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martedì 30 ottobre 2018

MILANO TREMA: LA POLIZIA VUOLE GIUSTIZIA

232_MILANO TREMA: LA POLIZIA VUOLE GIUSTIZIA . Italia,1973;  Regia di Sergio Martino.

Milano trema: la polizia vuole giustizia di Sergio Martino gioca subito, in apertura, le sue carte: è accettabile che un funzionario di polizia (il commissario Caneparo interpretato da Luc Merenda) decida arbitrariamente di far fuori due criminali? Certo, i due sono gente della peggior risma: già condannati, provano l’evasione trucidando i carabinieri che li scortavano lungo il trasferimento ma, e qui sta l’assoluta aggravante, eliminando senza pietà chiunque gli si pari d’innanzi, compreso una bambina. Caneparo è convinto di essere nel giusto ma già nella storia c’è chi cerca di farlo ragionare, ad esempio il commissario Del Buono (Chris Avram), un poliziotto ligio alle regole ma molto scrupoloso, che sta conducendo un’indagine approfondita nella quale si evince l’esistenza di un’organizzazione eversiva che utilizza il crimine per creare il caos. Ma Del Buono viene assassinato, come a rafforzare l’opinione di Caneparo che non sia il tempo di lavorare in modo troppo pulito; la contemporanea sospensione dal servizio, in seguito all’uccisione dei due fuggiaschi, mette il commissario nella condizione di agire a mano libera. E Caneparo si scatena: si infiltra nella malavita, si fa arruolare come autista dalla banda del Padulo (il Dottor Salussoglia, interpretato da Richard Conte), partecipa ad una rapina finita in tragedia ma conduce poi i banditi direttamente in Questura. Successivamente prova ad incastrare il Padulo mediante la testimonianza dei banditi ma, ovviamente, non è cosa così semplice: tutti questi passaggi sono narrativamente eccessivi e anche il comportamento di Caneparo è difficile da accettare, anche in un’opera di finzione di genere

Eppure la storia funziona, Martino ha voglia di raccontarla, Merenda sembra particolarmente ispirato e anche gli altri interpreti reggono il gioco, da Richard Conte a Silvano Tranquilli (il vicecommissario Viviani), da Carlo Alighiero (il questore Nicastro) a Martine Brochard (Maria Ex). Milano trema: la polizia vuole giustizia è un poliziesco, anzi si può ben definire poliziottesco a patto di non considerarlo come un termine diminutivo o dispregiativo: i toni eccessivi ne rimarcano l’appartenenza al filone del poliziesco all’italiana, ma nel complesso è un lavoro di assoluto rispetto. 

Il riferimento al titolo può essere il film di Damiano Damiani Confessioni di un Commissario ad un Procuratore della Repubblica: in quel caso l’allontanamento dal solito titolo ad effetto (cinematografico) serviva per ancorarsi ad un approccio più d’inchiesta giornalistica, e quindi quello di Damiani poteva sembrare l'approfondimento di un quotidiano, mentre Martino sfrutta lo stesso percorso, ma sceglie come obiettivo lo strillo pubblicitario dei giornali della notte. Una onesta dichiarazione d’intenti, quindi. 

In merito ai riferimenti, nel lungometraggio c’è anche un rimando ad un altro genere in voga nello stivale negli anni settanta, ovvero il thriller: quando Padulo viene catturato dall’organizzazione di cui fa parte, avendo commesso troppi errori che mettono a rischio il piano eversivo, per un istante vediamo l’immagine di chi lo interroga, ma è solo un attimo, qualche fotogramma. Quello di mostrare solo per pochissimo un dettaglio cruciale per lo scioglimento dell'intrigo giallo è infatti uno stratagemma tipico del thriller all’italiana e qui Martino sembra ricorrervi più come omaggio che per reale necessità narrativa. 

Prettamente negli stilemi del genere sono invece gli inseguimenti in macchina: si susseguono una Citroen DS, una spaziale Iso Rivolta Grifo, una BMW 1800, una Fiat 124 e molte altre, tra cui, ovviamente, le immancabili Alfa Romeo Giulia della polizia. In ogni caso, alla fin fine, anche Caneparo si rende conto che non è facendosi giustizia da sé che si può raddrizzare la situazione e la sua ammissione è certamente la risposta del regista al problema posto nell’incipit del suo film. 

