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giovedì 31 gennaio 2019

OMICIDIO AL CAIRO

295_OMICIDIO AL CAIRO (The Nile Hilton incident). Svezia  2017;  Regia di Tarik Saleh.

Se abbiamo dato credito all’improbabile titolo, credendo di andare un giallo di quelli classici, quelli con Hercule Poirot, per intenderci, rimarremmo esterrefatti  nel vedere, nel film Omicidio al Cairo, una ricostruzione illuminante di quella che può essere una delle cause, quella ambientale, del caso Regeni. Questo vale forse per noi italiani, d’accordo, ma che, in pieno ventunesimo secolo, uno studente straniero possa essere liquidato senza troppi problemi in un paese dove molti di noi erano soliti passare le vacanze, beh, è un fatto che riguarda tutta quanta la comunità internazionale. Ma cosa c’entra questo, con il film di Tarik Saleh? C’entra, perché forse mai si era vista una fotografia tanto lucida e credibile di una società corrotta fino al midollo, una situazione al di fuori di ogni più malsana immaginazione. Il Cairo che ci mostra Saleh è un posto da incubo e, alla fine, vien quasi da dare ragione a Kammal, il poliziotto generale che commenta laconico “cosa possiamo farci”, di fronte allo sfacelo di corruzione di cui, peraltro, è uno dei più attivi artefici. Certo, il rimando allo studioso italiano è un fatto tutto nostro, e il regista pensava ad altro girando il suo film; anche perché Omicidio al Cairo è ambientato poco prima della rivoluzione di gennaio, in seno all’illusoria primavera araba, che ha portato alla destituzione di Mubarak. Per cui, il regista pone sul tavolo una situazione molto più complessa rispetto al semplice caso di un omicidio, sia quello a cui si riferisce il titolo, sia ai rimandi specifici che ognuno può trovare. E, visto la disastrata situazione ambientale, è difficile, se non impossibile, pensare che possa essere cambiato qualcosa; se non in peggio, ovviamente.
Per carità, è sempre valido il solito discorso che non siamo di fronte ad un documentario, per cui non va preso tutto alla lettera; e, infatti, la trama gialla, il delitto richiamato nella versione italiana del titolo, è solo ispirata ad un fatto di cronaca. Fece scalpore, in Egitto nel 2008, l’omicidio della cantante libanese Suzanne Tamim e il coinvolgimento di un importante funzionario governativo, in una faccenda che presenta tanti punti oscuri che possono benissimo essere accostati a quelli della storia raccontata dal film di Saleh. Quindi quella del film è una semplice trama gialla niente più che plausibile; ma l’ambientazione puzza dannatamente di verosimile e non è presumibilmente lontana dalla situazione anche odierna del Cairo. 
La storia in se è un noir decadente (molto decadente) in cui il poliziotto Noredin (un sorprendente Fares Fares), sguazza nei traffici loschi e corrotti di uno dei distretti della delirante capitale egiziana. Noredin è corrotto tra i corrotti, in più è nipote del citato Kammal, capo del comando di polizia, corrotto anche più di lui, e quindi è in una botte di ferro. Un giorno gli arriva a casa il vecchio padre, che deve accudire per breve tempo: l’anziano dice poche parole, ma stigmatizza la scarsa onestà del figlio. E’ l’unico barlume di pura moralità dell’intero lungometraggio. Non sembra, per altro, che le sue parole facciano effetto su Noredin, che procede con il suo solito comportamento: corruzioni, concussioni, soprusi, qualche pestaggio; gli abituali sistemi della polizia egiziana, evidentemente (o almeno quella mostrata nel film). Poi finisce su un caso di omicidio, una donna bellissima, sgozzata. E’ una famosa cantante, Lalena (Rebecca Simonsson): Noredin è incuriosito e ne compra un CD; anzi no, non lo compra, lo prende ‘in prestito’ facendo valere anche in queste piccole cose il suo potere in quanto poliziotto. Ma poi ascolta la canzone d’amore di Lalena: è forse questo, l’errore di Noredin? 


