724_PER QUALCHE DOLLARO IN PIU' . Italia, Spagna, Germania Ovest; 1965. Regia di Sergio Leone.
Per qualche dollaro in più è già, fin dal titolo, strettamente imparentato con il precedente film di Sergio Leone Per un pugno di dollari; inoltre, pare che il regista, visto il successo del suo primo western, fosse intenzionato già a costituire una trilogia. Comunque, l’esordio nel genere, oltre al successo, aveva dato carta bianca a Leone che poteva realizzare un’opera con maggiore cura, guardata dall’ambiente non più con scetticismo ma con il favore dato ai prodotti di sicuro riscontro al botteghino: e, in effetti, Per qualche dollaro in più bissò il successo del primo capitolo della Trilogia del dollaro. I punti di contatto tra i due film non sono certo finiti: il principale è che il protagonista, se non è lo stesso, è molto simile. Dopo Joe/il cow boy senza nome, Clint Eastwood interpreta il Monco, soprannome ironico, visto che di mani ne ha due, ma legato al suo uso abituale della mano sinistra per fare ogni cosa, lasciando alla destra unicamente il compito della pistola; il personaggio non ha però, nemmeno questa volta, un nome proprio. Il suo modo di presentarsi è assai simile al film precedente, non c’è il mulo, ma cappello, sigaro e poncho sono identici; come novità c’è poi uno strano bracciale di cuoio e, soprattutto, qualche differenza caratteriale. Il personaggio questa volta ha una professione specifica, il cacciatore di taglie, e si presenta in modo molto più duro rispetto al Joe di Per un pugno di dollari: dalla maniera in cui scaccia il legittimo ospite della camera d’albergo, al trattamento riservato al bambino messicano, Leone sembra bluffare un po’, presentando un protagonista meno svagato e più convinto, quasi incattivito.
Ma poi, nel corso della storia, il personaggio tende a ritornare sornione e ironico, sebbene il suo spiccato lato venale stavolta gli rimanga fino alla fine, ed è un tratto distintivo non troppo edificante. L’interesse solo relativo per il denaro è invece uno dei punti a favore del nuovo personaggio che Leone introduce: Lee Van Cleef è il colonnello Douglas Mortimer, anch’esso bounty killer ma di cui si conoscono nome, cognome, grado e buona parte di storia. E proprio il fatto di avere una storia pone Mortimer, che ha perso la sorella per colpa del terzo personaggio importante del film, in sostanziale differenza con il Monco: quest’ultimo caccia e uccide gli uomini per denaro, il colonnello per vendetta e quindi ha una motivazione ancora eroica, in un certo senso.
Il fatto che dei due sia il più vecchio, è emblematico per simboleggiare il western classico, di cui, tra l’altro, Van Cleef era stato un valido interprete. Il Monco incarna invece il nuovo western di Leone: senza avere alle spalle altre motivazioni che non siano il denaro, diviene una sorta di ago della bilancia nella contesa, tra il colonnello e il citato terzo personaggio, El Indio, interpretato da Gian Maria Volonté. Una figura simile a El Indio era già presente in Per un pugno di dollari nel personaggio di Ramòn, guarda caso sempre interpretato da Volontè; ma là si trattava di un nemico tra i tanti (seppure quello prevalente), invece stavolta Leone lo prende, visto che si tratta sostanzialmente dello stesso personaggio, e lo mette sul piano di importanza degli altri, costituendo idealmente già quel triello che diverrà poi esplicito e compiuto nel finale de Il buono, il brutto, e il cattivo e sarà ricordato come marchio di fabbrica dei western leoniani. L’equilibrio di questo confronto a tre sembra tutto virato in negativo: El Indio è una carogna e il colonnello, che dovrebbe essere l’elemento positivo, è un cacciatore di uomini vendicativo e comunque porta con sé l’eredità di Van Cleef che nei western classici era sempre il cattivo di turno; infine c’è il Monco, che abbiamo visto essere sostanzialmente mosso solo dall’interesse economico. Ma è tutto quanto il lungometraggio ad essere visto in luce funerea: alcuni caratteristi della banda di El Indio sono gli stessi del precedente film, come del resto il loro capo e, se da un lato fornisce un’idea un po’ surreale, quasi fossimo in una serie di cartoni animati dove i personaggi sono sempre gli stessi pur interpretando figure diverse, dall’altro sembra di vedere morti che ritornano per farsi riammazzare anche in questo film.
Il tema del west come luogo ormai morto è ribadito anche in questo caso come nel precedente capitolo (della trilogia), stavolta da El Indio, che arrivando ad Agua Caliente dice “Sembra quasi un cimitero”. In ogni caso i morti ammazzati non si contano, salvo nel finale, quando il Monco invece ne stila un elenco per verificare il successivo incasso delle taglie. Se l’aspetto giocoso era introdotto ma poco sviluppato in Per un pugno di dollari (dai titoli di testa a disegni animati, veri e proprio giochi audiovisivi per bambini, a Joe che si prende gioco delle due bande rivali) in Per qualche dollaro in più Leone cambia leggermente strategia: scherza un po’ con i nomi dei suoi personaggi e inserisce delle vere e proprie gag che allentano la tensione generale del lungometraggio. Sui nomi Leone gioca a imbrogliare le carte: così, se il personaggio migliore è Van Cleef, che in genere era il classico cattivone, il Monco ha due mani, El Indio non sembra affatto un indigeno, El Nino (Mario Brega), nome che significa il bambino, è un’omone grande e grosso, Groggy (il bravissimo Luigi Pistilli) è tutto tranne che suonato, come il termine vorrebbe invece indicare (anzi, è il più sveglio della banda), il Profeta (Joseph Egger), è ben poco profetico ma guarda solo al passato e Klaus Kinski interpreta un tizio che viene chiamato Wild, ma la cui caratteristica più evidente non è essere selvaggio ma avere la gobba.
