271_IL SOSPETTO (Suspicion); Stati Uniti, 1941; Regia di Alfred Hitchcock.
Il sospetto di
Alfred Hitchcock è basato sul trattamento del romanzo Before the fact di Anthony Berkeley Cox; un racconto, nel quale una
donna si accorgeva di aver sposato un assassino, che il regista inglese
modifica al fine di lasciare nel dubbio (nel
sospetto, appunto) la protagonista. L’idea in sé è geniale: se, nel romanzo,
l’attimo critico, quello da pelle d’oca, è quando la donna si accorge della
natura del consorte, Hitchcock decide di dilatarlo per tutta la durata della
storia, di non farne più solo il culmine della tensione narrativa, ma di
costruire tutta la trama intrisa di questo timore crescente. Il suo culmine,
Hitch lo suggella magistralmente poi con la scena del bicchiere di latte, una
scena perfetta, anzi, forse la scena
perfetta a là Hitchcock: Cary Crant sale le scale, seguito dalla macchina
da presa, nelle ombre che disegnano quasi una ragnatela sul muro, con il
bicchiere di latte che appare luminoso. In questa scena c’è la summa del cinema
del grande regista inglese: l’uso spregiudicato delle luci e delle ombre; la
perizia tecnica nel seguire il personaggio lungo la scala con la massima
attenzione all’inquadratura; la recitazione dell’attore, quasi enfatizzata
nello sguardo torvo di Grant, ma mai eccessiva; l’escamotage artificioso della
luce nel bicchiere per enfatizzare il dettaglio cruciale, ma in modo che resti del tutto plausibile
sullo schermo. Il tutto in perfetta sincronia per la riuscita della sequenza,
senza alcun orpello gratuito. Detta così, il film deve essere un capolavoro; e
lo è, se partecipiamo allo scorrere degli eventi perfettamente calati nel ruolo
di Lina (Joan Fontanie).
E in effetti questa è la soggettiva del film, a parte
l’incipit e il finale; tutta la vicenda è infatti vista con gli occhi della
timida protagonista, che assiste sconcertata al rivelarsi di quella che a lei
appare la vera natura del marito. Il punto critico del film è tutto qui: se ci
si immedesima anima e corpo nei panni di Lina, il film è un autentico
capolavoro che ci lascia soffrire nei dubbi, nelle insicurezze, nelle speranze,
nelle illusioni, nei timori della sua protagonista. Se ce ne estraniamo anche
solo un poco, e osserviamo gli eccessivi patemi della ragazza e il
comportamento un po’ gaglioffo del marito Johnny (Cary Grant) con occhi più
disincantati, l’operazione narrativa perde efficacia. Perché in sostanza, Il sospetto parla di qualcosa che non
avviene; è un film che prepara il colpo di scena, ma il colpo di scena non c’è.
Hitchcock prova a rimediare tecnicamente, con la magistrale scena del bicchiere
di latte (è quello infatti il colpo di scena), ma forse la forma stavolta non
salva completamente la mancanza di sostanza. Il film appare come un qualcosa di
non risolto in fase di sceneggiatura, di soggetto: si ha l’impressione che, dal
punto di vista della realizzazione sul set, si sia cercato di ovviare a queste
lacune alzando la posta in gioco. Tutta la vicenda appare così un po’ forzata,
credibile solo se si è una ingenua e innocente ragazza come la Lina interpretata dalla Fontaine;
per convincere lo spettatore sono certo d’aiuto le scenografie, le ambientazioni
artefatte, inglesi nelle intenzioni e vistosamente ricostruite.
Il
lungometraggio assume quindi in molti frangenti quasi l’aspetto di una
rappresentazione teatrale, alimentando una parziale sospensione
dell’incredulità, come si stesse guardando una storia d’altri tempi con
personaggi e emozioni un po’ da romanzo d’appendice. La Fontaine ce la mette
tutta, e tra un sospiro e un’espressione dubbiosa cerca di ripetere la
performance di Rebecca-La prima moglie,
senza per altro riuscirci. Anche perché là, oltre al marito Maxim, comunque un
po’ inquietante già di suo, c’erano molti elementi, concreti (la residenza
Manderley, Mrs Danvers) e non (Rebecca), che costituivano per lei una seria
minaccia, giustificandone i timori. Ne Il
sospetto invece non ci sarebbe
alcun motivo di avere paura, se non fosse che, almeno agli occhi di Lina,
Johnny ha qualche atteggiamento poco limpido, ma alla fine dei conti mai più
che ambiguo.
Grant è bravo, perché possiede il registro della commedia nella
sua capacità recitativa, e lo usa per compensare gli sguardi truci e le
espressioni minacciose che dispensa sullo schermo, mantenendo quell’ambiguità
richiesta dalla trama. Insomma, un film che non aveva una ricetta completamente
risolta, ma che Hitchcock prova a far funzionare lo stesso e, con qualche
forzatura qua (le ansie di Lina) e là (le cupi espressioni di Johnny) riesce a
creare una valida tensione culminata nella scena maestra. Il finale rivela il
bluff e, se prova a consolarci con il lieto fine, ci lascia un po’ a bocca
asciutta dopo averci fatto sperare in un colpo di scena finale, che invece è
costituito proprio dalla sua assenza.
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