E qui che, come in un noir da manuale, la femme fatale entra a corrompere il tormentato protagonista? Mah… a parte che il nostro è già corrotto, e quindi casomai, per una sorta di ribaltamento, lo potrebbe redimere almeno in parte, ma forse non basta una semplice canzone ascoltata in auto. Però una crepa nell’indifferenza morale del nostro prode poliziotto si è formata; e quando risente quella stessa canzone, cantata stavolta dal vivo da un’altra bellissima cantante, Gina (Hania Amar), allora qualcosa si smuove davvero dentro Noredin. O forse la traccia sentimentale è solo un rimando, un omaggio, al cinema noir classico; fatto sta che Noredin smette di essere un semplice ingranaggio nel marchingegno contorto che aggiusta tutto a suon di mazzette, e prova almeno un poco a capire che diamine è successo, chi ha ucciso la povera cantante. Ma la sua indagine non ha alcuna possibilità: prima viene pesantemente osteggiata dai piani alti, poi, senza alcun motivo apparente, viene favorita e lui viene addirittura promosso da maggiore a colonnello; in ogni caso, nel frattempo, le alte sfere avevano mandato qualcuno ad insabbiare (sotto due buoni metri, verrebbe da dire) le cose. Alla fine Noredin ottiene più soldi; o meglio, li ottiene Kammal, che è più scaltro; ma Noredin non stava alzando la posta, voleva scoprire davvero la verità. E infatti, è il primo a rimanere travolto dai manifestanti della rivoluzione di gennaio.
La primavera araba non è una buona stagione. E neppure ne annuncia una.   


Mari Malek




Hania Amar





Rebecca Simonsson





martedì 29 gennaio 2019

E' DIFFICILE ESSERE UN DIO

294_E' DIFFICILE ESSERE UN DIO (Трудно быть богом). Russia 2013;  Regia di Aleksej Jur'evič German.

Con la solita acuta ironia, Umberto Eco ha bruciato tutti nel cogliere il prevedibile gioco di parole che può venire in mente vedendo E’ difficile essere un dio di Aleksei German: “è probabilmente difficile essere un dio ma è altrettanto difficile essere uno spettatore, di fronte a questo terrorizzante film di German”. E ci sarebbe poco altro da aggiungere, perché lo spettatore medio può sentirsi gratificato dall’aver avuto le stesse difficoltà di un intellettuale come Eco, nel guardare l’enigmatica e monumentale opera di German. Ma, forse, non è il caso, almeno non dopo essersi fatti le ossa con il quasi altrettanto spiazzante Faust di Aleksandr Sokurov; che, volendo, non ha poi un’ambientazione visiva così dissimile da questo E’ difficile essere un dio. Che sia una possibile recente e certamente traumatizzante deriva del cinema russo?
Chiariamo subito: a livello scenico, E’ difficile essere un dio è un capolavoro. Non di bellezza in senso classico, ma di ipnotico fascino malsano. In avvio, una cavernosa voce narrante si premura di dirci che non ci troviamo sulla Terra, ma sul pianeta Arkanar, un posto simile al nostro pianeta ma di 800 anni fa. Oddio, a occhio e croce sembra un posto messo ben peggio, di quello che poteva essere il nostro pieno Medioevo, ma non sottilizziamo. Il punto di vista che ci propone German è immerso nel pieno delle deliranti inquadrature ed è come se ci si trovasse anche noi impantanati nel terreno fangoso di melma ed escrementi vari; e ci va ancora bene di non finire sotto gli scrosci più o meno consistenti delle evacuazioni pubbliche che innaffiano alcuni dei bizzarri abitanti di questo pianeta. Che per altro sembrano del tutto umani. 
Le riprese della mdp di German sono spesso tanto ravvicinate ai soggetti che si fatica a capire quello che ci sta letteralmente capitando addosso: come si è detto, nella maggior parte dei casi, liquami di ogni genere, per di più organici, e puzze di ogni tipo, tanto che l’olfatto è il senso più utilizzato dai personaggi del film. Pur essendo un’opera di fantascienza (anche se sembra difficile a credersi), tratta dal romanzo omonimo dei fratelli Strugatsky, a livello visivo i riferimenti più evidenti sono alla pittura di Hieronymus Bosch o Pieter Bruegel il vecchio, annegati però in una viscida e paludosa pseudo civiltà del tutto originale, sebbene imbastita utilizzando unicamente elementi presi dal passato medioevale della cara e vecchia Terra. 