Rimane, però, lo sconsolante quadro dell’allora situazione complessiva italiana: da una parte la contestazione generalizzata cavalcante le idee sessantottine e dall’altra la presenza di organizzazioni eversive di segno politico opposto; presupposti per troppo tempo liquidati come rozzi pretesti per produrre film di genere senza apparenti pretese. In realtà, questi film, tra cui certamente anche Milano trema: la polizia vuole giustizia, fornirono un’analisi più attendibile di quanto si potesse credere sulla nostra penisola. Quindi, a dispetto della considerazione che in genere gli si concede, non furono solo prodotti di cassetta.  
      

domenica 28 ottobre 2018

IL GRANDE FREDDO

231_IL GRANDE FREDDO (The Big Chill). Stati Uniti 1983;  Regia di Lawrence Kasdan.

L’incipit di Il grande freddo è un momento di grande cinema: sulle note di You can’t always get what you want dei Rolling Stones, del 1969, il regista Lawrence Kasdan ci mostra magistralmente un funerale e i suoi preparativi; siamo nella provincia americana, in Sud Carolina per la precisione. Kasdan è uomo di cinema, già sceneggiatore per la saga di Guerre Stellari o per il primo capitolo delle avventure di Indiana Jones, tanto per capirci: è consapevole, perciò, che iniziare alla grande un lungometraggio significa poi poterci quasi vivere di rendita fino alla sua conclusione. Non che necessariamente fosse quello, l’intento del regista nato a Miami, ma da lì in poi il suo Il grande freddo avanza tranquillo, srotolando lentamente le storie dei sette personaggi convenuti al funerale di Alex (che nel film non si vede mai, sebbene si dica che in origine ci fosse e fosse Kevin Costner, poi tagliato nella versione definitiva) loro vecchio amico di gioventù che si è inspiegabilmente suicidato. Al di là della perdita di un interprete come Costner, il cast annovera attori di grande rilievo in rampa di lancio: Tom Berenger è Sam, un divo della tivù, Glen Close è Sarah, moglie di Harold, interpretato da Kevin Kline, che insieme formano una tipica coppia borghese degli eighties; poi c’è Michael, un Jeff Goldblum assatanato di sesso che fa il giornalista con lo stesso impeto, Nick, psicologo cocainomane a cui William Hurt presta il suo aspetto un po’ sfuggente, Meg, l’avvocatessa in carriera che ha tralasciato la famiglia e ora, per recuperare il tempo perduto in campo materno, si affida allo sbiadito fascino conferitole da Mary Kay Place. Chi è ancora in gran forma è Karen, la bella della compagnia, rispondente a JoBeth Williams, a suo tempo contesa da Sam e Nick ma, in seguito, convolata in moglie ad un facoltoso benestante (Richard, che presenzia al funerale ma poi abbandona la scena). A questi sette personaggi va aggiunta la più giovane e un po’ spaesata fidanzata di Alex, Chloe (Meg Tilly) la cui spontanea, ingenua, apparentemente superficiale, ma forse solo perché meno calcolata, personalità spicca per contrasto rispetto a quelle di tutti gli altri. 
Si è detto che Kasdan di professione è anche sceneggiatore (in questo caso insieme a Barbara Benedek) e la messa in scena del week end che il gruppo di amici decide di passare in compagnia, in onore ai vecchi tempi pur nella sfortunata circostanza, è perfetta. Ma il regista, in questo caso, si affida molto anche alla capacità interpretativa dei suoi validi attori, lasciando che sia la loro sensibilità a definire nel dettaglio le personalità dei personaggi: e forse, anche per via dell’età anagrafica dei suoi interpreti, che vissero il periodo sessantottino in tempo reale, quello che ne esce è davvero un quadro credibile di una generazione che si trova a fare i conti con la propria coscienza. 

Non è un caso che quasi tutte le canzoni della celebrata colonna sonora (non originale) siano risalenti a prima del periodo della contestazione: certo, fatto giustificabile anche per motivi cronologici, ma è anche la certificazione di un tentativo di rimozione dalla memoria degli anni settanta, ovvero di quel periodo in cui i moti rivoluzionari scesero a compromessi con la realtà. Dei vari personaggi, alcuni hanno saltato a pie pari il fosso, passando dagli ideali della contestazione sessantottina a posizioni di prestigio negli anni 80: Sam è un attore, Karen una borghese benestante. Non a caso il loro rapporto sessuale soddisferà una necessità superficiale e istantanea, e poi amici come prima. 

