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mercoledì 6 gennaio 2021

LA LEGGE VIOLENTA DELLA SQUADRA ANTICRIMINE

713_LA LEGGE VIOLENTA DELLA SQUADRA ANTICRIMINE . Italia; 1976. Regia di Stelvio Massi.

L’incipit, con una suggestiva panoramica di Bari, potrebbe anche essere soltanto una sequenza d’effetto utile ad ambientare la vicenda. Ma poi, Stelvio Massi, nel suo La legge violenta della Squadra Anticrimine insiste per tutto il lungometraggio: il capoluogo pugliese è ripreso in diversi scorci, poi c’è la trasferta a Trani, tribunale e cattedrale, e non manca anche una bella sequenza sul piazzale della splendida Castel del Monte, la famosa fortezza. E non basta: anche gli interni sono ben curati nella loro attendibilità, in particolar modo quelli nella sede de La Gazzetta del Mezzogiorno. Qui Massi si supera: non si limita agli uffici della redazione, che sono comunque banali locali tutto sommato comuni ad altri tipi di attività. No, il regista ci porta nella sala macchine del giornale: la tipografia a caldo dell’epoca è mostrata come in un documentario o in un film americano (di quelli fatti da autori di gran classe). Il regista nato a Civitanova Marche è proprio convinto in questa sua attenzione al dettaglio realistico, tanto che pare abbia utilizzato veri giornalisti in queste scene. L’autore aveva già mostrato, nel suo esordio nel genere (Squadra volante, 1974) una certa predisposizione a mostrare con cura le location, in quella circostanza più che altro per gli inseguimenti di rito per le vie di Pavia. Ma, in questo La legge violenta della Squadra Anticrimine, l’insistenza verso l’attendibilità supera di gran lunga anche quei cliché narrativi che il regista aveva in precedenza comunque rispettato sebbene, soprattutto nei film con Mark il poliziotto, va detto che fino ad allora avesse una sua linea meno conforme alla corrente del poliziesco all’italiana

In ogni caso La legge violenta della Squadra Anticrimine è indiscutibilmente un poliziottesco: la sequenza dell’inseguimento per le vie di Bari dopo la tentata rapina al furgone portavalori è solo l’elemento più evidente. Ma già l’efferatezza della rapina stessa, o la violenza con cui il commissario Jacovella (John Saxon) pesta un povero ladruncolo, sono ulteriori esplicite conferme. Tornando all’inseguimento, il finale è particolarmente cruento, con la povera proprietaria della Simca 1000 che, dopo essere stata praticamente rapita dai banditi in fuga, viene scaraventata dall’auto in corsa, finendo investita proprio dalla Alfa Romeo Giulia della polizia che li inseguiva. 

Tuttavia il regista, dopo la deviazione dal solco principale operata con i film con Remo Gasparri (il divo dei fotoromanzi rosa che interpretava il poliziotto Mark), ne opera una, in un certo senso, più seria. Perché La legge violenta della Squadra Anticrimine a guardarlo oggi, quasi mezzo secolo dopo, sembra quasi un saggio cinematografico sui rapporti tra forze dell’ordine e stampa mentre sul mondo della criminalità lo sguardo di Massi è meno preciso e più sommario. Si, c’è il mafioso della Sacra Corona Unita, ci sono i criminali incalliti e c’è anche il povero Blasi (Lino Capolicchio), che finisce invischiato in una situazione più grossa di lui. E’ colpevole, sia chiaro, è l’assassino del poliziotto durante la rapina, ma il film mette in luce anche le attenuanti sociali che gli si possono concedere. Quelle che invece non si possono concedere ai suoi soci nella rapina o al mafioso Dante Ragusa (Lee J. Cobb), gente cattiva in modo convinto. Diversamente, sui metodi per combattere la criminalità, il regista fa un lavoro sopraffino e se capita di vedere ancora oggi una discussione tra un poliziotto ed un giornalista è facile che emergeranno posizioni simili a quelle tra il citato ispettore Jacovella e il suo rivale Maselli (Renzo Palmeri) il direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno. Al tempo la disputa poteva essere letta benissimo tra destra (il poliziotto) e sinistra (il giornalista), un criterio che negli anni 70 veniva applicato ad ogni cosa e che oggi è certamente più desueto. L’impressione è che Massi riconosca l’onestà di Jacovella ma propenda, concettualmente, per l’approccio di Maselli; del resto il titolo del film potrebbe anche essere un dossier della Gazzetta del Mezzogiorno della vicenda. 


