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mercoledì 30 novembre 2022

QUANDO TUONA IL CANNONE: 13_WAR STARS

Quando la città dorme presenta:

QUANDO TUONA IL CANNONE

IL KOLOSSAL DOSSIER

Capitolo 13

WAR STARS

Il primo capitolo dedicato alle stelle cinematografiche dei film della Grande Guerra – rigorosamente femminili, giusto per stemperare i toni cruenti della rassegna – prende in esame film dei tempi del Primo Conflitto Mondiale o comunque usciti nelle sale molto prima dell’inizio del Secondo. Si comincia con il tributo a Mary Pickford in The Little American e Lillian Gish in Cuori del mondo, due lungometraggi usciti quando ancora infuriava la Grande Guerra. Nel 1919, a conflitto finito, nelle sale uscì For better, for worse con la divina Gloria Swanson, qui forse al suo primo vero ruolo degno della sua fama. In Lazybones troviamo Madge Bellamy, oggi ormai dimenticata ma al tempo abbastanza nota, in seguito, in Reticolati, Pola Negri sfodera tutto il suo leggendario charme. In Settimo Cielo assistiamo alla prestazione da Oscar – nel 1929, il primo della Storia – di Janet Gaynor mentre Marie Prevost non è forse nella sua miglior interpretazione in The Flying Fool. Per chiudere, una sorta di duello interno al capolavoro di James Whale, La donna che non si deve amare dove una giovanissima Bette Davis prova ad insidiare la star della pellicola, Mae Clarke. Senza riuscirci, per la verità, anche se l’istrionica Bette avrà tempo in seguito per affermarsi come stella assoluta. L’intermezzo muliebre è terminato, nel prossimo capitolo si torna in prima linea. Nello specifico sul fronte orientale: prepariamoci al bagno di sangue del 1916.  



  

Capitolo 13: WAR STARS

Dalla notte del primo dicembre

 

Tema

Le stelle del cinema ai tempi della guerra

 

Film

 

1_THE LITTLE AMERICAN

 

2_CUORI NEL MONDO

 

3_FOR BETTER, FOR WORSE

 

4_LAZYBONES

 

5_RETICOLATI

 

6_SETTIMO CIELO

 

7_ THE FLYING FOOL

 

8_LA DONNA CHE NON SI DEVE AMARE

 


martedì 29 novembre 2022

THE AFRICAN DESPERATE

1170_THE AFRICAN DESPERATE . Stati Uniti 2022;  Regia di Martine Syms.

Una domanda ritorna spesso nel caos visivo di The African Desperate dell’artista concettuale Martine Syms: “hai letto il libro di *?” Dove per * mettete pure quello che volete tanto i libri ormai non li legge più nessuno. Del resto lo si dovrebbe aver compreso dal corsivo usato poco sopra per artista concettuale, riferito in genere all’autrice, che siamo nel campo dell’arte autoreferenziale. Per dovere di cronaca va detto che la Syms ha definito la sua attività come imprenditrice concettuale; in ogni caso sono sottigliezze che potrebbero essere argomenti adeguati giusto per gli sterili dialoghi del film. A fronte di un’opera così singolare, lo spettatore può rimanere sconcertato ma anche incuriosito, a dirla tutta. Tecnicamente, da un punto di vista visivo, The African Desperate è appunto interessante, pur nella generale sciattezza. Il décor ridotto all’osso può essere spacciato per stilizzazione visiva, mentre i colori psichedelici sono un’efficace rappresentazione dell’allucinante stato in cui versano i personaggi, al di là dell’uso smodato di droghe che fanno. Altre scelte di spiccata tendenza avanguardista, i titoli di testa, le videochiamate che subentrano a tutto schermo cambiando anche stile visivo, gli inserti picture in picture per i pensieri della protagonista, hanno un indiscutibile fascino oltre che un significato specifico. Al che potrebbe sorgere qualche perplessità, visto che la sarcastica e graffiante descrizione del mondo dell’arte ha la stessa natura delle ragazze coccodè del programma televisivo Indietro tutta!, ovvero stigmatizza un fenomeno utilizzando gli stessi stilemi che mette sotto accusa. Anche perché la critica di Syms al mondo dell’arte sembra solo un acido scherzo, mentre quello che preme davvero all’artista è la questione afroamericana e più specificatamente la situazione delle donne di colore che vivono negli States. Può quindi essere The African Desperate uno strumento efficace per combattere in qualche modo il razzismo? Sarà, sebbene il film non è che ispiri tutta questa empatia e tantomeno lo fa la protagonista (Diamond Stingily), sorta di alter ego dell’autrice. Tuttavia si può perlomeno condividere l’aggettivo contenuto nel titolo, ‘desperate’, visto che sembra davvero una situazione senza speranza.
Quello che invece è un obiettivo assai più probabile dell’opera, anche osservando il meccanismo autocelebrativo delle avanguardie artistiche mostrato nel lungometraggio, è che permette a chi lo ha visto di pavoneggiarsi con una domanda simile a quella citata in apertura: ‘ma tu l’hai visto il film di Martine Syms?







