713_LA LEGGE VIOLENTA DELLA SQUADRA ANTICRIMINE . Italia; 1976. Regia di Stelvio Massi.
L’incipit, con una suggestiva panoramica di Bari, potrebbe
anche essere soltanto una sequenza d’effetto utile ad ambientare la vicenda. Ma
poi, Stelvio Massi, nel suo La legge
violenta della Squadra Anticrimine insiste per tutto il lungometraggio: il
capoluogo pugliese è ripreso in diversi scorci, poi c’è la trasferta a Trani,
tribunale e cattedrale, e non manca anche una bella sequenza sul piazzale della
splendida Castel del Monte, la famosa
fortezza. E non basta: anche gli interni sono ben curati nella loro
attendibilità, in particolar modo quelli nella sede de La
Gazzetta del
Mezzogiorno. Qui Massi si supera: non si limita agli uffici della
redazione, che sono comunque banali locali tutto sommato comuni ad altri tipi
di attività. No, il regista ci porta nella sala
macchine del giornale: la tipografia
a caldo dell’epoca è mostrata come in un documentario o in un film
americano (di quelli fatti da autori di gran classe). Il regista nato a Civitanova
Marche è proprio convinto in questa sua attenzione al dettaglio realistico,
tanto che pare abbia utilizzato veri giornalisti in queste scene. L’autore
aveva già mostrato, nel suo esordio nel genere
(Squadra volante, 1974) una certa
predisposizione a mostrare con cura le location,
in quella circostanza più che altro per gli inseguimenti di rito per le vie di
Pavia. Ma, in questo La legge violenta
della Squadra Anticrimine, l’insistenza verso l’attendibilità supera di
gran lunga anche quei cliché narrativi che il regista aveva in precedenza comunque
rispettato sebbene, soprattutto nei film con Mark il poliziotto, va detto che fino ad allora avesse una sua
linea meno conforme alla corrente del
poliziesco all’italiana.
In ogni caso
La legge violenta della Squadra
Anticrimine è indiscutibilmente un poliziottesco:
la sequenza dell’inseguimento per le vie di Bari dopo la tentata rapina al
furgone portavalori è solo l’elemento più evidente. Ma già l’efferatezza della
rapina stessa, o la violenza con cui il commissario Jacovella (John Saxon)
pesta un povero ladruncolo, sono ulteriori esplicite conferme. Tornando
all’inseguimento, il finale è particolarmente cruento, con la povera
proprietaria della Simca 1000 che, dopo essere stata praticamente rapita dai banditi in fuga, viene scaraventata
dall’auto in corsa, finendo investita proprio dalla Alfa Romeo Giulia della polizia che li inseguiva.
Tuttavia il
regista, dopo la deviazione dal solco principale operata con i film con Remo
Gasparri (il divo dei fotoromanzi rosa che interpretava il poliziotto Mark), ne
opera una, in un certo senso, più seria. Perché La legge violenta della Squadra Anticrimine a guardarlo oggi, quasi
mezzo secolo dopo, sembra quasi un saggio
cinematografico sui rapporti tra forze
dell’ordine e stampa mentre sul
mondo della criminalità lo sguardo di Massi è meno preciso e più sommario. Si,
c’è il mafioso della Sacra Corona Unita, ci sono i criminali incalliti e c’è
anche il povero Blasi (Lino Capolicchio), che finisce invischiato in una
situazione più grossa di lui. E’ colpevole, sia chiaro, è l’assassino del
poliziotto durante la rapina, ma il film mette in luce anche le attenuanti
sociali che gli si possono concedere. Quelle che invece non si possono
concedere ai suoi soci nella rapina o al mafioso Dante Ragusa (Lee J. Cobb),
gente cattiva in modo convinto. Diversamente, sui metodi per combattere la
criminalità, il regista fa un lavoro sopraffino e se capita di vedere ancora
oggi una discussione tra un poliziotto ed un giornalista è facile che
emergeranno posizioni simili a quelle tra il citato ispettore Jacovella e il
suo rivale Maselli (Renzo Palmeri) il direttore de La
Gazzetta del
Mezzogiorno. Al tempo la disputa poteva essere letta benissimo tra destra (il poliziotto) e sinistra (il giornalista), un criterio
che negli anni 70 veniva applicato ad ogni cosa e che oggi è certamente più
desueto. L’impressione è che Massi riconosca l’onestà di Jacovella ma propenda,
concettualmente, per l’approccio di Maselli; del resto il titolo del film potrebbe
anche essere un dossier della Gazzetta
del Mezzogiorno della vicenda.
