Translate

martedì 21 maggio 2024

L'ULTIMO BAMBINO

1485_L'ULTIMO BAMBINO (The Last Child). Stati Uniti, 1971; Regia di John Llewellyn Moxey.

La fantascienza distopica è il sorprendente genere del terzo Movie of the Week per la rete televisiva ABC firmato da John Llewellyn Moxey. Il film è noto per essere l’ultima interpretazione di Van Heflin nel ruolo del senatore George: l’attore morì d’infarto poco tempo dopo che si erano chiuse le riprese e, di conseguenza, la triste sorte del suo personaggio nel finale del racconto finisce per avere maggiore enfasi. Che poi, di suo, il soggetto di Peter S. Fischer è già abbastanza sconvolgente: gli Stati Uniti, in un futuro talmente prossimo da sembrare quasi contemporaneo agli anni Settanta in cui venne prodotto il film, sono divenuti una sorta di dittatura democratica. Il che suona contradditorio, è chiaro, ma è appunto qui la cosa che lascia spiazzati. Il tema principale è, come in parte evocato dal titolo, il fatto che il governo americano abbia istituito un ferreo controllo delle nascite, per combattere la sovrappopolazione. Queste teorie ebbero effettivamente applicazione pratica nella realtà in Cina ma solo due anni dopo la trasmissione del film di Moxey, che anticipò quindi i tempi, da buon film di fantascienza. Quello che non riuscì peraltro ad intuire fu l’approccio all’argomento dell’aborto che, nel racconto, viene esercitato dal sistema per controllare le famiglie mentre nella realtà americana, dopo la celeberrima sentenza Roe Vs Wade del 1973, divenne una vittoria delle organizzazioni progressiste. Peraltro il tema dell’aborto è ancora oggi particolarmente delicato e con effetto divisivo immediato e automatico: L’ultimo bambino, con la coppia di genitori che si vuole tenere a tutti i costi il proprio figlio in procinto di nascere in un contesto di una società iper-sorvegliata che ne cerca invece la soppressione, finirebbe con ogni probabilità per scontentare entrambi gli esacerbati schieramenti che, inevitabilmente, si creano in questi casi. Ma se abbandoniamo un attimo l’argomento principale del film, l’aborto e le sue sfaccettature, per focalizzarci su temi meno scottanti e quindi più semplici da affrontare, non possiamo evitare di notare la lungimiranza dell’opera e il suo mettere in rilievo alcune contraddizioni che oggi forse tendiamo ad accettare per buone. Prendiamo l’uso della carta di pagamento, che nel film sembra aver sostituito il denaro: politica e organi di stampa ci martellano inesorabilmente con la demonizzazione del contante, che sarebbe l’anticamera dell’illegalità. 

Bene, il film ci mette in guardia da quelli che sono i rischi di avere forme di pagamento interamente digitalizzate: nel caso di una forma di governo oppressiva, per il cittadino che finisse sotto speciale osservazione non vi sarebbe alcuno scampo, visto che si potrebbe trovare all’improvviso privato di ogni risorsa economica. Il che sembra un rischio solo teorico, considerato come siamo abituati a ritenere le nostre attuali forme di governo. Tuttavia, a tutt’oggi, se dobbiamo parlare di dittatura, in Italia, giusto per fare un esempio, non dobbiamo andare indietro nel tempo nemmeno di un secolo per trovarne una insediata stabilmente al potere. Non si tratta, quindi, di ipotesi poi così remote, almeno storicamente parlando. Un'altra curiosa teoria che mette in campo questo L’ultimo bambino è che la produzione dei veicoli, nel futuro distopico presentato, sia stata fermata; il che è sicuramente il sogno per ogni ecologista che si rispetti di oggi. In effetti l’inquinamento è uno dei problemi più gravi ma nel soggetto di Fischer non è chiaro se le auto siano state messe al bando per motivi ecologici o per carenza di combustibili: quello che emerge, almeno nell’ipotesi messa in campo dalla storia, è che senza le auto sarà assai più semplice controllare gli spostamenti delle persone. Il che è opinabile, in quanto con le targhe e il loro tracciamento non vi è oggi troppa differenza tra girare in automobile o dover passare la propria tessera personale in un controllo della stazione. In ogni caso, quello che L’ultimo bambino riesce efficacemente a comunicare – al netto di previsioni futuribili fatte agli inizi degli anni Settanta che si possono comprensibilmente essere rivelate non del tutto esatte – è che la società, nel momento in cui vuole l’assoluto controllo sulla vita dell’individuo, rischia di essere qualcosa di terribile. In effetti, al momento siamo lontani da una legge che vieti alla medicina di curare gli over 65 – questa la causa della morte del personaggio di Van Hefling – ma anche questa non sembra poi un’ipotesi cosi campata in aria. E, anche in questo caso, le recenti battaglie per il suicidio assistito rischiano di sovrapposti a questo tema del film, facendolo passare per un testo contro l’evoluzione civile. Ma è proprio questo il pregio de L’ultimo bambino: un film concepito come progressista e contrario ai totalitarismi negli anni Settanta, se visto oggi rischierebbe di passare per reazionario. Al netto delle posizioni di ognuno, vedendo il film, almeno un dubbio, su quanto ci viene oggi fatto passare per giusto e insindacabile, ci dovrebbe o almeno potrebbe venire. Tanta roba, comunque.  