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domenica 27 novembre 2022

DIECI PICCOLI INDIANI

1169_DIECI PICCOLI INDIANI . Regno Unito 1965;  Regia di George Pollock

Ennesima trasposizione dell’omonimo romanzo di Agata Christie, Dieci piccoli indiani di George Pollock assolve degnamente gli intendimenti di prodotto di godibile intrattenimento rispettando in questo lo spirito del testo all’origine. Alcuni dettagli narrativi, ad esempio l’ambientazione in ambito sciistico – in una magione arroccata sulla cima della montagna raggiungibile solo tramite la funivia – aggiorna la vicenda originale agli anni Sessanta giustificando, in un certo senso, questo nuovo remake. Pollock era fresco della serie di film dedicati a Miss Marple, sempre tratti dalla Christie, e si mantiene grosso modo in quella scia, pur smorzandone i toni più leggeri. Non che Dieci piccoli indiani sia un film cupo, sia chiaro; in ogni caso il mistero che incombe sui personaggi funziona per tutti i 92 minuti del lungometraggio e il senso di minaccia ha qualche spunto incisivo. Il ritmo narrativo, scandito dalla progressiva eliminazione di quasi tutti i dieci personaggi, i dieci piccoli indiani del titolo, non molla mai la presa e lo spettatore non viene mai abbandonato dalla suspense che percorre e sostiene la storia. Le variazioni introdotte sulla trama originale, valga per tutte la citata ambientazione sulle Alpi austriache, sono funzionali e non hanno particolari controindicazioni. Bene la regia, diligente ma efficace, superba la fotografia in bianco e nero, ottime le interpretazioni degli attori. I protagonisti principali sono Hugh Lombard (il prestante Hugh O’Brian) e Ann Clyde (la splendida Sherley Eaton), con la loro storia sentimentale che si intreccia con discrezione un filo pepata alla traccia gialla; interessanti anche i personaggi più attempati, dal giudice Cannon (Wilfrid Hyde-White), al dottor Armostrong (Dennis Price), all’investigatore Blore (Stanley Holloway). Il generale Mandrake (Leo Genn), il cantante Raven (Fabian), la star del cinema Ilona Bergen (Daliah Lavi) e l’inserviente Elsa (Marianne Hope) escono invece dal film tutto sommato troppo in fretta per incidere. Discorso a parte per Joseph Grohmann, interpretato dal grande Mario Ardorf e quindi memorabile anche solo per questo: avvincente la pesante scazzottata con Lombard che infiamma l’attrice Ilona, per una volta spettatrice. Il finale è a sorpresa multipla, forse non del tutto convincente ma comunque buono per risolvere gli interrogativi lasciati in sospeso dalla trama. Nel complesso un risultato forse non trascendentale ma certamente gradevole, come detto rispettosamente in linea con la poetica della celebre giallista autrice dell’ingombrante soggetto. 








Shirley Eaton 






Daliah Lavi 




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venerdì 25 novembre 2022

LA PIOVRA

1168_LA PIOVRA . Italia 1984;  Regia di Damiano Damiani.

