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lunedì 25 gennaio 2021

IL SEGNO DEL COMANDO

732_IL SEGNO DEL COMANDO . Italia1971. Regia di Daniela D'Anza.

Gli sceneggiati prodotti dalla RAI ebbero in origine in prevalenza una matrice culturale alta, legata cioè ai grandi autori della letteratura, ben interpretata dall’impianto teatrale di queste operazioni. Con gli anni settanta e la diffusione del mezzo televisivo, presero sempre più piede temi ed argomenti più popolari, come il mistery, l’horror e addirittura il sovrannaturale. Uno dei vertici di questa nuova ondata fu Il Segno del Comando per la regia di Daniele D’Anza, andato in onda nel 1971. In ogni caso anche la bellezza di queste produzioni risiede nella ancora visibile impostazione teatrale che crea un effetto particolare, poiché poi il tema trattato è davvero leggero, in questo caso una complicata storia di un complotto ordito ai danni di uno studioso con alcuni spunti fantastici non del tutto chiariti dalla spiegazione razionale del finale. E’ una miscela riuscitissima: lo sceneggiato risulta ipnotico, vuoi per i misteri che si accavallano, vuoi per l’atmosfera oscura con cui si cercava di mascherare la relativa povertà della produzione, vuoi per i lunghi dialoghi che imbrigliavano l’attenzione negli estesi piano-sequenza. Alcuni di questi aspetti erano legati ai limiti del mezzo televisivo del tempo: non si poteva lavorare in modo proprio sul montaggio (come avviene al cinema) e andava sfruttata l’abilità affabulatoria di attori d’origine teatrale come Ugo Pagliai (è Foster, il protagonista) per tenere desta l’attenzione dello spettatore. Allo stesso modo un lugubre bianco e nero, che rimandava direttamente alla illustre tradizione del cinema gotico italiano degli anni sessanta, forniva la giusta ambientazione per la nostra inquietante storia senza pesare in modo eccessivo sui costi di produzione. 

Storia che, si è detto, è alquanto complicata: pare che, pur partendo da un soggetto già definito, la lavorazione alla trama fu oltremodo faticosa e, in effetti, anche il risultato sullo schermo sembra riflettere queste difficoltà con un continuo innesto di nuovi elementi misteriosi che, in qualche caso, danno l’idea di cercare di rinviare la soluzione finale più che prepararla. Il che è peraltro uno stratagemma tipico del romanzo d’appendice che, nella cadenza delle puntate, ha dei punti in contatto con gli sceneggiati. Per il tipo di racconto, che verte su un unico intrigo, per altro con mille risvolti, Il Segno del Comando è un’opera monumentale, ben oltre 300 minuti complessivi che tengono incollato lo spettatore allo schermo. Certo, si dirà che il ritmo è lento, che il tipo di linguaggio non è adeguato alla frenesia delle moderne produzioni: questo non è esatto, in quanto Il Segno del Comando ha la velocità narrativa adeguata al suo scopo, ovvero avvolgere con la sua trama lo spettatore dopo averlo mesmerizzato con le allusioni e i rimandi, che gli attori sono bravi a disseminare. Semmai dovremmo riflettere, a fronte di eventuali obiezioni sulla lentezza dell’opera, sull’incapacità dello spettatore odierno di rallentare il suo ritmo, di riflettere sui passaggi narrativi, di gustare la visione quando la velocità del racconto non si mantenga forsennata. Come se allo spettatore oggi sia costantemente necessario avere stimoli a getto continuo, non essendo più in grado di approfittare di qualche flessione narrativa per ripensare o meditare su qualche passaggio nascosto o secondario della trama. 

Si è detto della bravura di Pagliai ma tutto il cast è di livello notevole: in gran spolvero Massimo Girotti (è George Powell) che sciorina una prestazione sorniona e ambigua, efficace e divertita; bene anche Marco Hintermann (Lester Sullivan) e Franco Volpi (il principe Anchisi). Da lustrarsi gli occhi la controparte femminile: Carla Gravina è Lucia, la modella fantasma, una raffinata Rossella Falk è Olivia, più moderna e spigliata è Paola Tedesco nei panni di Barbara, segretaria di Powell, ma la più affascinante è Silvia Monelli, la signora Gianelli, direttrice dell’Hotel ma anche adepta di magia nera. Se ci aggiungiamo anche Angiola Baggi, la nipote del colonnello Tagliaferri, che fa un paio di comparsate, ci si accorgerà che sullo schermo c’è costantemente qualche bella presenza femminile a contendere la scena a Pagliai (ma anche al non più giovanissimo Girotti) che certamente stuzzicavano, dal canto loro, l’altra metà del pubblico televisivo. L’impatto scenico dei personaggi non è un elemento buono solo in questo senso ma è un dato concreto di riuscita di un’opera visiva: gli interpreti citati, oltre all’indubbio physique du rôle, avevano anche il carisma per tenere alta l’attenzione, con naturalezza, contribuendo in modo essenziale alla funzionalità del racconto filmico. 

La regia di D’Anza, al netto dei limiti di una produzione televisiva dei primissimi anni settanta, azzarda zoomate sui dettagli o panoramiche, cercando di assecondare con il suo lavoro il tenore del racconto, con ottimi risultati. L’impressione generale è di una confezione molto ben curata, con grande attenzione ai particolari che, nell’insieme, non scema affatto ma contribuisce a rendere l’idea di un lavoro coi controfiocchi. Notevole la musica, in particolar modo la sigla inziale con le note di Romolo Grano accompagnate da un fischiettare che ricorda, anche nella evocativa resa, l’effetto di quelle di Ennio Morricone per gli spaghetti western. Curiosamente è assai meno efficace la versione della stessa canzone (Cento campane, di Fiorenzo Fiorentini e Romolo Grano) cantata da Nico Tirone che chiude ogni episodio. Ma è un dettaglio marginale: Il Segno del Comando è un capolavoro, sia per il suo valore artistico in sé, ma anche per il suo rimanere in bilico, fino alla fine, tra giallo razionale e racconto sovrannaturale. Un’impressione che, in Italia, all’epoca, doveva essere diffusa sia per i tanti intrighi politici e sociali, legati al mero interesse di alcuni, sia per l’impossibilità di venirne mai a capo. Magari avessimo avuto anche noi la scusa della magia nera.      



Silvia Monelli




Carla Gravina



Paola Todesco


Rossella Falck



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