737_CORDURA (They came to Cordura). Stati Uniti; 1959. Regia di Robert Rossen.
Gary Cooper, nel 1959, arrivava, tra gli altri, da due
eccellenti western, L’albero degli
impiccati (di Delmer Daves, 1959) e Dove
la terra scotta (di Anthony Mann, 1958): ma, nonostante queste sontuose
prestazioni attoriali, Coop versava
in uno stato di salute alquanto precario. Quasi sessantenne e gravemente
malato, l’attore dovette sfidare il parere dei medici per restare sul set di Cordura. Un film in cui anche la sua coprotagonista,
Rita Hayworth, sembra avere smarrito lo smalto dei bei tempi: e va detto che
non l’aiuta Robert Rossen, il regista, che affibbia all’attrice il solito
ruolo di donna dissoluta e persino ubriacona. Anche a Cooper il regista
americano assegna un ruolo che è tipicamente nelle corde dell’attore: un uomo
fermamente convinto ad espiare le proprie debolezze e di farlo seguendo la
strada più irta. Che, tradotto nella trama del film, significa che il maggiore
Thorn, il personaggio interpretato da Cooper, dopo essersi macchiato di viltà
durante una battaglia, vuole ora divenire il portabandiera dell’altrui eroismo. Un riscatto da cercare non quindi in prima persona, che sarebbe un’impresa almeno gratificante, a
livello di vanità personale. Thorn è piuttosto l’incaricato di scegliere, tra i
cavalleggeri statunitensi, i militari che, durante le schermaglie coi messicani
di Pancho Villa, si siano messi in luce a tal punto da meritarsi una medaglia
al valore. In questa bizzarra premessa ci sono iscritte grosso modo tutte le
difficoltà del film che, in effetti, stenta parecchio a carburare. La missione
del maggiore Thorn è portare i cinque prescelti, e quindi presunti valorosi,
per l’onorificenza a Cordura, ovvero
lontano dalla zona degli scontri: il che, a dir la verità, sembra una sorta di contraddizione. Ma alla
propaganda servono eroi, siamo nel
Ma il maggiore è irremovibile, chiede le motivazioni dei gesti eroici compiuti dai suoi compagni di viaggio e annota tutto sul suo libricino. Le frizioni interne al gruppo stemperano un po’ gli intoppi di una storia in cui succede davvero troppo poco. Il personaggio di Adelaide, da parte sua, oltre ad indispettire i militari con atteggiamenti infantili come ostentare la possibilità di fumare e bere come una spugna, è di ben poco costrutto alla narrazione. I soldati, in particolare il sergente Chawk (Van Heflin), un burino della peggior specie (oltre che criminale prima entrare in cavalleria), è più volte sul punto di esplodere e va riconosciuto che, in questi primi momenti, è quasi legittimato dall’astinenza di fumo e alcool, a fronte delle stupide provocazioni della donna. Tuttavia sono questioni stucchevoli e il film continua a procedere a fatica; proprio come i nostri eroi, rimasti appiedati, nel deserto del southwest americano.
La tensione crescente arriva al suo acme con la consegna dei cavalli al nemico, decisa da Thorn nell’ottica di evitare scontri e la perdita delle preziose vite dei futuri eroici esempi. Per il tenente Fowler (Tab Unter) è un atto vile inammissibile; il caporale Trubee (Richard Conte) rivela allora il passato del maggiore, di cui era a conoscenza. Finalmente la storia prende consistenza: i cinque uomini hanno sì compiuto atti eroici, di cui Thorn è stato testimone; ma non sono eroi. Al contrario, si comportano sempre più in modo ignobile, provando ora anche a violentare la donna. Dopo i vani tentativi con le buone, si liberano del maggiore con le cattive, recuperano il quaderno su cui Thorn annotava le motivazioni per le onorificenze e le caratteristiche caratteriali dei cinque: inaspettatamente, nonostante nel viaggio verso Cordura i soldati abbiano dato progressivamente del loro peggio, le note sono più che positive. Qualche dubbio comincia ad animarsi nei cinque soldati, spiazzati da quanto letto; il maggiore intanto non è del tutto andato, ancora si muove. A risolvere lo stallo è l’apparizione in lontananza della cittadina; i sei uomini, (e la donna), si risistemano per l’agognato e trionfale arrivo a Cordura. Di tutto il film, la parte più interessante, ma senza eccessi, è il momento che precede il finale; un po’ troppo scontata la chiusura, con i cinque che si scoprono migliori di quanto essi stessi credevano e sono grati, per questo, a Thorn, che è riuscito a scorgere un lato positivo in ognuno di loro.
Insomma, Rossen la prende eccessivamente larga, per mezzora di cinema interessante ci tiene in ballo troppo tempo. Poco male, come spettatori a volte ci è andata peggio. Spiace davvero invece sia per Cooper, che era già molto malato, che per
Rita Hayworth
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