Ma il regista deve comunque ammettere, in
fin della fiera, che all’atto pratico nel paese non c’erano le condizioni per
poter operare in altri termini. Il che è uno sguardo sorprendentemente acuto e
lungimirante, non solo perché
la
Storia ha dato ragione a Massi (e a molti altri autori di poliziotteschi) ma perché, se ancora
oggi questi film sono attuali e credibili, è semplicemente perché mettevano in
luce problemi concreti del paese in modo onesto. Certamente in modo
enfatizzato, è vero, ma lo facevano scopertamente, questo romanzare, allo stesso
modo in cui ad Hollywood si raccontavano i vari contesti storici in modo
adeguato ad uno spettacolo di massa come è il cinema. L’onestà intellettuale del
poliziottesco si trovava proprio nella
chiara ammissione del suo essere eccessivo: ma il senso di disperazione che
andava socialmente ad incarnare (e in chiave catartica a soddisfare) era un
reale e concreto sentimento popolare. Erano gli anni di piombo, ed erano davvero plumbei. Se oggi i poliziotteschi sono in un certo senso
tornati di moda (passaggi tv a iosa, edizioni in dvd) non è solo per la cultura
della rivalutazione a prescindere, ma perché la percezione comune è che i tempi
siano assai simili a quel terribile periodo storico. Non lo sono assolutamente
per intensità, ma l’impressione comune che ci sia una certa attinenza non è
certo infondata. Massi, con La legge
violenta della Squadra Anticrimine si pone un obiettivo alto: non solo dare
libero sfogo alla tensione dilagante, che era un po’ la cifra del poliziottesco medio, ma fare una seria
analisi sulla realtà del tempo. E ci riesce alla grande.
E per farlo, si
rivolge maggiormente al cinema che ha ispirato il poliziesco all’italiana,
ovvero Hollywood: il buono e il cattivo della storia, John Saxon e Lee
J. Cobb, sono due attori americani comunque di ottimo curriculum. E al grande
cinema americano Massi si ispira come abbiamo visto nel rendere credibile la
sua storia ma anche con un altro paio di passaggi che possono, a prima vista,
sembrare invece interlocutori. La storia comincia con un processo a Nino
(Alfredo Zammi), fratello del boss Ragusa nel quale è chiamata a testimoniare
Anna, la moglie di Jacovella (Antonella Lualdi): la donna è minacciata e, a bordo
della sua Fiat 127, viene quasi
spinta nel mare dai mafiosi. Sembra un po’ eccessivo (anche per un poliziottesco) che a testimoniare si
trovi chiamata proprio la moglie del commissario: qui pare che gli autori si siano
fatti prendere la mano nell’enfatizzare la situazione. Un altro passaggio che
lascia perplessi è quando Nino concede un passaggio ad un’autostoppista
straniera: ci prova un po’, ma niente di che. Sul momento sembra una situazione
da film francese, un momento che ci
regala soltanto un attimo di vita quotidiana dei nostri personaggi, giusto per
renderli credibili. Ma l’ispirazione di Massi sembra più che altro il cinema
americano, e non quello francese. Infatti, nel proseguo della storia, questi
due passaggi apparentemente un po’ deboli, trovano la loro ragion d’essere. E
si sa, nel poliziesco all’americana, la sceneggiatura deve essere di ferro: zero errori e tutto quello
che si vede deve essere di utilità concreta allo sviluppo. Nella storia
raccontata da Massi capiterà che uno dei passaggi cruciali per inasprire la
contesa tra Jacovella e Maselli è l’uccisione di Nino Ragusa da parte del
commissario, col giornalista addirittura presente in prima persona.
