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lunedì 29 giugno 2020

IL VAGABONDO DELLA FORESTA

591_IL VAGABONDO DELLA FORESTA (Rachel and the Stranger); Stati Uniti, 1948. Regia di Norman Foster.

Western romantico che sconfina nel northern, (per usare una definizione di Otto Preminger in riferimento al suo La magnifica preda), Il vagabondo della foresta è ambientato anche in un’epoca leggermente precedente a quella abitualmente immortalata nei film sulla conquista del west. Non è una distinzione da poco: se con le storie sulla frontiera del sudovest si raccontava, romanzando in chiave epica, della definitiva nascita della nazione, al tempo de Il vagabondo della foresta, più che la società, ad essere al centro dell’attenzione è la famiglia. Ed è proprio per la centralità della figura femminile in questo discorso che nel film di Norman Foster la parte del leone la fa decisamente Loretta Young, elegante e bellissima pur nei sobri panni di Rachel. La ragazza, figlia di un professore di musica caduto in disgrazia economica e finita addirittura venduta come schiava, è la vera protagonista del film, tanto che l’opera le è esplicitamente dedicata. Rachel and the stranger, recita infatti il titolo originale, dove lo straniero in questione è nientemeno che Robert Mitchum, nelle vesti di Jim, il vagabondo della foresta della versione italiana, che scorazza per monti e valli con fucile e chitarra. E l’altro vertice del triangolo amoroso che, in ossequio alla presenza femminile, viene imbastito nel film, è rappresentato da un altro asso come William Holden, ovvero quel Big Davey Harvey che, se riscatterà dalla schiavitù ufficiale Rachel, lo farà soltanto per sottoporla ad una condizione simile ma in versione domestica. 

Big Davey è infatti vedovo e vive isolato sui monti col figlioletto Davey (Gary Gray), un moccioso irritante e indisponente che, per essere educato, necessità quindi di una figura materna. Così Big Davey si reca nella comunità dove il pastore le affibbia la povera Rachel che l’uomo, oltre a riscattare pagando 22 dollari (18 in anticipo e 4 di saldo), dovrà anche sposare, per poter convivere sotto lo stesso tempo senza recare scandalo. Ma Big Davey, a cui Holden riesce a conferire un’ottusità un po’ troppo impacciata ma comunque credibile, non intende spingersi oltre, nei rapporti con la ragazza: da un punto di vista sentimentale il ricordo della prima moglie gli rende impossibile ogni affettività verso altre donne. In questo senso la storia ricorda addirittura un po’ Rebecca, la prima moglie, (1940, regia di Alfred Hitchcock), sebbene qui il punto nevralgico sia che la povera Rachel (che con la Rebecca di Hitch condivide anche il nome biblico) passi da una condizione di schiavitù dichiarata ad una del tutto simile. Che è poi quella in cui era abitualmente tenuta la donna nell’epoca dei fatti narrati e anche successivamente, e forse in molti casi fino ai giorni nostri. Se Big Davey non sembra molto consapevole della dignità che spetta a Rachel, a scuoterlo dal suo ottuso torpore ci pensa Jim, che quando vede l’elegante figura della ragazza ne è subito attratto. Fino a questo punto il film è scritto molto bene, con passaggi formalmente eleganti e puntuali; la svolta melodrammatica, con i due uomini che si contendono la ragazza, risulta invece un po’ troppo scontata e prevedibile. A quel punto perfino il bamboccio di casa si è accorto che Rachel non è poi così male, visto che è riuscita a salvargli la vita uccidendo addirittura un puma che si aggirava per la fattoria. 


Tuttavia la contesa arriva al suo acme, e Jim offre denaro a Big Davey in cambio della moglie: Rachel, informata da Davey, subito lesto a fare la spia, disgustata dal comportamento dei due uomini decide di tornare al forte abbandonandoli entrambi. L’attacco degli indiani, l’incendio alla fattoria, l’arrivano i nostri, rimetteranno le cose a posto. Idea di pagare per avere la moglie a parte, Jim avrebbe avuto certamente più merito di Big Davey di convolare con Rachel ma, alla fine, l’avventuriero capisce che è ora di farsi da parte. Per altro, il marito della donna è una brava persona, per carità, ma per tutto il film ha unicamente i meriti formali di esserne il consorte ufficiale. E se è vero che nel finale si ravvede, accorgendosi del valore di sua moglie, lo fa solo in dirittura d’arrivo, persino anticipato dal figlio, a cui va almeno la scusante di essere un semplice moccioso. E va detto che anche il personaggio di Mitchum non è certo memorabile; insomma, in fin della fiera, bisogna riconoscere che Loretta Young fa un figurone al cospetto di interpreti maschili così altisonanti. E questo, in un western (o anche in un northern, fate voi), per un’interprete femminile è un successo che vale doppio, sebbene nella corrente romantica del genere, quella degli anni Quaranta, la cosa non fosse nemmeno così rara.






