258_TUTTI I COLORI DEL BUIO Italia, Spagna, 1972; Regia di Sergio Martino.
Sergio Martino sfrutta il suo buon momento e realizza il terzo
thriller in poco più di un anno, rimettendo al centro della scena la bellissima
Edwige Fenech, già protagonista di Lo strano vizio della signora Wardh e accantonata per il successivo La coda dello scorpione. Comune a
tutte e tre i film è invece il protagonista maschile, George Hilton, ma la sua
parte (è Richard, il marito della protagonista) è solo funzionale all’intrigo.
Perché Tutti i colori del buio, più che un thriller basato
sull’intreccio giallo (come da prassi per il genere italiano dei settanta),
è un incubo, anzi, è l’incubo di Jane Harrison, interpretata in modo efficace
proprio dalla Fenech. Naturalmente il regista giustifica poi, nel finale, il
tutto all’interno di una non più che sufficiente coerenza narrativa, restando in
tema con l’assai relativo rigore in fase di sceneggiatura tipico del thriller
italico. Forse, a questo punto, Martino ne poteva fare a meno: avendo
apparentemente svincolato la storia dalla logica del giallo, poteva virare
deciso nel surreale ma il regista sceglie, in sostanza, la fedeltà agli
stilemi del genere nostrano. Il cui punto di forza è la visionarietà, qui
alimentata dalle scene oniriche e dai sabba satanici, resa credibile
dall’impostazione di fondo realistica (se non proprio sorretta da una logica
ferrea degli avvenimenti) che ci rimanda alla quotidianità. Martino, muovendosi
nella sfera onirica, non si oppone alla psicoanalisi, al contrario di Lucio
Fulci che l’aveva fatto su un testo non dissimile nell’anno precedente, Una lucertola con la pelle di donna. In
ogni caso, anche in Tutti i colori del buio la risposta non è però legata ai problemi dell’inconscio perché, come si
è detto, poi il regista opta per una spiegazione, diciamo così, più concreta degli avvenimenti.
Come si può dedurre dai riferimenti citati, il film di Sergio Martino è un
tipico thriller all’italiana del tempo, ma la sua fonte d’ispirazione più
evidente è Rosemary’s Baby di Roman
Polanski: fuori dal genere nostrano e sinceramente di un altro livello
qualitativo. Il che non deve suonare come una bocciatura per Tutti i colori
del buio, perché quello di
Polanski è un capolavoro mentre il film di Martino è comunque un valido e solido
prodotto di genere. La fortuna della pellicola si fonda sul manico
sicuro del regista, sulle musiche di Bruno Nicolai e soprattutto sulla riuscita
prova di Edwige Fenech, la cui burrosa bellezza è complementare al suo incerto
e insicuro atteggiamento.
Molto brava anche Marina Malfatti nei panni di Mary, l’ambigua vicina che la introduce alla setta satanica, dove Julian Ugarte e Ivan Rassimov si rivelano interpreti efficaci sebbene un po’ stereotipati, ma si tratta di una caratteristica classica di quel tipo di cinema. Della svolta razionale finale di Tutti
i colori del buio si è detto ma, proprio all’ultimo, Martino spiazza lo
spettatore, perché Jane ha una sorta di déjà vu che le permette di
salvare il marito: ancora una volta, nel thriller italiano, l’efficacia
visionaria (vedere la ripetizione della scena dell’arrivo al palazzo provoca un
forte brivido) è più importante della logica narrativa. Funzionale, d’accordo; e poi, è un po’ il marchio di fabbrica nazionale del
belpaese (e non solo nel cinema): coerenti solo nell’incoerenza.
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