 Janet Margolin 

domenica 19 maggio 2024

IL LADRO DI PESCHE

1484_IL LADRO DI PESCHE (Kradetzat na praskoi). Bulgaria, 1964; Regia di Vulo Radev.

C’è una sospensione, ne Il ladro di pesche, che è il vero punto nevralgico del notevole film di Vulo Radev. La storia dell’amore clandestino raccontata dal film rimane infatti inespressa, anche narrativamente; ma questo potenziale creato abilmente e poi lasciato lì, a gravare sulle percezioni dello spettatore, ci rende esattamente la sensazione senza sbocco, senza speranza, della società bulgara, e balcanica in generale, alla fine della Prima Guerra Mondiale (e probabilmente anche in seguito, visto che il film è del 1964). Il ladro di pesche è un dramma sentimentale, certo, ma è anche un film bellico, perché la guerra rappresenta l’elemento che si frappone fra le donne e gli uomini e la loro felicità. Prima Guerra Mondiale, si diceva; il tenente serbo Ivo Obrenovich (Rade Markovi), prigioniero di guerra, esce dal campo di detenzione per andare a rubare le pesche nel giardino del comandante del presidio (Mikhail Mikhaylov). Tanto il colonnello, nonostante la guerra stia per finire e la Bulgaria stia per essere inevitabilmente sopraffatta, è scrupoloso nei suoi doveri militari ed è perennemente impegnato ad assolverli. Anche troppo; la bella moglie Elisaveta (un’intensa Nevena Kokanova) oltre che triste e trascurata, è anche una persona di grande umanità e quando sorprende Ivo a cogliere le sue pesche, gli offre un po’ di cibo. In fondo i prigionieri sono uomini, anche se per il marito sono solo un problema di cui si deve occupare in quanto a capo del campo di detenzione. Insomma, il colonnello è un militare al di là del grado e della divisa, lo è convintamente e questo non gli permette di capire le necessità umane della moglie. Ivo, invece, nella vita civile è un insegnante e ha una diversa vitalità, totalmente frustrata dalla vita militare e dalla inattività della reclusione. L’incontro con Elisaveta diventa quindi un indispensabile aiuto per sopportare la prigionia, così come anche la donna ne resta turbata. Con queste premesse, è naturale che gli incontri si ripetano nonostante il tentativo di ritrosia della donna, sconfinando in una vera e propria storia d’amore, più suggerita dalla messa in scena di Radev che mostrata. 