La regia lascia raramente la steadicam per fornirci qualche panoramica; il nostro posto è mischiati ai personaggi dannati dell’inferno umido, freddo e puzzolente che trasuda sporcizia ad ogni fotogramma. Il protagonista, don Rumata (Leonig Yarmolnik) è un terrestre in missione di esplorazione sul pianeta e viene creduto una sorta di Dio dai locali; don Reba, un nobile del posto, pur nel marasma di una trama difficilmente decifrabile, si accorge che l’uomo non è affatto una divinità, e cerca di smascherarlo. La sua milizia, i ‘Grigi’, sono i maggiori responsabili del mancato sviluppo del pianeta: il loro compito, oltre ad opprimere la popolazione, è l’eliminazione di ogni intellettuale al fine di evitare un possibile movimento di tipo rinascimentale. 
Peggio dei ‘Grigi’ sono i ‘Neri’: pur se acerrimi rivali di questi, non sono che un’altra forza di opposizione ad ogni possibile sviluppo. Non serve nemmeno una vendetta tremenda, la vendetta divina, in un simile contesto che non ha nessuna latitudine morale: non c’è ‘giusto’ o ‘sbagliato’, solo fango, freddo, umidità e sporcizia maleodorante, anche e soprattutto in senso metaforicamente etico. Eppure la diffusa mancanza di un quadro morale, volendo ben vedere, qualcosa deve pur ricordarci.
Ma sì, dev’essere davvero dura essere un dio.
Chissà che non l’abbia pensato anche il nostro.   










domenica 27 gennaio 2019

TESTIMONE D'ACCUSA

293_TESTIMONE D'ACCUSA (Witness for the prosecution)Stati Uniti 1957;  Regia di Billy Wilder.

A proposito di Testimone d’accusa, giallo giudiziario un po’ atipico nella carriera di Billy Wilder, possiamo riportare alcune citazioni per inquadrare meglio la pellicola. Innanzitutto, precisando che il film è tratto dall’omonima opera letteraria e teatrale di Agatha Christie, va ricordato che la famosissima scrittrice inglese definì Testimone d’accusa, in assoluto, la miglior trasposizione cinematografica di uno dei suoi lavori. Trasposizioni che furono numerose, detto per inciso. L’interesse per il genere giallo da parte di Wilder è presto detto, basta prenderlo dalle sue parole: “Ho voluto fare un film a là Hitchcock, poi mi è venuto noia. In realtà, ogni volta che mi sento a terra faccio una commedia, quando invece sono in un momento buono preferisco un film drammatico o un noir, così poi mi annoio e posso tornare alla commedia.”  Da queste parole, per quanto sempre ironiche com’è tipicamente nello stile del geniale autore, si può comunque intuire che ciò che interessa davvero Wilder sono i film più leggeri; i generi drammatici incontrano meno il suo gusto, ma questo non vuol dire che i risultati siano poi negativi, anzi. Del resto la bontà dello stesso Testimone d’accusa, indiscutibile, lo conferma. Un ulteriore aspetto interessante è che il regista di origine austriaca tiri in ballo Hitchcock, per altro un po’ a sproposito, in quanto Testimone d’accusa non è poi un film così hitchcockiano, e del resto in seguito lo stesso Wilder lo riconosce quando affronta più seriamente l’argomento: “A pensarci bene non è poi [una storia] così hitcockiana. Lui ci avrebbe infilato qualche trucco, come al solito. Del resto era un mago, da quel punto di vista. Ma nel film c’è un fondo di verità che non credo lo avrebbe interessato più di tanto.” 
C’è del rispetto, ma anche una netta presa di distanza, dal lavoro del genio inglese; il quale i trucchi li usava sempre con una precisa e valida finalità, cosa che Wilder si è scordato di dire. Punzecchiature, d’accordo; del resto pare che anche Hitch avesse contribuito alla querelle in merito a Testimone d’accusa: “spesso ho avuto modo di incontrare molti ammiratori che si complimentavano con me per ‘Testimone d’accusa’. Quando l’ho detto a Wilder, mi ha risposto che molti ammiratori si complimentavano con lui per ‘Il caso Paradine’…”  L’ironia non mancava nemmeno a Hitchcock, ma viene difficile pensare che qualcuno possa aver preso Il caso Paradine per un film di Wilder; piuttosto il regista inglese vuole forse marcare la distanza tra la sua poetica e Testimone d’accusa (il ragionamento è: Testimone d’accusa è simile al lavoro di Hitchcock quanto Il caso Paradine è simile ai film di Wilder), mettendo al contempo in rilievo i debiti del film di Wilder nei confronti del suo (la presenza scenica di Charles Laughton, la figura equivoca e altera della protagonista femminile in tribunale). 

