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lunedì 10 dicembre 2018

TUTTI I COLORI DEL BUIO

258_TUTTI I COLORI DEL BUIO   Italia, Spagna, 1972;  Regia di Sergio Martino.

Sergio Martino sfrutta il suo buon momento e realizza il terzo thriller in poco più di un anno, rimettendo al centro della scena la bellissima Edwige Fenech, già protagonista di Lo strano vizio della signora Wardh e accantonata per il successivo La coda dello scorpione. Comune a tutte e tre i film è invece il protagonista maschile, George Hilton, ma la sua parte (è Richard, il marito della protagonista) è solo funzionale all’intrigo. Perché Tutti i colori del buio, più che un thriller basato sull’intreccio giallo (come da prassi per il genere italiano dei settanta), è un incubo, anzi, è l’incubo di Jane Harrison, interpretata in modo efficace proprio dalla Fenech. Naturalmente il regista giustifica poi, nel finale, il tutto all’interno di una non più che sufficiente coerenza narrativa, restando in tema con l’assai relativo rigore in fase di sceneggiatura tipico del thriller italico. Forse, a questo punto, Martino ne poteva fare a meno: avendo apparentemente svincolato la storia dalla logica del giallo, poteva virare deciso nel surreale ma il regista sceglie, in sostanza, la fedeltà agli stilemi del genere nostrano. Il cui punto di forza è la visionarietà, qui alimentata dalle scene oniriche e dai sabba satanici, resa credibile dall’impostazione di fondo realistica (se non proprio sorretta da una logica ferrea degli avvenimenti) che ci rimanda alla quotidianità. Martino, muovendosi nella sfera onirica, non si oppone alla psicoanalisi, al contrario di Lucio Fulci che l’aveva fatto su un testo non dissimile nell’anno precedente, Una lucertola con la pelle di donna. In ogni caso, anche in Tutti i colori del buio la risposta non è però legata ai problemi dell’inconscio perché, come si è detto, poi il regista opta per una spiegazione, diciamo così, più concreta degli avvenimenti. 
Come si può dedurre dai riferimenti citati, il film di Sergio Martino è un tipico thriller all’italiana del tempo, ma la sua fonte d’ispirazione più evidente è Rosemary’s Baby di Roman Polanski: fuori dal genere nostrano e sinceramente di un altro livello qualitativo. Il che non deve suonare come una bocciatura per Tutti i colori del buio, perché quello di Polanski è un capolavoro mentre il film di Martino è comunque un valido e solido prodotto di genere. La fortuna della pellicola si fonda sul manico sicuro del regista, sulle musiche di Bruno Nicolai e soprattutto sulla riuscita prova di Edwige Fenech, la cui burrosa bellezza è complementare al suo incerto e insicuro atteggiamento. 
Molto brava anche Marina Malfatti nei panni di Mary, l’ambigua vicina che la introduce alla setta satanica, dove Julian Ugarte e Ivan Rassimov si rivelano interpreti efficaci sebbene un po’ stereotipati, ma si tratta di una caratteristica classica di quel tipo di cinema. Della svolta razionale finale di Tutti i colori del buio si è detto ma, proprio all’ultimo, Martino spiazza lo spettatore, perché Jane ha una sorta di déjà vu che le permette di salvare il marito: ancora una volta, nel thriller italiano, l’efficacia visionaria (vedere la ripetizione della scena dell’arrivo al palazzo provoca un forte brivido) è più importante della logica narrativa. Funzionale, d’accordo; e poi, è un po’ il marchio di fabbrica nazionale del belpaese (e non solo nel cinema): coerenti solo nell’incoerenza.             


     Edwige Fenech








Marina Malfatti







Nieves Navarro (aka Susan Scott)


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