Il regista bulgaro tiene sobriamente le redini del racconto affidandosi, per incendiare la storia, alla potenza del bianco e nero della fotografia, alla musica che si fa dirompente, alla costruzione delle immagini nell’inquadratura. La Storia è usata per alimentare la sensazione di pericolo e di impossibilità che la traccia sentimentale in primo piano suscitava: una relazione tra un prigioniero e la triste moglie di un colonnello nemico non ha troppe chances di felicità, è evidente. Ma i moti di insubordinazione dei militari bulgari, stremati da anni di continue pesantissime guerre (appena prima di quella mondiale c’erano state quelle balcaniche), il diffondersi del tifo, le assurde pretese di disciplina dell’autoritario colonnello, la condizione disperata dei detenuti, sono ulteriori elementi che contribuiscono a tratteggiare un quadro davvero senza alcuna speranza. Il tenore trattenuto del racconto evita però di tracimare, in questo senso, ad esempio grazie alla presenza del prigioniero francese che dispensa un po’ di lieve ironia sulla scena. Il racconto ha anche una valenza simbolica, vertendo su un amore impossibile tra un serbo e una bulgara, due persone appartenenti ai tempi a paesi nemici e a cui la Storia non riserverà un futuro particolarmente roseo. Che Ivo venga però finisca ammazzato in qualità di ladro di pesche, anziché di amante, è un’ulteriore crudele finezza del racconto. Significativamente il colonnello, nonostante i sospetti per il cambiamento di umore della moglie, non ne scopre la tresca; e il tenente serbo è ucciso dal sorvegliante del giardino, che aveva avuto il compito di sparare a chiunque tentasse di rubarne di nuovo la frutta. Ivo muore quindi non nei panni dell’amante di una tragedia romantica, ma in quello di un banale ladro da quattro soldi. Nel 1964, in Bulgaria, nonostante fossero passati oltre quarant’anni dai tempi mostrati nel film, evidentemente non rimaneva nemmeno la speranza per un finale tragico.  





Nevena Kokanova 



Galleria 




venerdì 17 maggio 2024

ORGASMO NERO

1483_ORGASMO NERO . Italia, 1980; Regia di Joe D'Amato.

Iniziato con Papaya dei Caraibi, il ciclo esotico-erotico di Joe D’Amato prosegue con Orgasmo nero, il secondo di una serie di film diretti dal regista romano ambientati a Santo Domingo. Il tema comune a queste pellicole è, verrebbe da dire “ovviamente”, quello erotico-pornografico, sebbene di volta in volta ci sia una qualche forma di contaminazione con altri generi popolari. Se in Papaya dei Caraibi, a sostenere la traccia erotica c’era il tema cannibalistico, negli ultimi film saranno l’horror più puro e il thriller a dividersi la scena con la trama a luci rosse. Orgasmo nero segna invece l’innesto della pornografia più accesa sull’ambientazione esotica, elevando il tono dal soft-core, che interpretava la sponda erotica del ciclo, a puro hard-core. Tuttavia, quasi a fungere da collante con il citato esordio dei film dominicani del regista, gli spunti cannibal rimangono in apertura di pellicola e in chiusura, lasciando la restante ora e mezza scarsa all’esibizioni sessuali dei protagonisti. A titolo di esempio, per questo aspetto della pellicola, si può prendere la fellatio mostrata senza alcuna reticenza, quasi in chiusura. Al netto delle scene di sesso, Orgasmo nero lascia intravvedere una blanda critica all’imperialismo culturale dei paesi occidentali nei confronti delle popolazioni indigene, in questo caso dei Caraibi. Anche l’apparente progressismo di Paul (Richard Harrison), che spesso loda le tradizioni della popolazione locale, non riesce a nascondere un evidente paternalismo. Assai più prosaica Helen (Nieves Navarro), che semplicemente sfrutta di volta in volta la situazione che le si presenta davanti; un atteggiamento che, nel racconto, utilizzerà in differenti ambiti. Tra questi c’è sicuramente quello erotico, e la donna, insoddisfatta della sua vita coniugale col marito Paul, non esita ad esplorare nuove emozioni coinvolgendo nelle sue performance Haini (Lucía Ramírez), una giovane indigena. Le scene lesbo sono quindi uno degli elementi distintivi di Orgasmo nero anche se, tra le note particolari in questo campo, va messo a referto anche un ménage à trois sessuale che coinvolge i tre protagonisti citati. Paul, Helen e Haini non danno vita al classico triangolo melodrammatico, ma D’Amato prova, con originalità, ad imbastire una flebile storia per giustificare i passaggi salienti, quelli a luci rosse, del racconto. Paul e Helen sono felicemente sposati se non fosse che non riescono ad avere figli, cosa che l’uomo fatica sempre più ad accettare. Sotto accusa, perché l’impressione in effetti giustifica una simile espressione, c’è Helen, che viene spedita dai Caraibi fino a Londra per fare degli esami che riescano a trovare la soluzione. 