Inoltre, l’arguzia sottile di Hitch, si può cogliere anche nel vantaggio che ne ricava personalmente dallo scambio proposto dal suo ricordo: cede infatti a Wilder un film non del tutto riuscito come Il caso Paradine, per averne in cambio uno formalmente impeccabile come Testimone d’accusa. Perché, come già evidenziato da Agatha Christie, quello di Wilder è un film di raro equilibrio: una storia ben congegnata con colpo e controcolpo di scena nel finale, su cui si innestano in modo sontuoso le interpretazioni d’attore. La parte del leone spetta a Charles Laughton, nei panni del formidabile avvocato Robarts, uomo di acume e intelligenza superiori. Eppure, la ferrea capacità deduttiva, la superba oratoria, alla fine cedono il passo al personaggio nel film contrapposto: Christine Helm, interpretata da una algida Marlene Dietrich. 
La Dietrich è sempre la Dietrich, ma questo film è un’ulteriore prova di bravura dell’attrice tedesca, capace di apparire fredda e distaccata, lasciando però intravvedere barlumi di sentimento sotto la dura scorza (per quanto apprezzabile) esteriore. Ed è uno smacco, per l’ego maschile, vedere il proprio campione, il personaggio più dotato di intelligenza e carisma, venire superato sul proprio terreno. E pensare che durante il processo, Robarts sembrava sicuro del fatto suo, e giocava distaccato con le pillole per il cuore mentre ingannava la sua infermiera bevendo brandy (messo al posto della cioccolata) dal thermos. Eppure, avrebbe dovuto capirlo già dalla prova del monocolo che la Helm era un osso troppo duro anche per lui. Il monocolo, usato da Robbarts per riflettere la luce in faccia all’interlocutore, simulava una sorta di terzo grado nascosto ma, a differenza di Leonard Vole (il terzo importante personaggio del film, interpretato da Tyrone Power) la donna non si era fatta soggiogare dalla situazione. 
Il monocolo può essere interpretato come una sorta di piccolo indizio per capire la chiave di lettura del film: proiettando luce in faccia all’interrogato, funge da schermo a Robarts, che non può essere visto in quel frangente dallo stesso interlocutore, e ne risulta così mascherato. Perché anche Robarts, che è persona professionalmente integerrima, ricorre a inganni e trucchi: scambia la bevanda al cacao con il brandy, fuma di nascosto, insomma finge, si maschera da paziente modello, ben disposto alla terapia di recupero dopo l’attacco cardiaco, ma invece cede ai propri vizi. E così fa anche la Helm, che recita la parte di donna dura ma in realtà è romanticamente innamorata del marito Leonard. 
E Leonard? Leonard è il personaggio che, in un mondo di menzogne, è vincente: lui non è intelligente o valido, è piuttosto scaltro, opportunista, approfittatore e, in un mondo dove tutti, anche gli elementi più dotati ricorrono all’inganno, risulta imbattibile. Lui non si cura di apparire in difficoltà di fronte alla prova del monocolo, anzi: usa le sue incertezze per impietosire, per avere commiserazione; e quella è la vera arma vincente. Il finale vede così Leonard ingiustamente assolto dalla sacrosanta accusa di omicidio: trionfante, facendosi beffe da una parte della giustizia e di Robarts e dall'altra dell’amore e della moglie Christine, che già tradiva e progettava di abbandonare, può rivelare la vera propria natura. Tra l’altro, è curioso come Leonard, per adescare la propria vittima, la porti in un cinema dove si sta proiettando Jess il bandito di Henry King, nel quale Jesse James era interpretato dallo stesso Tyrone Power. Un po’ a ribadire che il successo arrida a chi, come gli attori, sia bravo a recitare e quindi a mentire. Il film dovrebbe finire così, espletando la morale della favola, ovvero a questo mondo l’opportunismo è il valore più importante. Ma se già nella rappresentazione teatrale, adattata dalla stessa Agatha Christie, venne aggiunto un contro finale, (forse per la difficoltà dell’autrice a digerire l’impunità del colpevole) figuriamoci se, nel film di Wilder, la divina Marlene Dietrich potesse finire cornuta e mazziata da un Tyorne Power qualsiasi. Il finale non cambia la sostanza, ma mette almeno qualche cosa al suo posto: Marlene Dietrich era Marlene Dietrich, e aveva lavorato sodo per diventarlo, come disse proprio Billy Wilder, e tirarle un tiro mancino poteva costare assai. Una coltellata letale, ad esempio.  