Michael, non riuscendo a trovare una posizione di rilievo, sfoga nel lavoro di giornalista il cinismo accumulato ed è un personaggio perfettamente a suo agio nel nuovo decennio. Meg è una rampante donna in carriera e ora si affida all’amica Sarah che gli presta il marito, per un rapporto sessuale che somiglia ad una inseminazione programmata. Il rapporto con il sesso di Sarah e Harold sembra così riproporre temi cari alle comunità degli hippy (l’amore libero) ma, se il precedente e clandestino tradimento della donna con Alex era stato vissuto comprensibilmente male dai due, la mattina dopo la licenza concessa al marito per ingravidare l’amica, Sarah osserva ad Harold, con una punta di borghese gelosia, che non dovrebbe essere poi così allegro. 
Il tentativo della coppia è quindi di barcamenarsi nella nuova realtà e a Nick, che invece sembra non riuscire ad integrarsi nella nuova società (ma gira su una Porsche), Harold chiede esplicitamente di non creare problemi che possano inficiare la sua borghese tranquillità. L’unico davvero a disagio appare quindi proprio Nick, che si consola con la droga e si trova in contrasto con Sam, che è il più arrivato del lotto: ma è una disputa senza nerbo, perché in realtà tutti quanti i personaggi, e non solo loro, lamentano una evidente carenza di personalità. Il dubbio che rimane è se la cosa sia un problema generazionale dei personaggi o magari, più prosaicamente, del loro autore, visto che il regista dà l’impressione di essere più ambizioso delle sue reali potenzialità.
Ma probabilmente tutte due le cose.


JoBeth Williams


venerdì 26 ottobre 2018

FRANTIC

230_FRANTIC . Stati Uniti, Francia 1988;  Regia di Roman Polanski.

Per prima cosa bisogna dire che Frantic è un buon film, divertente e appassionante; del resto Roman Polanski è un autore notevole con all’attivo numerosi capolavori. E’ una premessa d’obbligo, perché poi, quando si approfondisce anche solo un poco, si è costretti a dire che, in fondo, il film non convince del tutto. Il che non sarebbe certo un dramma, anche ai migliori capita di fare opere minori, ma in Frantic Polanski sembra quasi ricercare questa incompiutezza, per cui si rimane un po’ interdetti. Sia come sia, il film comincia molto bene, si tratta di un thriller e ci troviamo a Parigi, insieme al dottor Walker (Harrison Ford), in viaggio con la moglie Sondra (Betty Bucley), vent’anni dopo la luna di miele nella capitale francese, nella contemporanea occasione di un convegno di medici. Polanski sa come condurre il gioco, e così la coppia si trova sin da subito alle prese con qualche intoppo dovuto agli improvvisati e folcloristici tassisti; anche se, dopo qualche peregrinazione, si giunge al centralissimo hotel. A quel punto arriva la svolta, con lo scambio di persona che coinvolge la povera Sondra prima, che subisce un rapimento, e il dottor Walker poi che, prestando fede al proprio nome, si incammina sulle sue tracce. Lo spaesamento di Walker, le difficoltà nella ricerca in una città in cui non si parla inglese, lo scetticismo della polizia e dell’ambasciata, la tensione che sale man mano: fin qui il film è formalmente impeccabile. Il punto è che il regista polacco continua a sommare elementi senza compensare con uno sviluppo adeguato delle psicologie dei personaggi. Già il titolo del film rimandava in qualche modo a Hitchcock, visto che Frantic significa frenetico e richiama Frenzy (frenesia) del maestro inglese. 
Il modello del cinema di Hitch ritorna poi nella scena della svolta che, come in Psyco, avviene quando uno dei protagonisti è nella doccia, e per restare ai rimandi più evidenti, anche nello sdoppiamento della donna vestita di rosso: La donna che visse due volte, in questo caso prima Michelle (Michelle Seigner) e poi la moglie. A questo proposito il tema del doppio attraversa tutto il film, in modo quasi ossessivo: due sono i tassisti all’arrivo, due sono le docce (prima la moglie, poi il marito), due le donne (Sondra e Michelle), due le istituzioni a cui Walker si rivolge (Polizia e Ambasciata), due le valigie, due le Statue della Libertà, due i club notturni, e via così, in una frammentazione continua che sottolinea la perdita di orientamento, all’interno di questo gigantesco puzzle, da parte del povero dottore. 