Tornata sull’arcipelago centroamericano senza ancora una risposta definitiva in questo senso, Helen trova il marito sempre più indaffarato nel suo lavoro. Inizialmente la donna si dimostra comunque fedele e comprensiva, poi conosce Haini, rimasta orfana di padre, e se ne invaghisce. Tra le due scatta la scintilla e Helen invita la giovane a traferirsi con lei, sebbene per far questo, secondo le usanze locali, la madre della ragazza la debba ripudiare a suon di scudisciate. Mentre Paul è in giro per lavoro, le due approfondiscono la conoscenza, soprattutto nell’ambito che è facile da intuire. Poi, quando Haini si concede ad un maschio di passaggio, c’è qualche increspatura nella relazione –di stampo abbastanza adolescenziale, ad essere onesti– ma infine tutto si aggiusta. Almeno finché ritorna sulla scena Paul che presto scopre le due donne in atteggiamenti intimi: l’uomo, prima fa l’indignato, poi si rende partecipe, nella citata scena a tre, e la questione sembra risolversi per il meglio. Gli anni della rivoluzione sessuale, nel 1980, era passati da un pezzo, ma una coppia aperta, o meglio, un terzetto, era perfettamente nelle corde del tempo. D’Amato ha però in serbo la sua critica sociale all’imperialismo occidentale di stampo patriarcale e, allora, ecco che a scombinare questo edulcorato quadretto arriva l’esito degli esami da Londra: Helen potrà avere figli. 

Al cambiare delle condizioni –ora la coppia Paul e Helen può “metter su” davvero famiglia, con tanto di prole– cambiano i comportamenti. Adesso, Haini è di troppo e deve sloggiare, tornando al suo villaggio nonostante, dopo essere stata ripudiata, questo non sarebbe più possibile, almeno stando a quelle usanze locali tanto lodate da Paul. Al di là dell’ipocrisia dell’uomo, che a parole elogia la cultura dei nativi ma nei fatti non se ne cura minimamente, salta all’occhio l’evidente contrasto tra l’amore libero sessantottina memoria – i tre protagonisti che se la spassano felici e contenti – con la famiglia di stampo tradizionale, quella con i figli, per intenderci. Appena Helen viene avvertita che potrebbe rimanere in cinta, la situazione cambia: quasi a dire che è la famiglia, come nucleo chiuso su sé stesso, ad opporsi ad una comunità dove viga l’amore libero e, nell’esempio del film, addirittura multirazziale. Tutto questo lavoro è però, almeno dal punto di vista narrativo, piuttosto povero e, a livello di trama, tolte le abbondanti scene di sesso, il film sarebbe poca cosa. Forse, proprio per dare un po’ di sostanza a questo Orgasmo nero, D’Amato inserisce un paio di scene di cannibalismo rituale, una all’inizio del film, e l’altra giusto in chiusura. Secondo una credenza degli abitanti della piccola isoletta, quando muore un uomo, la sua donna, mangiandone il cuore, lo manterrebbe in vita. Il primo a divenire, almeno in parte, pietanza, era stato il padre di Haini; per la chiusura, questo ben poco auspicabile ruolo è destinato a chi, almeno secondo il film di D’Amato, con la sua fedeltà alla famiglia tradizionale, si opponeva all’amore libero. Ma, se davvero dovessimo credere alle usanze dei nativi del film, non ci sarebbe di che preoccuparsi: Paul vivrà comunque per sempre insieme a Helen e Haini. In definitiva Orgasmo nero è un lavoro artificioso, nel complesso, e, soprattutto, lascia l’impressione che l’ipocrisia borghese che viene criticata nel film ne sia anche parte costituente. 



Nieves Navarra 


Lucia Ramirez 


Galleria 



mercoledì 15 maggio 2024

LA MASSERIA DELLE ALLODOLE

1482_LA MASSERIA DELLE ALLODOLE . Italia, Bulgaria, Regno Unito, Francia, Spagna 2007; Regia di Paolo e Vittorio Taviani.

