con buona fede il loro lavoro; soltanto sembrano sorta di macchiette, personaggi buffi e comici. Il film, nonostante l’adrenalina diffusa, soprattutto in avvio potrebbe essere inteso come una specie di recita, con i protagonisti mascherati: i rapinatori lo sono davvero, Varrick ha trucco, capelli grigi e occhiali spessi e pure un piede ingessato, mentre i poliziotti, che un costume già ce l’hanno (la divisa), della commedia hanno la tempra, il carattere. 


Dopo lo scontro a fuoco, lo sceriffo se ne va in giro con una lieve ferita sulla fronte, proprio nel punto in cui il collega morto era stato invece centrato dalla pistola di Nadine; se ne ricava una mezza impressione che il personaggio si sia dimenticato di essere stato ammazzato. E nel caso la cosa possa sfuggire allo spettatore distratto, ci pensa un bambino a sottolinearla. Quello stesso bambino che poco prima dà una segnalazione allo sceriffo della targa dell’auto dei rapinatori, sbagliandosi e venendo corretto dallo sceriffo stesso, che già l’aveva annotata. In pratica tutta quanta la scena somiglia molto ad una gag comica, con lo sceriffo nell’ingrato ruolo del preso in giro. E’ poi sicuramente comica e fuori tempo (in netto ritardo) l’azione che i tutori dell’ordine imbastiscono per catturare i rapinatori nella roulotte; in questo caso è la vecchietta vicina di casa a sbertucciarli in modo esplicito. Ma le figure istituzionali del film non si fermano alla sola polizia, vi è anche una sorta di controparte, questa decisamente meno in buona fede, ovvero quella delle strutture finanziarie. La banca di Tres Cruces ha nella cassaforte più contanti del previsto perché fa parte di una organizzazione assai poco pulita che evidentemente se ne serve per riciclare denaro sporco. Questa organizzazione, che ha un’anima prettamente malavitosa al netto delle rispettabili apparenze, è la seconda parte in gioco nel film, oltre alla citata polizia: Varrick è il guastatore che si muove nel mezzo, riuscendo, clamorosamente, a tenere in scacco entrambe. Un po’ in modo spiazzante, Siegel connota visivamente nel suo film questa ambigua organizzazione come fossero i buoni di un film western, genere che, tra l’altro, occhieggia qua e là nella pellicola. Molly (Joe Don Baker) il killer incaricato da questi signori di sistemare il problema, veste e ha i rozzi modi del cowboy, sebbene in chiave negativa. 


Che è un tipo ambiguo, in effetti, e non il classico eroe alla John Wayne, ce lo dice già il nome, che suona femminile; ma non è certo una mezza donnicciola, sia chiaro, ma una vera macchina di morte. Maynard Boyle (John Vernon) il boss dell’organizzazione, ad un certo punto, si ferma a parlare con il direttore della banca di Tres Cruces vicino ad un recinto dove pascola una mandria di vacche, salendo sulla staccionata, proprio come un vero allevatore. Ecco, quando si diceva che il quadro morale in Chi ucciderà Charley Varrick? è ambiguo si intendeva questo: è come se il protagonista si trovi contro polizia e cowboy (i buoni dei due generi a cui il film fa maggiormente riferimento, poliziesco e western), ma questi non sono affatto alleati tra loro, anzi. In ogni caso, al netto delle apparenze, l’azione di disturbo dei rapinatori porta a galla le differenze di intenti tra due delle principali istituzioni della società, l’ordine e la finanza. Il fatto che nel film il tema dell’inganno, del travestimento, del trucco, sia così forte ci dice anche della difficoltà a comprendere la realtà che raramente è come appare. In effetti, da questo punto di vista, Siegel si dimostra particolarmente attento e maturo, imbastendo una storia con alcuni passaggi che non vengono rimarcati in modo ridondante come spesso avviene al cinema: lo scambio delle radiografie, la vera messa al dito del cadavere del complice, sono dettagli precisi di un piano di Varrick che lo spettatore deve sbrigarsi ad intuire da sé. Ma il gioco di mistificare le apparenze, e quindi della difficoltà di vedere le cose come stanno, è reso visivamente anche dalle tante superfici riflettenti che schermano o rendono difficile la visione. 


In modo abbastanza intuibile si può notare come le forze di polizia siano spesso viste attraverso vetri sporchi, siano finestrini o cristalli delle auto, a ribadire la difficoltà a comprendere la situazione in cui versano. In effetti nessuno di loro è nemmeno a conoscenza dell’enormità della somma rubata, e dei tre elementi in gioco (Varrick, polizia, associazione finanziaria criminale) sono quelli meno consapevoli di ciò che va accadendo. Varrick, invece, fa della capacità di gestire la situazione, grazie a presenza di spirito unita all’abilità nel modificare a piacimento le apparenze, il suo punto di forza. Passa da un travestimento (vecchio e infortunato, disinfestatore), ad una recita (il finto abbraccio fraterno a Boyle, nel finale), mentre Siegel usa, nel suo caso, gli schermi (vetri, cristalli, occhiali) per consentirgli di nascondersi. Più nitida invece la vista dell’organizzazione, con Boyle che ha un ufficio con finestre che dominano il paesaggio o che nella scena del recinto sale sulla staccionata in posizione di controllo; dal canto suo, Molly, esteticamente perfetto cowboy da western classico, come quelle mitiche figure è sempre sul pezzo, conosce in anticipo le mosse degli avversari e comunque sa come ottenere le giuste informazioni. 

La figura di Varrick, che poi, almeno ‘nominalmente’, scompare nel rogo che vediamo sia ad inizio che alla fine del film, sembra quasi un chiarimento da parte di Siegel a chi gli rinfacciava la durezza dei modi dei protagonisti, ultimo dei quali Dirty Harry. Come ben intuito da Mario Molinari nel suo pezzo per Il cinema di Don Siegel, (Edizioni il Foglio, 2011) in Chi ucciderà Charley Varrick? si coglie, a differenza con casi precedenti, una certa continuità nella filmografia del regista. 

Forse, addirittura, si potrebbe azzardare che si tratti di una sorta di opera con cenni speculari alla precedente: a partire dal titolo originale Charley Varrick, nome e cognome del personaggio protagonista, un po’ come Dirty Harry, soprannome e nome del caso precedente. (Curioso poi che in entrambi i casi i distributori italiani abbiano inserito il nome del personaggio in una frase discorsiva). La visione ribaltata dello specchio mette in primo piano ora un criminale, là dove c’era l’ispettore Callaghan, quasi a dare uno sguardo a 360°, osservando cioè le cose anche della controparte. Più precisamente, se Dirty Harry (o Harry la carogna), giocava un po’ a fare il poliziotto cattivo, qui Varrick è un criminale tutto sommato umano (si veda la scena con la moglie morente o anche il commiato al complice). Insomma, Siegel cerca di ribadire l’indipendenza dei suoi anti-eroi, termine, come abbiamo appena visto, perfetto per i suoi personaggi sempre fuori posto. Perché, per quanto sempre in grado di cavarsela con tempra e presenza di spirito, questi personaggi non hanno un luogo riservato come gli eroi del senso classico (L’inferno è per gli eroi film del regista del 1962). Nessun posto, invece, per gli indipendenti; ma questo non significa che si arrenderanno.  




Jaqueline Scott



Felicia Farr



Sheree North