Ma soprattutto Hitchcock è naturalmente chiamato in causa per il MacGuffin: si sa che il maestro inglese era solito appellare in tale modo il pretesto narrativo di una storia, che non era importante in sé, ma serviva per mettere in moto la vicenda. In questo senso la valigia, che viene erroneamente scambiata al ritiro bagagli da Michelle e Sondra, è un esempio perfetto. Ma a Polanski non basta: vuole sezionare anche il MacGuffin, e allora Walker insiste per sapere cosa ci sia di così tanto importante da mettere a rischio la vita di sua moglie: droga? No, risponde Michelle, che la valigia incriminata l’aveva portata dall’America. Walker insiste: Cioè, si è proprio droga ammette quindi la ragazza. 

Colpo di scena, arriva proprio in quel mentre la polizia con i cani antidroga! No, non c’è droga, Michelle tranquillizza il dottore, e stavolta dice la verità. E meno male che almeno qui il regista pare divertirsi, e il pericolo droga c’è, visto che Walker ne ha comprata una dose per avere informazioni da uno spacciatore. Archiviato il contrattempo, Polanski insiste sulla questione MacGuffin: alla fin fine è una miniatura della statua della libertà, l’oggetto realmente importante. Anzi no, è ovviamente quello che c’è dentro la statuetta, un krytron, una sorta di detonatore per innescare una qualche esplosione. A fronte di una tale enormità di citazioni, rimandi, specificazioni, dettagli, la trama di Frantic è riassumibile in quattordici parole: una coppia è in vacanza a Parigi, la donna viene rapita e quindi liberata

Certo, c’è qualche peripezia, qualche morto, tra cui Michelle, ma in fondo, chi è Michelle? Una poco di buono, coinvolta suo malgrado nello scambio, che paga con la vita uno slancio di generosità; in fondo poca roba. Perché tra lei e il dottore non succede niente, assolutamente niente: e dire che passano tutto il tempo del film fianco a fianco, e lui è un maschio alfa, almeno per gli standard del cinema anni 80, diamine è Harrison Ford, e lei è una ragazza bellissima. 

C’è una scena esemplare, in questo senso, al club: lei balla in modo provocante, lui si muove impacciato mentre pensa alla moglie rapita. In un contesto di vita normale, il comportamento di Walker è sicuramente encomiabile: ma al cinema, in un film di genere, svilisce il significato della storia. Anche la stessa fedeltà verso la moglie, ne esce ridotta: Walker non ha tentazioni, quindi la sua fedeltà non è nemmeno messa alla prova. Quando nel finale, chiama piccola anche la moglie (raddoppiando l’appellativo con cui ha appena salutato l’ultimo respiro di Michelle), sembra quasi anticipare un possibile dubbio di Sondra; ribadirle il suo amore è più per tranquillizzare un eventuale timore della moglie, ma solo in quel momento Walker sembra rendersi conto che la ragazza era una possibile tentazione. 

Se ne accorge solo alla fine, perché, durante in film, a livello emotivo, in senso sentimentale, non succede niente, i personaggi rimangono fissi sulle loro posizioni di partenza: Frantic è, di fatto, un film senza sviluppo psicologico. Ecco, in sostanza tutto il film è un unico grande MacGuffin, un pretesto per tenere impegnato un paio d’ore lo spettatore: e si ha la netta impressione non solo che Polanski se ne renda conto, ma che sia proprio il suo scopo. Sminuzzare, frantumare, destrutturare il film di genere, per mostrare come, al suo interno, non ci sia praticamente niente. 

Che il suo attacco sia rivolto ai film d’intrattenimento è esplicito sin dai titoli di testa, che richiamano quelli di Star Wars, con le parole che si allontano nello spazio in prospettiva; qui c’è la strada, come sfondo, visto che Frantic è un thriller urbano (forse anche un noir, visto il ruolo della povera Michelle). D’altronde la presenza di Harrison Ford come protagonista della storia è emblematica: da Han Solo ad Indiana Jones, l’attore rappresenta il tipico eroe degli anni 80; un personaggio diverso e più positivo degli anti-eroi del decennio precedente ma, con la sua faccia stralunata di quello che sembra essersi appena svegliato, anche senza la statura dei classici interpreti della golden age hollywoodiana

Frantic è così un film a cui, rispetto ai prodotti di genere, manca una struttura simbolica, frantumata dall’opera di Polanski, ma che, in alternativa, non possiede nemmeno, nei personaggi, uno straccio di carica umana: il difetto maggiore di Frantic è che è un film senza amore per il cinema. E la prova di questo è l’ultima inquadratura, il retro di un camion della nettezza urbana: cinema spazzatura. E’ una provocazione, quella finale di Polanski, e forse lo è tutto Frantic, un enorme provocazione per vedere se qualcuno ci crede.
Ma il primo a cascarci sembra proprio lo stesso regista. 