Loretta Young







sabato 27 giugno 2020

KISS KISS... BANG BANG

590_KISS KISS... BANG BANG ; Italia, Spagna, 1966. Regia di Duccio Tessari.

Nei primi anni sessanta, il successo dei film di James Bond, l’agente segreto 007, aveva lanciato il genere spionistico al massimo della popolarità. In Italia, al tempo avida di nuovi impulsi creativi, l’humus narrativo alimentato dall’allora imperante Guerra Fredda, aveva dato luogo a collane di romanzi tascabili mentre nei fumetti spopolavano gli eroi neri che con le spie avevano in molto in comune. I metodi spietati, l’ironia molto molto sottile (quando c’era) per stemperare l’assenza di valori morali, i trucchi e le diavolerie tecnologiche, gli scenari urbani e moderni, spesso lussuosi, e l’avvenenza fisica dei personaggi. Ce n’era abbastanza perché anche al cinema si potessero ripetere i fasti degli spaghetti western, autorevole (almeno all’inizio e nei sui spunti migliori) versione italiana del genere americano per eccellenza. A questo proposito, Duccio Tessari, il regista di Kiss kiss… bang bang, film spionistico del 1966, aveva diretto l’anno prima due volte Giuliano Gemma nei panni di Ringo, in una coppia di spaghetti western divertenti e apprezzabili. Tessari si era anche già cimentato col genere spionistico, (La sfinge sorride prima di morire-Stop a Londra, 1965) mostrando una buona conoscenza del genere, e per questo nuovo film sembra nutrire ambizioni più elevate. Nel ruolo di protagonista, l’agente Kirk Warren, viene confermato Giuliano Gemma, ormai celebre in mezza Europa nel ruolo di Ringo, tanto che, in Turchia, il nome del suo personaggio dei western verrà ripreso nel titolo di quest’opera come effetto di richiamo. Dal cast dei due film dedicati a Ringo arrivano anche le attrici coinvolte: Nieves Navarro e Lorella De Luca. Interpreti brave e di ottima presenza scenica, che Tessari conosce e va quindi sul sicuro. 

Al lavoro sul testo si mettono in tre: lo stesso Tessari, che prima di regista era stato valente sceneggiatore, e poi Fernando Di Leo e Bruno Corbucci, altri due nomi pesanti nel cinema di genere italiano. I tre realizzano soggetto e sceneggiatura: il formidabile Di Leo può garantire ritmo e azione, mentre Bruno Corbucci, oltre all’esperienza diretta nei film parodistici di spionaggio dell’ispettore Tont, è l’ideale per alimentare la verve ironica richiesta dalla regia di Tessari. La grafica stilizzata di alcuni poster e la colonna sonora su cui spicca la bella canzone Love love bang bang cantata da Nancy Cuomo, sono ulteriori indizi che siamo di fronte ad un’operazione condotta con tutti i crismi necessari alla buona riuscita. 

E poi anche il titolo è decisamente evocativo e azzeccato. Con tutti gli elementi a favore il film è però davvero deludente. Storia fiacca, ritmo sconclusionato, ironia pesante e prevedibile. Inoltre, il racconto rinuncia, in favore di una sostanziale esplicita ammissione di essere un mero pretesto per strappare mezzo sorriso, a qualsiasi forma di mistero o intrigo. Pur essendo un film ambientato nel mondo dello spionaggio, non ci sono segreti: Warren arriva addirittura a lasciare distrattamente la sua pistola come mancia al cameriere. Che ci potrebbe anche stare, come passaggio divertente, del resto è una pistola caricata con il gas esilarante, vero manifesto, ma solo nelle intenzioni, dell’opera. 

Perché il film, in definitiva, fallisce anche e soprattutto come opera umoristica. E, in fondo, se nella storia non c’è nessun mistero da scoprire, il vero enigma che il film ci lascia in eredità è come, da una situazione tanto propizia, sia potuto scaturire un simile fiasco. Forse l’errore è già alla radice: fare il verso a James Bond che, in fondo, è già un personaggio fortemente ironico, può facilmente far deragliare il tentativo. Perlomeno questo. Ma, in definitiva, questa rimane una supposizione e, per evitare antipatiche ed eccessive stroncature, conviene almeno salvare l’intenzione degli autori, che potenzialmente sembrava buona. Nel bilancio, però, anche volendo tenere come valida l’idea generale in sé, a lasciare una traccia significativa è solo la canzone della Cuomo.


Nieves Navarro





Lorella De Luca

giovedì 25 giugno 2020

IL CACCIATORE DI INDIANI

589_IL CACCIATORE DI INDIANI (The Indian Fighter); Stati Uniti, 1955. Regia di André De Toth.