Pur con simili figure, anche grazie alla professionalità degli attori, il tono dell’opera è comunque grave, e Leone decide di alleggerirlo con alcuni divertenti intermezzi. C’è una scena in cui il colonnello provoca in modo sfacciato Wild e questi non può reagire per non mandare a monte la rapina; poi c’è l’intermezzo, completamente gratuito ai fini del racconto, in cui il Monco si informa sul passato del colonnello andando a trovare il Profeta, un comico vecchietto che è sputato il Walter Brennan de Un dollaro d’onore. Ma l’operazione di Leone diviene addirittura esplicita quando il Monco e il colonnello si affrontano, con la gag del cinese coi bagagli prima, quella del pestamento di piedi reciproco (e un ragazzino, osservandoli, ci toglie ogni residuo dubbio dicendo “Fanno come noi”) per finire con la scena del duello dei cappelli, con i due che si sparano ripetutamente sul copricapo, facendolo schizzare via come nelle vecchie comiche.
Per Leone l’intento sembra essere quello di alleggerire il tono della vicenda, gravato dal solito mucchio di morti ammazzati; in realtà sono i primi germi di una deriva comica che finirà per seppellire il genere dopo l’arrivo di Trinità e compagni. Ma si tratta di un’evoluzione che il regista romano non poteva certo prevedere: il suo avvicinare il western al mondo infantile era probabilmente un modo per renderlo ancora più educativo di quanto non fosse in quanto genere epico per eccellenza. Il western classico hollywoodiano serviva agli Stati Uniti d’America per darsi un’origine nobile, al pari dei poemi epici europei; lo spaghetti western enfatizzava questo aspetto, divenendo una sorta di gioco, e quindi implicitamente educativo.
Questo suo lato didattico può apparire celato, perché Leone sa che, per ottenere il suo scopo, non può agire scopertamente: i giovani sono svegli, non credono più alle favole coi buoni e i cattivi, e quindi il suo personaggio in principio sta apparentemente nel mezzo, (ancora come l’Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni già citato in Per un pugno di dollari). Da una parte c’è il colonnello, un buono alla vecchia maniera, vendicativo, d’accordo, ma nel giusto; dall’altra El Indio, un cattivo a tutto tondo. Alla fine, il Monco si schiera dalla parte giusta; così come, se in principio sembra indisponente nei confronti del suo prossimo, il suo fare amicizia col colonnello rivela la natura solidale del personaggio. Leone, in sostanza, si rende conto che il western andava aggiornato per essere appetibile ai giovani, ovvero quelli più sensibili ad un genere formativo per definizione (in sintesi il western racconta di come nacque e si sviluppò un paese); e con questi adeguamenti avrebbe avuto ancora molto da dire. E’ forse in ossequio ai gusti di questo pubblico che il regista elimina ogni traccia di sentimentalismo dalla storia e con esso, praticamente, anche la figura femminile: infatti, nei cinema parrocchiali, dove gli spaghetti western spopoleranno per decenni, quando capitava che l’eroe di turno baciava la protagonista, piovevano bordate di fischi; un rischio che con Per qualche dollaro in più non si correva di sicuro.
Sergio Leone opera quindi con grande scrupolo morale: se cerca di rendere il suo messaggio fruibile proprio dove serve, pone grande attenzione ai contenuti e ai rischi derivanti dalla sua manovra. La violenza, che è il nervo sociale più scoperto nell’avvinarsi al 1968, è trattata con rigore e responsabilità dall’autore romano: certo, i suoi film pullulano di morti ammazzati, ma c’è grande cura nel mostrare gli effetti che la violenza provoca. Ed è una scelta, più che stilistica, morale: ci si deve rendere conto di cosa provoca un colpo di fucile, la violenza deve cioè arrivare allo spettatore, e non rimanere, come succedeva nel western classico, confinata sul campo lungo di uno schermo. E’ certamente una scelta coraggiosa e rischiosa, perché poi, nel concreto, le figure violente dei film leoniani (El Indio come Ramòn su tutti) possono anche essere prese d’esempio, proprio dai giovani spettatori. Ma il regista ritiene (non senza ragione) che sia anche tempo di rendere più esplicito, più manifesto, il messaggio che era già contenuto tanto nelle antiche favole quanto nell’epopea western: la violenza non è mai gratuita, ma presenta sempre un conto da pagare. E, a differenza di quanto si è spesso ritenuto, l’esplosione violenta che arriverà poi negli anni della contestazione e nel successivo decennio, non fu causata da film che quella violenza la mostravano sullo schermo (come quelli di Sergio Leone), ma semmai nonostante questi.
credo sia la prima volta che mi capita di leggere un'analisi dei western di Leone che ne mette in evidenza il lato didattico, finora avevo sempre sentito parlare solo del fatto che fossero più violenti del western classico, più cinici perfino...
RispondiEliminaottima recensione che rilegge il tutto con occhi diversi! :)
Beh, la tagline del blog è "Il cinema come non l'avete mai letto" ;)
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