Quando, in chiusura del primo episodio, il vicecommissario De Maria (Massimo Bonetti) viene barbaramente ucciso da un sicario di Cosa Nostra, appare chiaro che Damiano Damiani, seppure stia lavorando per la televisione, ha intenzione di affrontare il tema della mafia con lo stesso piglio dei suoi migliori lavori per il grande schermo. In effetti, per essere un film a episodi trasmesso in prima serata, La Piovra si dimostrerà, al di là dell’efferatezza della scena citata, un prodotto assai coraggioso. Intanto Damiani non si limita alla questione mafiosa, ma coglie l’occasione di una produzione di punta di RaiUno per affrontare alcuni tra i nodi principali che i tremendi anni Settanta avevano lasciato in eredità al decennio successivo. I famigerati anni di piombo non avevano unicamente vissuto il problema del terrorismo di matrici differenti ma, tra gli altri problemi sociali, non erano riusciti nemmeno a digerire del tutto la questione del divorzio: divenuto legge nel 1970, aveva dovuto superare il duro scoglio del referendum abrogativo quattro anni dopo. Non si trattava di una faccenda semplice perché l’Italia era un paese a forte vocazione cattolica e il divorzio si poneva, o veniva posto, come fattore disgregante la sacrale indissolubilità della famiglia. Inoltre, nel 1984, anno di trasmissione de La Piovra, i principali effetti collaterali di questo istituto giuridico, ovvero i figli dei separati, avevano già palesato ampiamente i problemi connessi a questa pur divenuta legittima pratica. Un altro elemento che i seventies avevano visto deflagrare in modo clamoroso era la piaga della droga che avrebbe flagellato la società ancora a lungo. 

In sostanza, il plot narrativo dello sceneggiato prevede che il protagonista, il commissario Cattagni (Michele Placido, strepitoso) venga spedito da Milano in Sicilia per combattere la Mafia, mentre la sua vita famigliare va a rotoli e si innamora di una locale ragazza eroinomane. Come si vede, gli ingredienti sono pesanti e solo uno chef del calibro di Damiani poteva a cucinarli a dovere. Il risultato è un racconto filmico per palati forti, con passaggi duri anche se, in ossequio al ruolo istituzionale della rete televisiva produttrice, mai gratuiti. Il tema della mafia è trattato in modo adeguato: non è un problema insormontabile di per sé, visto che basta un individuo risoluto che venga da fuori per dipanare in breve l’intricata matassa di collusioni, anche ostentate, tra i vari personaggi che tramano in modo poco pulito. Il punto è che gli interessi in gioco sono altissimi e la rete mafiosa è divenuta talmente ramificata da avere ormai appoggi ovunque, persino in seno a quelle istituzioni che dovrebbero combatterla. A quel punto si vanifica il lavoro pur vigoroso di Cattagni e del bravo vicecommissario Altero (Renato Mori), su cui Damiani e i suoi collaboratori intrecciano una bella falsa pista, presentandolo a noi e al commissario come traditore. Essendo La Piovra un poliziesco, la questione famigliare è lasciata sullo sfondo: la figlia Paola (Cariddi Narrulli) guadagna il centro della scena solo quando viene rapita, tuttavia non si rivela essere un personaggio particolarmente convincente. 

Da parte sua, la moglie Else (la bella ed elegante Nicole Jamet), pur forse avendo qualche possibilità in più di quelle concessele dalla trama, scivola fuori dalla storia in modo un po’ dimesso. Restando in ambito femminile, la marchesa Titti Pecci Scialoia (una giovanissima Barbara De Rossi) è la ragazza drogata di cui si invaghisce il commissario. La De Rossi tiene la scena in modo notevole, bellezza a parte anche incarnando in modo efficace e drammatico i tormenti di una tipica tossica. Nel cast c’è anche la superba Florinda Bolkan nei panni della contessa Olga Camastra e, per quanto il suo sia un ruolo marginale, riesce comunque ad essere memorabile. Tra gli interpreti maschili da ricordare Flavio Bucci (don Manfredi), Francois Périer (l’avvocato Terrasini), Angelo Infanti (il boss Sante Cirinnà), Pino Colizzi (Nanni Santamaria) e Geoffrey Copleston (commendatore Ravanusa). Chiamato ad intrattenere il pubblico di prima serata della principale rete televisiva del paese, Damiano Damiani sbatte in faccia agli italiani il lato oscuro dei favolosi anni Ottanta che, a livello nazionale, viaggiavano sulle ali di un entusiasmo che, oltre dall’insperato boom economico, era sostenuto dal successo della squadra di calcio ai campionati mondiali. Lo sceneggiato fu un successo e considerando il contesto, in quel momento incline a prodotti più leggeri, rimanendo in ambito calcistico quella del regista friulano è da considerare come una vittoria che vale doppio, come si diceva delle vittorie fuori casa




Barbara De Rossi




Florinda Bolkan


Nicole Jamet





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