Ai tempi dell’uscita nelle sale italiane di Ararat – Il monte dell’Arca, film del 2002 di Atom Egoyan, c’era stato qualche contrattempo che aveva suscitato più d’una perplessità. Cose magari secondarie, quelle piccolezze con cui i burocrati di turno che si infiltrano in ogni dove nel tessuto sociale italiano si possano poi vantare con gli amici degli amici influenti. Poco male, il film infine si era visto e il messaggio era arrivato: tuttavia rimaneva un po’ di disappunto. Ma che era niente in confronto allo scorno nel leggere le parole di Antonia Arslan nell’intervista alla presentazione del suo libro La masseria delle allodole, nel passaggio in cui si sofferma sull’atteggiamento italiano a fronte del negazionismo turco del genocidio armeno. Queste le esatte parole della scrittrice: «Ricordo anche il film di Henry Verneuil "Quella strada chiamata Paradiso" (588 Rue Paradis) con Omar Sharif e Claudia Cardinale. Il film non è mai stato proiettato nelle sale italiane e non è mai circolato in televisione in prima serata. L'ultima volta che l'ho visto era in programmazione alle nove di mattina del 15 di agosto.» [Biblioteca Brentella, PD, 27 ottobre 2005]
Curiosa, l’idea di trasmettere un film del genere alla mattina del giorno dell’anno meno adatto per guardare la televisione. Un acume che solo il burocrate italiano può avere: nascondere la censura dietro una raffinata e adeguata programmazione del palinsesto. Per fortuna l’Italia non è solo la moderna patria della mala burocrazia ma ogni tanto qualcuno si ricorda che questa, un tempo, era la terra dell’arte per antonomasia. Anche nel cinema, senza scomodare quindi il Rinascimento, e tra questi, certamente, vanno ascritti i fratelli Taviani. Paolo e Vittorio, infatti, prendono il libro della Arslan e ne ricavano l’omonimo film che può essere considerato il primo prodotto cinematografico mainstream sul tema del genocidio armeno. In un certo senso, il nostro paese riesce così a riscattare la magra figura fatta ai giorni dell’uscita di Ararat – Il monte dell’Arca, un film che affrontava l’argomento in modo più defilato, e la presenza nel cast dell’opera dei Taviani di Arsinée Khanjian (qui nei tragici panni di Armineh), sembra proprio una sorta di ponte con il lungometraggio di Egoyan in questione. 

La masseria delle allodole, il film, è una coproduzione che vede la partecipazione di molte società con estrazione televisiva, tra cui Rai Cinema e France 2, e, in effetti, la cosa si riversa poi sulla resa scenica del lungometraggio. Ma l’obiettivo dei fratelli Taviani in questo caso sembra essere maggiormente concentrato sulla vicenda storica rispetto ad una scrupolosa osservanza del linguaggio cinematografico. Certo, c’è sempre una storia privata, in primo piano, anzi più storie e quello della frammentazione è un tema che percorre tutta quanta la vicenda raccontata. Al centro della scena, per importanza, carisma e bellezza, c’è Paz Vega nel ruolo di Nunik, una giovane donna armena. Nel racconto la giovane ha due storie d’amore con due militari turchi: l’ufficiale Egon (Alessandro Preziosi) con cui ha un flirt prima della deportazione, e Yasuf (Moritz Bleibtreu), un soldato a cui Nanuk si offre in una notte fuori dalle mura di Aleppo. La marcia forzata a cui sono state sottoposte le donne e le bambine armene è stata stremante e le serve disperatamente del cibo per sfamare le piccole. 

