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domenica 23 dicembre 2018

IL SOSPETTO

271_IL SOSPETTO (Suspicion)Stati Uniti1941;  Regia di Alfred Hitchcock.

Il sospetto di Alfred Hitchcock è basato sul trattamento del romanzo Before the fact di Anthony Berkeley Cox; un racconto, nel quale una donna si accorgeva di aver sposato un assassino, che il regista inglese modifica al fine di lasciare nel dubbio (nel sospetto, appunto) la protagonista. L’idea in sé è geniale: se, nel romanzo, l’attimo critico, quello da pelle d’oca, è quando la donna si accorge della natura del consorte, Hitchcock decide di dilatarlo per tutta la durata della storia, di non farne più solo il culmine della tensione narrativa, ma di costruire tutta la trama intrisa di questo timore crescente. Il suo culmine, Hitch lo suggella magistralmente poi con la scena del bicchiere di latte, una scena perfetta, anzi, forse la scena perfetta a là Hitchcock: Cary Crant sale le scale, seguito dalla macchina da presa, nelle ombre che disegnano quasi una ragnatela sul muro, con il bicchiere di latte che appare luminoso. In questa scena c’è la summa del cinema del grande regista inglese: l’uso spregiudicato delle luci e delle ombre; la perizia tecnica nel seguire il personaggio lungo la scala con la massima attenzione all’inquadratura; la recitazione dell’attore, quasi enfatizzata nello sguardo torvo di Grant, ma mai eccessiva; l’escamotage artificioso della luce nel bicchiere per enfatizzare il dettaglio cruciale, ma in modo che resti del tutto plausibile sullo schermo. Il tutto in perfetta sincronia per la riuscita della sequenza, senza alcun orpello gratuito. Detta così, il film deve essere un capolavoro; e lo è, se partecipiamo allo scorrere degli eventi perfettamente calati nel ruolo di Lina (Joan Fontanie). 
E in effetti questa è la soggettiva del film, a parte l’incipit e il finale; tutta la vicenda è infatti vista con gli occhi della timida protagonista, che assiste sconcertata al rivelarsi di quella che a lei appare la vera natura del marito. Il punto critico del film è tutto qui: se ci si immedesima anima e corpo nei panni di Lina, il film è un autentico capolavoro che ci lascia soffrire nei dubbi, nelle insicurezze, nelle speranze, nelle illusioni, nei timori della sua protagonista. Se ce ne estraniamo anche solo un poco, e osserviamo gli eccessivi patemi della ragazza e il comportamento un po’ gaglioffo del marito Johnny (Cary Grant) con occhi più disincantati, l’operazione narrativa perde efficacia. Perché in sostanza, Il sospetto parla di qualcosa che non avviene; è un film che prepara il colpo di scena, ma il colpo di scena non c’è. 

Hitchcock prova a rimediare tecnicamente, con la magistrale scena del bicchiere di latte (è quello infatti il colpo di scena), ma forse la forma stavolta non salva completamente la mancanza di sostanza. Il film appare come un qualcosa di non risolto in fase di sceneggiatura, di soggetto: si ha l’impressione che, dal punto di vista della realizzazione sul set, si sia cercato di ovviare a queste lacune alzando la posta in gioco. Tutta la vicenda appare così un po’ forzata, credibile solo se si è una ingenua e innocente ragazza come la Lina interpretata dalla Fontaine; per convincere lo spettatore sono certo d’aiuto le scenografie, le ambientazioni artefatte, inglesi nelle intenzioni e vistosamente ricostruite. 
Il lungometraggio assume quindi in molti frangenti quasi l’aspetto di una rappresentazione teatrale, alimentando una parziale sospensione dell’incredulità, come si stesse guardando una storia d’altri tempi con personaggi e emozioni un po’ da romanzo d’appendice. La Fontaine ce la mette tutta, e tra un sospiro e un’espressione dubbiosa cerca di ripetere la performance di Rebecca-La prima moglie, senza per altro riuscirci. Anche perché là, oltre al marito Maxim, comunque un po’ inquietante già di suo, c’erano molti elementi, concreti (la residenza Manderley, Mrs Danvers) e non (Rebecca), che costituivano per lei una seria minaccia, giustificandone i timori. Ne Il sospetto invece non ci sarebbe alcun motivo di avere paura, se non fosse che, almeno agli occhi di Lina, Johnny ha qualche atteggiamento poco limpido, ma alla fine dei conti mai più che ambiguo. 
Grant è bravo, perché possiede il registro della commedia nella sua capacità recitativa, e lo usa per compensare gli sguardi truci e le espressioni minacciose che dispensa sullo schermo, mantenendo quell’ambiguità richiesta dalla trama. Insomma, un film che non aveva una ricetta completamente risolta, ma che Hitchcock prova a far funzionare lo stesso e, con qualche forzatura qua (le ansie di Lina) e là (le cupi espressioni di Johnny) riesce a creare una valida tensione culminata nella scena maestra. Il finale rivela il bluff e, se prova a consolarci con il lieto fine, ci lascia un po’ a bocca asciutta dopo averci fatto sperare in un colpo di scena finale, che invece è costituito proprio dalla sua assenza.


Joan Fontaine





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