Nella valutazione del film Il cacciatore di indiani, viene la tentazione di ripetere l’errore commesso dal suo personaggio protagonista Johnny Hawks (uno smagliante Kirk Douglas), ovvero lasciare andare per un po’ il corso delle cose per dedicarsi a Elsa Martinelli. L’attrice italiana interpreta Onahti, la figlia del gran capo Sioux Nuvola Rossa; l’attrice è una ragazza con un’eleganza davvero fuori dal comune che rivela i trascorsi come indossatrice. Il western del regista André de Toth segna il suo esordio a Hollywood e, pur essendo una produzione minore, il suo passaggio sullo schermo non rimarrà inosservato. Naturalmente non si tratta di una interpretazione di grande cabotaggio drammatico: la Martinelli si limita a farsi corteggiare, cosa che le sarà anche naturale e in ogni caso fa con grande fascino. Per il resto niente di particolare da segnalare: un buon western girato in un sontuoso Cinemascope negli splendidi paesaggi dell’Oregon. Buona la rappresentazione dei Sioux, che vengono mostrati nella loro lealtà alla parola data e anche visivamente nelle loro caratteristiche e pittoresche acconciature. Nel cast anche Walter Matthau, fresco di esordio in quel Il kentuckiano dove aveva ben impressionato nella parte del cattivo di turno; ruolo che ben gli si addice e che ricopre anche in questo Il cacciatore di indiani. L’unico neo che si può additare a questa pellicola è la scarsa ambizione: Kirk Douglas in gran forma, la prima hollywoodiana della Martinelli, la conferma di un caratterista come Matthau, l’ottimo impianto tecnico, l’ambientazione maestosa, la regia all’altezza, eppure tutte queste aspettative si esauriscono in un film certamente godibile ma non molto di più.    






Elsa Martinelli









martedì 23 giugno 2020

IL KENTUCKIANO

588_IL KENTUCKIANO (The Kentuckian); Stati Uniti, 1955. Regia di Burt Lancaster.

Esordio alla regia per l’attore Burt Lancaster, Il kentuckiano è un film che lo vede protagonista di una storia ambientata nei primi anni del 1800, agli arbori della corsa all’ovest che verrà poi resa celebre nel genere western. Il nostro uomo è Elias Wakefield, e decide di andare dal Kentucky al Texas insieme al figlio e al cane Faro, in cerca di orizzonti più ampi e lasciarsi alle spalle l’ormai troppo affollato territorio natio. Il ragazzo, che si chiama esattamente come il padre, è un bambino di 8/9 anni e, in un certo senso, simboleggia la spinta all’ovest, la famosa conquista del west, forse meglio di quanto non lo faccia il padre. Beninteso il film non ha grandi ambizioni metaforiche e Lancaster alla regia non mostra particolari sottigliezze; la sua è una direzione ordinaria che ben si esprime nelle scene d’azione  tra cui  vanno ricordate quella dello scontro fisico tra Elias e Bodin (Walter Matthau), quella della bisca sul battello e la resa dei conti finale coi fratelli Frome. Anche dal punto di vista del ritmo non tutto fila liscio ma la pellicola si lascia comunque guardare anche grazie ad un aspetto tecnico di prim’ordine: Cinemascope e Technicolor, musiche di Bernand Hermann, fotografia di Ernest Laszlo, il tutto a garantire un elevato standard di qualità tecnico-produttivo. Un piccolo rilievo interessante è il fatto che il padre si lasci corrompere dalla civiltà molto più facilmente del figlio, che rimane fedele ai propositi iniziali.  L’uomo è ingenuo tanto quanto il figlio, inizialmente, ma quando capisce come girano gli affari (nella scena della bisca sul battello) perde le motivazioni di andare nel Texas. Anche la scelta della futura moglie sembra andare in quel senso, con i favori che cadono su Susie (Diana Lynn), la maestrina del paese. 

Paese che ha un nome curioso, Humility (umiltà) e dove, in effetti, i nostri verranno umiliati più di una volta per la loro ingenuità prima di venire accettati. Percorso opposto di Faro, il loro cane, che in un primo momento riesce ad insediarsi sul divano del salotto del fratello di Elias, ma col tempo finirà legato alla corda. Comunque la tenacia del ragazzino e la sua voglia di Texas saranno più forti di tutte le altre spinte, comprese quelle sentimentali: per la maestrina in effetti, Elias aveva mostrato reale interesse amoroso ma, nel finale, ascolterà le istanze del figlio, preferendole Annah, una ragazza sicuramente più avvezza alla vita ruspante dei pionieri.
Insomma, l'America del tempo sembrava avvalorare il noto proverbio: val più la pratica della grammatica








Diana Lynn




Dianne Foster