Peggio comunque è andata ai maschi di qualunque età della comunità che sono stati massacrati senza pietà dai soldati turchi. Al netto dell’inequivocabile condanna, il racconto presenta tra i turchi posizioni diverse riguardo alla faccenda: Yasuf si dimostra umano e comprensivo con Nanuk e anche il colonnello Arkan (André Dussollier), e ancor più sua moglie (Enrica Maria Modugno), sono inorriditi dalle idee di sterminio propugnate dal movimento dei Giovani Turchi. Come detto, il tema della frammentazione, che ben incarna la storia di un popolo strappato, sradicato dalla sua terra prima di essere sterminato, è centrale: oltre alle due storie d’amore (troncate) di Nanuk, al centro della vicenda ci sono anche due grandi famiglie armene che non riusciranno a congiungersi. Perfino il tradimento di Nazim (Mohammad Bakri) è spezzato in due, ripetuto due volte prima del suo tardivo ravvedersi e il suo prodigarsi per rimediare al danno ormai fatto. Ma la sua, per quanto infida, è, insieme a quella di Ismene (Angela Molina), una figura che permette al racconto di non degenerare nella partigianeria: se perfino un opportunista incallito come Nazim si rende conto dei propri errori e si adopera per rimediare, allora chiunque è in tempo per fare mea colpa e ottenere il perdono. Antonia Arslan, a cui i Taviani hanno dato voce cinematografica, sembra giustamente già pronta per un’eventuale riconciliazione.
Sta bene. Ma la Storia è però impietosa quanto uno dei tanti colpi di scimitarra visti ne La masseria delle allodole e il film dei Taviani, con le sue terrificanti scene degne di un horror splatter, sarà sempre lì a ricordarcelo. 




Paz Vega 



Arsinée Khanjian 


Angela Molina 


Yvonne Brulatour Sciò 



 Galleria 


lunedì 13 maggio 2024

ARARAT - IL MONTE DELL'ARCA

1481_ARARAT - IL MONTE DELL'ARCA (Ararat). Canada, Francia, 2002; Regia di Atom Egoyan.

Ararat - Il monte dell’Arca: se ne parlava come il primo film che trattasse della questione armena dando voce ai discendenti dei sopravvissuti di quei tragici episodi e, alla fine, è proprio il caso di dirlo, questo atteso lungometraggio è arrivato anche in Italia. Ma non nella data prevista, il 24 aprile, giorno della memoria del Genocidio Armeno. No, la censura italiana ha detto no. Poco male, del resto quale che sia la natura del giallo del visto censura, pare una mancata riunione della commissione addetta, l’Italia ufficialmente riconosce il Genocidio Armeno perpetrato nell’Impero Ottomano tra il 1915 e 1916. Non è quindi il caso di fare i complottisti. Però, poi, guardando il film, qualche dubbio viene. E se invece fosse proprio il caso? Anche ricordando che l’indice internazionale della libertà di stampa, giusto per farsi un’idea in merito alla trasparenza nella circolazione delle idee, piazza l’Italia costantemente oltre il quarantesimo posto. Ma questo dovremmo tenerlo presente sempre e non solo guardando Ararat – Il monte dell’Arca, film di Atom Egoyan. Opera che fa riaffiorare i nostri dubbi proprio per la sua natura: non è, infatti, un film sul Genocidio degli Armeni. E’ un film che affronta il tema di come ci si relaziona alla Storia e quindi alla verità, quale essa sia. Il regista Egoyan è di origine armena; Charles Aznavour, che interpreta Saroyan, il regista nella finzione, è anch’esso di origine armena; insomma diventa quasi naturale, quasi una conseguenza, che i fatti del 1915/16 siano il punto cruciale. E c’è un motivo per quel ‘quasi una conseguenza’: perché se ci si ostina a non affrontare la realtà, a non superarla, questa rimane sempre presente. Forse per questo ci sono quelle immagini sfocate, sorta di ombre, all’inizio del film: che siano i fantasmi degli armeni uccisi dai turchi che non hanno ancora trovato pace? Nel caso faticheranno ancora a lungo a trovarla, finché ci sarà chi disquisirà se si sia trattato di genocidio o semplici stragi; come se per chi fosse morto faccia grande differenza. 