Marlene Dietrich










venerdì 25 gennaio 2019

LA SETTIMA STANZA

292_LA SETTIMA STANZA (Siódmy pokój); Italia, Francia, Polonia, Ungheria 1995;  Regia di Márta Mészáros.

La regista ungherese Márta Mészáros ha dichiarato che, nel cinema, ci sono pochi autori geniali: Welles, Fellini, Antonioni, Godard… Non c’è, quindi, almeno stando alle sue parole, Fred Zinnemann, che forse non era effettivamente un genio nel senso inteso dalla Mészáros ma certamente era regista di solidissimo mestiere e spesso di arte cinematografica sopraffina. Perché il pregevole La settima stanza, film appunto di Márta Mészáros, un po’ ricorda, almeno superficialmente, La storia di una monaca del regista di origine austriaca. Poi, certo, La settima stanza è incentrato sulla vicenda di Edith Stein, in seguito proclamata Santa Teresa Benedetta della Croce, una figura storicamente molto più interessante di quella protagonista di The nun’s story. Ma, l’estremo rigore formale della messa in scena, soprattutto nelle scene dell’ambito monastico, la geometria delle inquadrature, l’attenzione ad ogni singolo fotogramma, un poco ci portano alla mente il dramma hollywoodiano con Audrey Hepburn. Così come lo ricordano le analogie tra le difficoltà incontrate nella vita claustrale dalle protagoniste, qua una filosofa di intelligenza superiore, là una donna di eccellenti cognizioni mediche, troppo legate al mondo scientifico per accettare serenamente le dure regole del convento. Ma, va detto che, questi aspetti, costituivano l’essenza completa del film di Zinnemann, e sono invece unicamente la base di partenza (per così dire) del lavoro della Mészáros, dal momento che il nocciolo di La settima stanza è reso sullo schermo in modo più intenso. 
La Stein fu una donna di capacità intellettiva sicuramente fuori dall’ordinario e, per restare al testo della Mészáros, ovviamente non è possibile comprenderne l’importanza guardando un semplice film. Al cinema forse non è neanche deputato un simile approfondimento, non ce ne sarebbe il modo essendo piuttosto un’esperienza prevalentemente emotiva piuttosto che celebrale; o perlomeno riferendosi all’opera di intellettuali di caratura della donna di origine ebrea in questione. Ma certamente la vita di Edith Stein, anche su piani di più agevole approccio, non fa mancare alla regista ungherese spunti degni di interesse: ad esempio la condizione femminile del tempo o la questione ebraica, non solo riferita al nazismo ma anche con la sua contrapposizione alla religione cattolica, poi abbracciata dalla donna. 

Punto culminante dell’opera, incute un certo timore il paragone che la regista osa tra il campo di Auschwitz Birkenau e il castello di Santa Teresa d’Avila, dove si trovava la settima stanza, quella del definitivo congiungimento con Dio. Nell’arrivo all’orribile sito nazista, la posizione fetale assunta da Edith, in uno spoglio locale inondato di luce bianca, e la visione dell’immagine del materno abbraccio della madre, sembrano chiudere in un cerchio la vita della donna, che così ritorna al contempo col suo creatore divino. Per chi ha poca dimestichezza con le complesse tematiche teologiche e non è in grado di accedere ai livelli superiori dell’argomento, il campo di sterminio assume comunque la semplice valenza della vita da affrontare sempre con la forza dell’amore nel cuore, senza paura, senza timore.

In ogni caso, stando alla santificazione della donna da parte della Chiesa, si tratta di una prova che la Stein superò in modo assolutamente degno della massima ammirazione anche in ambito strettamente religioso. Ma Edith Stein fu una personalità eccezionale anche se prendessimo la sua vita in ambito esclusivamente laico e, per restare al testo filmico in oggetto, ammirevole nel coraggio e nella coerenza di affrontare il proprio destino senza farsi piegare dal fato avverso. La Germania è la mia patria, ripete spesso la Stein manifestando la volontà di non ricorrere ad un comodo esilio all’estero; per un’ebrea ai tempi di Hitler, anche solo questo passaggio, può bastare per avere un posto di rilievo nella Storia dell’Umanità. E il cinema, nello specifico questo valido film di Márta Mészáros, le rende un doveroso tributo. 




   
Maia Morgenstern