Emmanuelle Seigner






mercoledì 24 ottobre 2018

TEODORA, IMPERATRICE DI BISANZIO

229_TEODORA, IMPERATRICE DI BISANZIO . Italia, Francia 1954;  Regia di Riccardo Freda.

Il poliedrico Riccardo Freda imbastisce una storia fortemente romanzata e vagamente ispirata alla figura di Teodora, l’imperatrice di Bisanzio, nel suo film interpretata dalla superba Gianna Maria Canale. E proprio l’avvenenza della donna, memorabile lo sguardo magnetico dei suoi occhi, è uno degli aspetti più interessanti del film, che per altro può vantare scenografie sontuose e ambientazioni di grande respiro visivo dove Freda può ambientare con agio il suo melodramma storico. Non mancano le scene d’azione: la corsa con le quadrighe o la battaglia della rivolta, sempre con protagoniste le fazioni dei verdi e degli azzurri, ovveronel film, miserabili contro patrizi; il che è in totale discontinuità con la realtà storica ma come un po’ tutto quanto il lungometraggio. La vicenda raccontata da Freda verte sulla storia d’amore appassionata tra Teodora e Giustiniano (Georges Marchal): lei una ragazza del popolo, domatrice di belve feroci e di uomini; lui un imperatore tormentato dal dubbio che, seppur soggiogato dal fascino della donna, cambierà troppo spesso opinione su di lei nel corso del film. D’altronde le aperture concesse al popolo da Giustiniano sotto l’influenza di Teodora non possono certo far piacere a Giovanni di Cappadocia, leader degli aristocratici, il cui tramare sfocerà nella rivolta di cui si accennava. 
Molto belle ed efficaci le scene finali, nelle quali Giustiniano, convinto dai nobili insorti, condanna Teodora alla morte per mano del mostruoso boia, reso cieco in precedenza proprio per aver permesso alla stessa ragazza la fuga dalla prigione.
Le coreografie di Teodora in fuga dal suo carnefice e circondata dai soldati, ricordano un macabro balletto e si integrano perfettamente con i maestosi scenari dei palazzi di una Bisanzio ricostruita fuori Roma, nel palazzo dell’EUR. L’arrivano i nostri (leggi: Belisario con le sue truppe) risolve la questione e ci consegna un lieto fine già prevedibile anche dal fatto che tutto il film è in sostanza un lungo flashback ben a ritroso nel tempo. All’inizio, però, Freda ci presenta il solo Giustiniano, e il racconto potrebbe quindi essere l’epitaffio per l’imperatrice: poi, nel finale, la Canale fa la sua comparsa, coi capelli incipriati per invecchiarla, in modo per la verità poco credibile.
Ma è sempre lo sguardo più bello di Cinecittà. 




Irene Papas



Gianna Maria Canale





lunedì 22 ottobre 2018

PER UN PUGNO DI DOLLARI

228_PER UN PUGNO DI DOLLARI. Italia, Spagna, Germania Ovest; 1964;  Regia di Sergio Leone.