E’ chiaro che la differenza c’è, diversamente non ci sarebbero due vocaboli diversi; ma la cosa clamorosa, per quel fatto specifico, è che non se ne sia mai parlato, si sia sempre evitato di parlarne. Del resto pare che al cinema questa sia una sorta di prima volta, pur in un sottotema specifico. Quasi cento anni dopo. Per questo la querelle genocidio:si vs genocidio:no non può essere d’attualità; perché a monte c’è un tentativo di insabbiare completamente l’evento. E anche oggi, se capita un film che riporti l’argomento alla ribalta, ecco che la censura italiana salta la seduta facendo perdere la ricorrenza che avrebbe dato eco all’evento. Il problema, sembra dirci Egoyan, non è tanto cosa ci sia stato ai confini tra l’Impero Ottomano e quello Russo durante la Prima Guerra Mondiale; il problema è che non se ne parla e se se ne parla, si cerca subito di minimizzare, prima ancora di approfondire. Invece occorre parlare di questi fatti; e farlo nei modi più disparati. Nel film, tutti, in modo diverso, cercano in quei drammatici eventi un significato diverso, forse anche per scopi personali. Il regista Saroyan vuole fare un film per ricordare il genocidio ma sin da subito non si pone l’obbligo di essere storicamente attendibile: il monte Ararat non dovrebbe essere visibile dal villaggio dove è ambientata la vicenda ma lui non se ne fa certo un problema. Il suo lavoro è dirigere film e cerca di farli nel modo più evocativo e coinvolgente possibile e per riuscirci, insieme al suo collaboratore Rouben (Eric Bogosian), decide di aggiungere il personaggio di Gorky, non presente nel racconto all’origine dell’opera. Ani, (Arsinée Khanjian), critica d’arte che sul pittore Arshile Gorky (Simon Abkarian) ha scritto un saggio, è scettica, temendo che i due cineasti vogliano solo speculare sulla figura del noto artista armeno per dare lustro al film. Ma, a sua volta, si può dire che, nel dare le sue interpretazioni al lavoro del pittore, cerchi risposte a domande rivolte a sé stessa, più che attenersi alle opere d’arte prese in esame. 

Le mani della madre di Gorky del dipinto che è uno dei punti dell’analisi del suo libro, Ani è convinta siano volutamente lasciate incompiute; ci tiene una conferenza su questo argomento. Ma, in quel frangente, sembra aver quindi ragione Celia (Maria-Josée Croze), sua figliastra e sua tenace persecutrice durante la mostra dedicata al libro su Gorky: dalle immagini in flashback che vediamo le mani della madre vengono cancellate dal quadro solamente in seguito. In effetti Celia sostiene che Ani interpreti a proprio piacimento l’arte del pittore, forse per vincere i propri fantasmi. E dal canto suo la stessa Celia è anche meno lucida della matrigna critica d’arte, sempre in preda alle proprie convinzioni e in sofferta lotta con il proprio passato di cui incolpa proprio Ani. In questo intricato gioco ad incastri di personaggi che è Ararat – Il monte dell’Arca, il protagonista è probabilmente Raffi (David Alpay), figlio di Ani e quindi fratellastro di Celia, nonché suo fidanzato (non avete capito male, è davvero così). Raffi vuole comprendere perché il suo defunto padre fosse un terrorista armeno, mentre si barcamena nell’aspra contesa tra Ani e Celia. Andrà nei luoghi dello sterminio per cercare di comprendere ragioni che gli sembrano oscure ma solo dopo aver avuto un piccolo impiego nella realizzazione del film di Sarayan, a cui alla fine Ani ha accettato di collaborare. Qui il ragazzo ha uno scambio di vedute con Ali (Elias Koteas), attore che interpreta Jevdet Bay, un ufficiale ottomano nel film di Sarayan, uno dei più crudeli. Ali è di origine turca e ritiene che, quello degli Armeni, non sia stato un genocidio ma il frutto di semplici azioni legate alla guerra. Deportazioni, qualche uccisione, sì, ma cose legate alla sicurezza dell’allora Impero Ottomano. Grosso modo quella di Ali è l’idea condivisa dai turchi moderati di oggi: un argomento comunque trattato malvolentieri. O comunque di cui cercare di giustificare le ragioni, come prova appunto a fare Ali con Sarayan; che invece non pretende alcuna scusa da lui e piuttosto lo ringrazia per la convincente prestazione d’attore. Il meccanismo narrativo imbastito da Egoyan è sempre più complicato e scopriamo che Ali ha una relazione omosessuale con il figlio di David (Christopher Plummer), rigido addetto alla dogana canadese. 