Il
coinvolgimento personale di Jacovella, la cui moglie testimone a processo era
stata minacciata dagli uomini di Ragusa, è quindi usato strumentalmente dal
giornalista per motivare la spietata ma in realtà inevitabile azione del
commissario ai danni del mafioso. Un passaggio narrativo sopraffino, altroché.
L’autostoppista serve invece per dare certamente un po’ di corpo al viaggio a
Roma di Nino, fondamentale nell’economia della storia, ma anche per introdurre
e mettere in risalto la pratica di chiedere passaggi, che probabilmente al
tempo venivano facilmente concessi ma che non era ancora così ovvia e
conosciuta da tutti. Questo permette, in seguito, di velocizzare un passaggio
narrativo in cui Blasi e la fidanzata Nadia (Rosanna Fratello), in fuga dopo
gli sviluppi della rapina, devono scantonare rapidamente. Quindi, lo stesso stratagemma
narrativo, (il passaggio in autostop), è usato da Massi amplificando una parte
di racconto in cui serve rallentare, dove viene inserito quasi gratuitamente,
ma questo gli permette di sveltire la narrazione in seguito, quando deve
accelerare, senza perdersi in passaggi puntualizzanti. Questo senza inficiare
la comprensibilità del racconto: un'altra dimostrazione di ottima gestione
della trama.
Altri aspetti della sceneggiatura sono effettivamente ingenui, il
ministro che scrive una lettera compromettente o la struttura esigua della
cosca mafiosa, ma vanno ascritti ai limiti che il poliziottesco ammetteva implicitamente con le sue semplificazioni
strutturali. Si trattava di film che dovevano prevalentemente intrattenere e
insistere sulle pastoie della burocrazia
della società criminale, voleva dire rendere molto meno scorrevole il testo. Il
finale, con la morte di Blasi, al quale Massi aveva concesso una bella
fidanzata che le era rimasta vicino fino all’ultimo, sembra togliere ogni lieto
fine alla storia. La romantica scenetta tra lui e Nadia era un piccolo
intermezzo da fotoromanzo e proprio il Massi regista del Mark di Remo Gasparri,
sembra dirci che, in un contesto realistico, non c’è posto per questo tipo di
felicità.
Ci dobbiamo accontentare della soddisfazione, certamente più prosaica
di Jacovella che può finalmente incastrare Dante Ragusa. Mah, forse. Perché il
carretto che passa nel finale è lo stesso che abbiamo visto ad inizio
pellicola: la circolarità della struttura narrativa significa che non è cambiato niente, siamo ancora al
punto di partenza. In genere si usa fare questo tipo di considerazione in calce
ai film che prestano chiusure che richiamano il proprio inizio. Per di più, il
carretto all’inizio è in riva al mare, di giorno, mentre in chiusura è in
città, immerso nel buio della notte, non certo un’immagine di gran prospettiva.
Del resto, c’è un piccolo indizio, ma pesante come un macigno, che sembra dirci
proprio che non potrà mai cambiare nulla, in questo paese. Nel film c’è un
bambino, una figura che, al cinema (e non solo) rappresenta il futuro. Questo
bambino ha come padre un commissario in lotta personale e professionale contro
i mafiosi della città che si avvantaggiano dell’omertà diffusa, e come madre
una donna che, il giorno prima, è stata quasi buttata in mare con la sua auto,
per intimarle di non testimoniare al processo. Il bambino in questione deve
andare a dormire, è tardi, ma non ne vuole sapere; Anna, la madre, gli ricorda
che si è già addormentato una volta in classe e non è il caso di rischiare
ancora. Il piccolo è stupito, non sapeva che la madre fosse a conoscenza
dell’episodio e chiede come faccia a saperlo. Anna risponde che è stato il
docente a dirglielo. Il commento del bambino è emblematico e sconfortante nel
tono sprezzante usato, soprattutto tenendo conto della situazione prima
descritta: “che spia!”
Rosanna Fratello
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