I titoli di testa di Per un pugno di dollari di Sergio Leone scorrono su siluette di personaggi western, cowboy e pistoleri, che si sparano e muoiono: le tipiche attività che si dice fossero in uso nel far west e che venivano riprese nei giochi dei bambini. In sostanza, quello che vediamo, durante i credits, è un cartone animato fortemente stilizzato; e gioco e ricorso alle figure astratte sono due delle chiavi di lettura del film che andremo a vedere poi sullo schermo. Per un pugno di dollari è un western, per la precisione la pietra angolare per il filone italiano, quello dei cosiddetti spaghetti, che da quel 1964 imperverserà per più di un decennio sugli schermi; ma i suoi riferimenti non si limitano a quelli del genere specifico, visto che la trama è ricalcata fedelmente sul film giapponese La sfida del samurai di Akira Kurosawa, a sua volta ispirato al romanzo hard boiled, (una variante della narrativa gialla), Piombo e sangue di Dashiel Hammett. Ma si possono anche leggere, nell’architettura generale dell’opera di Leone, rimandi alla commedia dell’arte italiana o a Shakespeare. Quello che il regista romano mette in scena è un mondo dominato dal caso, o forse dovremmo dire in modo più poetico dal Destino, efficacemente impersonato dall’eroe, anzi, dall’antieroe della sua storia, quel Clint Eastwood che nel film qualcuno chiama Joe ma di cui non è dato per certo sapere nulla, nemmeno il nome. L’ambientazione scelta è il west americano (il film fu però girato in Europa) ma semplicemente perché l’epopea western ha sancito la nuova mitologia epica di quella società, quella americana, verso cui, grosso modo, tutto il cosiddetto mondo occidentale si orienta. 

Le sagome umane stilizzate dei titoli di testa ricordano molto le figure dei protagonisti del film, lo straniero Joe (interpretato da Eastwood) compreso: Piperito, il becchino, Silvanito, il barman, ma anche i cattivi, soprattutto i Rojo, sono stereotipi bidimensionali. Tra questi ultimi, anche Ramòn, pur con la forte caratterizzazione estetica conferitagli dalla recitazione di Gian Maria Volontè, non sfugge a questa stilizzazione. Manca un personaggio tridimensionale, manca l’eroe: un mondo senza eroi, senza legge, senza buoni e cattivi, (qui il confronto è tra cattivi e cattivi, Rojo contro Baxter), è quindi la rappresentazione di un mondo senza morale, senza Dio.

Ma un mondo reso dannatamente credibile da un’impostazione generale debitrice alla scuola neorealistica di cui naturalmente Sergio Leone era rimasto influenzato: la violenza è mostrata per quella che è, senza sconti, anzi, in qualche passaggio con un pizzico di sadico compiacimento. Dal punto di vista tecnico il regista romano compie alcune scelte spiazzanti, rispetto alle consuetudini del genere: primi e primissimi piani non si usavano nel western; il montaggio alternato o freneticamente puntato su particolari e dettagli, dilatava il tempo in modo innaturale, facendo vivere in modo più emotivo e quindi più credibile le scene di azione, con uno stile decisamente personale. 

Alcune innovazioni furono favorite dal muoversi al di fuori delle regole del cinema americano e quindi del famigerato codice Hays, come ad esempio il divieto di mostrare sparatore e colpito nella stessa inquadratura: c’è da credere che proprio la freschezza e la riuscita dei film di Leone contribuirono a mandare in archivio certi dogmi da sempre limitanti ma divenuti, al tempo, ben più che inaccettabili.
Tutto questo, e molto altro ancora, visto che  Per un pugno di dollari è un film molto curato e in cui i dettagli hanno spesso un preciso significato, ci fornisce quindi un quadro fortemente negativo: del resto lo straniero arriva nel paesino (quello che lo stesso definisce “Mai visto un paese più cadavere di questo”) passando sotto una forca e, quando se ne va, dalla parte opposta, sempre a dorso di mulo, la macchina da presa manco si spreca a seguirlo. 


Il west è già morto, sembra dire Leone.
Ma la frase più famosa del film è, naturalmente, il presunto proverbio messicano: “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto.” Il che sembrerebbe un’altra conferma in tal senso; se non fosse che venga poi smentita nel film. E quindi, in realtà, emerge, in un modo o nell’altro, l’aspetto eroico dello straniero (che in fin della fiera porta un po’ di giustizia nel paesino) e anche temi come quello politico o sociale, che fanno capolino qua e là, rivelano una matrice non del tutto pessimista dell’opera di Leone. 
Lo straniero infatti si muove fra le due bande di fuorilegge per interesse personale ma non esita a dare i soldi ricavati dal suo trafficare a Marisol (Marianne Koch) per poterla mettere in salvo insieme al figlio e al marito. E lo fa con una motivazione; sebbene, a suo dire, troppo lunga da spiegare: rimane comunque un gesto motivato e non dettato dal caso o da un capriccio momentaneo. Del resto lo stesso straniero, pur in un sostanziale muto riserbo, si lascia andare ad alcune dichiarazioni interessanti come la costatazione che non esistano posti dove non ci siano padroni (termine fortemente politico), o la confessione che a casa sua stava malissimo (critica sociale). E, a conti fatti, questi due temi sono quelli risolti in Per un pugno di dollari: infatti se è solo il caso a mettere il paesino sulla strada dello straniero, l’arrivo di questi elimina i padroni e permette un miglioramento della vita delle famiglie, simbolicamente prima fa tutte quella di Marisol a cui il nostro regala i frutti del suo lavoro.
Insomma, il film di Leone vuol sembrare realistico (quando non pessimista) ma è fondamentalmente educativo. Non a caso, al tempo, inaugurò la stagione degli spaghetti western che furono il piatto forte delle sale cinematografiche degli oratori tra i sessanta e i settanta.
Mitica e indimenticabile la colonna sonora di Ennio Morricone.   