David è un tipo inflessibile: ad inizio film blocca Sarayan alla frontiera perché ha con sé un melograno e c’è il divieto di importare prodotti ortofrutticoli in Canada. Serafico, il regista se lo mangerà sul posto. Successivamente David si trova a controllare Raffi, di ritorno dal suo viaggio nei luoghi del genocidio. Il doganiere è una delle figure chiave: è una sorta di giudice, stabilisce chi può entrare in Canada, è un padre severo che fatica ad accettare l’omosessualità del figlio, è tranciante nelle sentenze, come quando definisce Ali senza Dio ed è soprattutto Christopher Plummer, ovvero un monumento del cinema e questo, in un’opera di chiara matrice metalinguistica (Ararat – Il monte dell’Arca è un film sulla realizzazione di un film), vorrà pure dir qualcosa. In effetti è lui che compie l’evoluzione migliore, più significativa, nel corso della storia. Quando, nel bel passaggio finale, si rende conto della buona fede di Raffi non lo arresterà nonostante nelle pizze, le scatole metalliche che avrebbero dovuto contenere le pellicole, ci sia della cocaina. Non è importante, insomma, il contenuto del film, ovvero quello che c’è nei contenitori preposti al trasporto delle pellicole; e nemmeno è importante se Raffi gli abbia raccontato un sacco di balle, insieme a qualche verità. 

La cosa che conta è la sincerità intima del ragazzo. Della cocaina evidentemente non sapeva, e lo si capisce quando crede che David non accenda la luce per non rovinare la pellicola. Quanto alle confuse vicende snocciolate durante l’interrogatorio, l’impressione è che Raffi volesse raccontare la storia del suo popolo, la sua tragedia, ad un grigio funzionario occidentale che ostentava la totale ignoranza nel merito. Che importanza poteva avere se poi le cose non fossero precisamente aderenti alla realtà, se il giovane ne era così trasportato, partecipe? Ecco, dunque, la funzione del cinema; e anche del cinema di una tragedia. Non raccontare l’esatta verità storica, per quello ci sono le fonti ufficiali, i documenti, ma mostrare qualcosa di vivo, di credibile, di appassionante. Un po’ come fecero i western del cinema americano: anche lì si può discutere se si trattò di genocidio, tanto gravi furono le conseguenze per i nativi, ma questo non ha impedito di raccontare le avventure più disparate partendo da semplici spunti o fatti storici dell’epoca. Ecco, quindi, perché giustamente Egoyan nel suo film sul Genocidio Armeno, insegue comunque i suoi sentieri e, in una storia in cui ci sono solo due coppie, una è vagamente incestuosa e l’altra è omosessuale; e tutto è tranne che un mero reportage sui fatti del 1915. Della questione armena è necessario parlarne, con serenità, partendo magari da uno spunto vedendo un film come Ararat – Il monte dell’Arca, evitando, se possibile, le giustificazioni che si premura di accampare Ali nel film e che sanno tanto di excusatio non petita, accusatio manifesta. Film interessante, quindi.
Poi, i credits finali ci riconducono brutalmente all’italica realtà.
Lo schermo nero mostra due didascalie, lasciate in inglese senza un apparente motivo. A “The historical events in this film have been substantiated by holocaust scholars, national archives, and eyewitness accounts, including that of Clarence Ussher” segue “To this day, Turkey continues to deny the Armenian Genocide of 1915”. E se uno non conoscesse l’inglese, viene da chiedersi? Con quello che sembra un calcolato ritardo una voce over recita la traduzione della prima didascalia. ‘Calcolato ritardo’ perché, per chi non conosce l’inglese, diventa difficile capire se la traduzione è riferita a solo una didascalia o a tutte e due. Se la traduzione fosse stata letta sulle parole a cui si riferiva, come da prassi, ci si poteva infatti accorgere che in Italia non si ha intenzione di dire che ad oggi, la Turchia continua a negare il Genocidio degli Armeni del 1915.
Oltre il quarantesimo posto e con l’intenzione di scalare la classifica al contrario, puntando direttamente al centesimo. 






Maria-Josée Croze



Arinée Khanjian 


Galleria