716_I CAVALIERI DEL NORD OVEST (She wore a yellow ribbon). Stati Uniti; 1949. Regia di John Ford.
La cosa più sorprendente che salta all’occhio di questo I cavalieri del Nord Ovest, film di John Ford del 1949, sono le similitudini con il precedente Il massacro di Fort Apache (dell’anno precedente) dello stesso regista. L’ambientazione è identica, il mondo della cavalleria americana durante le guerre indiane, e numerosi attori sono gli stessi e hanno addirittura ruoli molto simili; in più, in tutte e due i film manca un tessuto narrativo forte. Quest’ultimo aspetto, abbastanza inatteso in un western, ne I cavalieri del Nord Ovest è anche più evidente che nel precedente. Manca infatti lo scontro bellico, quello che in Il massacro di Fort Apache era così rilevante da meritarsi, almeno per i distributori italiani, gli onori della citazione nel titolo dell’opera. Ne I cavalieri del Nord Ovest lo scontro con gli indiani si riduce ad un’incursione notturna che disperde, insieme ai loro cavalli, le velleità bellicose dei pellirossa. Un altro aspetto che colpisce in quest’opera è l’invecchiamento operato al trucco su John Wayne: solo un anno prima lo avevamo visto aitante capitano della cavalleria americana, nel citato Fort Apache, e ora ce lo ritroviamo coi capelli grigi a pochi giorni dalla pensione. Il tema dell’anzianità è, infatti, uno degli elementi portanti di questo I cavalieri del Nord Ovest: non solo il capitano Nathan Brittles (John Wayne appunto) conta i pochi giorni che lo separano dal congedo, ma anche il sergente Quincannon (Victor Mclaglen) è nelle medesime condizioni.
Le ripetute scene del capitano Brittles sulla tomba della moglie, la morte del soldato Smith, l’incontro con l’anziano capo indiano che ripete più volte “troppo tardi, Nathan, troppo tardi”: i riferimenti ad un tempo ormai passato sono molteplici e, d’altra parte, il regalo della truppa al capitano in congedo è appunto un orologio. Un film nostalgico, in un certo senso, ma di uno strano tipo di nostalgia: qui si rimpiangono sì i tempi passati, ma viene qualche dubbio sulla veridicità di questi ricordi. I riferimenti storici appaiono approssimativi, le tribù indiane, le ambientazioni, tutto è verosimile ma non storicamente attendibile.
E questo aspetto non è tenuto nascosto da Ford anzi, è quasi ostentato, visto i fondali artificiosi che si intuiscono in alcune scene. L’uso del colore è, almeno in parte, sfruttato da parte del regista per creare atmosfere meno realistiche di quelle del precedente Il massacro di Fort Apache, che era in bianco e nero; e questa è una scelta stilistica davvero singolare. Quindi sia gli avvenimenti della trama che la fotografia sono piegati alla ricerca di un’atmosfera, una sensazione: in questa operazione emotiva ha un grande peso anche la musica. Il titolo originale del film, She wore a yellow gibbon è infatti anche il nome di una storica ballata che funge da colonna sonora alla pellicola. La canzone parla di una ragazza che “indossava un nastro giallo” e questo fatto introduce un’ulteriore curiosità nel film: in una storia ambientata nella cavalleria militare, e quindi in ambito prettamente maschile, gli onori del titolo e del tema musicale dominante se li prende una ragazza. La ragazza in questione è Oliva Dandridge (la deliziosa Joanne Dru) che, per proseguire nel parallelo con Fort Apache, appare una versione soltanto un po’ più matura della Shirley Temple protagonista di quella pellicola. Ma, come
Gli stessi due tenenti, sia il più anziano Cohill (John Agar) che il più giovane Pennell (Harry Carey Jr), sono anch’essi immaturi, intenti ad azzuffarsi per la ragazza al cospetto della morte del vecchio soldato Smith, una mancanza grave agli occhi di Ford. Infatti nelle scene della morte del soldato quasi si rimpiange l’epicità (del tutto fittizia) della Guerra Civile Americana, dove lo stesso militare morto era stato ufficiale sudista. Da una parte il vecchio e nobile confederato che accetta stoicamente la sconfitta del sud e si arruola nella Cavalleria dell’Unione, e lì vi muore sul campo di battaglia da soldato semplice, e dall’altro i giovane tenenti che si disputano le grazie della fanciulla in modo adolescenziale: il contrasto è evidente e giustifica lo sguardo nostalgico di Ford.
Tornando alla ragazza, che scorazza per tutto il film, anch’essa ha, nei confronti del protagonista, il capitano Brittles, uno strano atteggiamento di rimpianto, per via dell’eccessiva anzianità dell’uomo, che diversamente avrebbe palesemente preferito ai due pretendenti. Insomma, tutto il film è pieno di questi paragoni tra il vecchio e il nuovo, e il sentimento è sempre il rimpianto: anche nel campo indiano si nota una evidente differenza in positivo per l’anziano capo, un po’ rincitrullito ma simpatico, nei confronti del nuovo truce condottiero alla guida dei guerrieri. Ad un certo punto, il comandante del forte, il maggiore MacAllshard, dice esplicitamente al capitano Tribbles che, nonostante appaiano palesemente impreparati, bisogna lasciare che i giovani tenenti se la cavino da soli. Va da sé che Tribbles ci metterà comunque lo zampino ma, in ogni caso, si possono prendere le parole del maggiore come uno dei pochi passaggi di natura in qualche modo ottimista presenti nel film. Film eccellente, sia chiaro, ma che celebra il mito della conquista del west con testarda e spiazzante antistorica nostalgia.
ah, questa nostalgia, la parola magica!... mi fa venire una maledetta voglia di vederlo! :)
RispondiEliminaChe, con Ford, non è mai una cattiva idea.
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