Marianne Kotch



     

sabato 20 ottobre 2018

REVENGE

227_REVENGE . Francia 2017;  Regia di Coralie Fargeat.

La regista Coralie Fargeat ha dichiarato, a proposito di Revenge, che il tema del suo film non è strettamente legato alla violenza sessuale subita da Jen (Matilda Lutz) la protagonista della storia. Non sarebbe, quindi, almeno nelle intenzioni della sua autrice, un rape & revenge, ovvero un film che racconti di una vendetta in seguito ad uno stupro che, nel suo piccolo, se non un genere, ha almeno una nicchia nel panorama della produzione cinematografica. L’argomento è, sempre stando alla Fargeat, semplicemente la vendetta: e il tema appunto semplice, primario, è reso magistralmente da un film che ha un impatto visivo forte, brutale, con grandissima attenzione ai dettagli ma anche alla composizione formale delle scene panoramiche. Il tema del contrappasso, coi cacciatori che divengono prede è altrettanto elementare, ma adeguatamente mostrato con sequenze di purissima violenza quasi astratta, spesso surreale (il vetro nel piede), ma assai efficace. E in materia di surrealismo nulla può battere tutto lo sviluppo col rimando all’Araba Fenice, innestata con coraggio e spregiudicatezza, con l’eroina che risorge dal fuoco e si trova addirittura marchiato sul ventre il simbolo della sua rinascita. Passaggio geniale nel suo essere adeguato ad una corrente di pellicole estremamente fuori dagli abituali canoni cinematografici: puro cinema d’exploitation. Ma torniamo alla questione dello stupro, perché vanno bene le dichiarazioni, ma quello che conta è ciò che vediamo sullo schermo. 

Jen è l’amante di Richard, un uomo ricco che la conduce nella sua villa nel deserto americano per una romantica gita d’amore (clandestino, d’accordo). Con un giorno d’anticipo sopraggiungono Stan e Dimitri, che avevano in programma una battuta di caccia con lo stesso Richard, quando Jen se ne fosse andata. Ma il loro intempestivo e inopportuno arrivo crea i presupposti per la tragedia: Jen è molto giovane e molto bella, Richard si assenta, così Stan approfitta della situazione, mentre Dimitri finge di non vedere. Se la ragazza gioca con la sua sensualità approfittando di una indiscutibile avvenenza, come del resto fa per godere dei benefici di essere l’amante di Richard, i tre uomini non presenteranno mai, nel corso della storia, alcun aspetto morale o etico. 
Lo scollamento tra azione e responsabilità che ne deriva è il tema profondo, e perciò basilare, primario, del film, e quindi adeguato ad un film formalmente grezzo, puro, pur nella sua apparente confezione raffinata delle immagini. E questo scollamento è anche il tema unico e portante della violenza sessuale: non c’è alcuna attenuante, nel violentare un’altra persona. Non lo sono le provocazioni, gli atteggiamenti, le circostanze: il motivo che spinge a violentare è la sicurezza dell’impunità e la mancanza di ogni forma di scrupolo morale. 
E’ la stessa situazione di quando Stan urina sopra il ragno (che poi è anche quella che motiva la caccia come attività): il piacere di fare qualcosa di sbagliato e di gratuito, sapendosi impunito. Quella di Jen non è così tanto o soltanto una vendetta, in realtà, e quasi spiace che il titolo del film sia appunto Revenge. L’implacabilità con cui la ragazza persegue i tre uomini è piuttosto una condanna per chi usa in modo prevaricante la violenza: una condanna etica e morale, che non può e non deve essere meno inflessibile di quanto simbolicamente mostrato.





Matilda Lutz