Ma il regista deve comunque ammettere, in fin della fiera, che all’atto pratico nel paese non c’erano le condizioni per poter operare in altri termini. Il che è uno sguardo sorprendentemente acuto e lungimirante, non solo perché la Storia ha dato ragione a Massi (e a molti altri autori di poliziotteschi) ma perché, se ancora oggi questi film sono attuali e credibili, è semplicemente perché mettevano in luce problemi concreti del paese in modo onesto. Certamente in modo enfatizzato, è vero, ma lo facevano scopertamente, questo romanzare, allo stesso modo in cui ad Hollywood si raccontavano i vari contesti storici in modo adeguato ad uno spettacolo di massa come è il cinema. L’onestà intellettuale del poliziottesco si trovava proprio nella chiara ammissione del suo essere eccessivo: ma il senso di disperazione che andava socialmente ad incarnare (e in chiave catartica a soddisfare) era un reale e concreto sentimento popolare. Erano gli anni di piombo, ed erano davvero plumbei. Se oggi i poliziotteschi sono in un certo senso tornati di moda (passaggi tv a iosa, edizioni in dvd) non è solo per la cultura della rivalutazione a prescindere, ma perché la percezione comune è che i tempi siano assai simili a quel terribile periodo storico. Non lo sono assolutamente per intensità, ma l’impressione comune che ci sia una certa attinenza non è certo infondata. Massi, con La legge violenta della Squadra Anticrimine si pone un obiettivo alto: non solo dare libero sfogo alla tensione dilagante, che era un po’ la cifra del poliziottesco medio, ma fare una seria analisi sulla realtà del tempo. E ci riesce alla grande. 

E per farlo, si rivolge maggiormente al cinema che ha ispirato il poliziesco all’italiana, ovvero Hollywood: il
buono e il cattivo della storia, John Saxon e Lee J. Cobb, sono due attori americani comunque di ottimo curriculum. E al grande cinema americano Massi si ispira come abbiamo visto nel rendere credibile la sua storia ma anche con un altro paio di passaggi che possono, a prima vista, sembrare invece interlocutori. La storia comincia con un processo a Nino (Alfredo Zammi), fratello del boss Ragusa nel quale è chiamata a testimoniare Anna, la moglie di Jacovella (Antonella Lualdi): la donna è minacciata e, a bordo della sua Fiat 127, viene quasi spinta nel mare dai mafiosi. Sembra un po’ eccessivo (anche per un poliziottesco) che a testimoniare si trovi chiamata proprio la moglie del commissario: qui pare che gli autori si siano fatti prendere la mano nell’enfatizzare la situazione. Un altro passaggio che lascia perplessi è quando Nino concede un passaggio ad un’autostoppista straniera: ci prova un po’, ma niente di che. Sul momento sembra una situazione da film francese, un momento che ci regala soltanto un attimo di vita quotidiana dei nostri personaggi, giusto per renderli credibili. Ma l’ispirazione di Massi sembra più che altro il cinema americano, e non quello francese. Infatti, nel proseguo della storia, questi due passaggi apparentemente un po’ deboli, trovano la loro ragion d’essere. E si sa, nel poliziesco all’americana, la sceneggiatura deve essere di ferro: zero errori e tutto quello che si vede deve essere di utilità concreta allo sviluppo. Nella storia raccontata da Massi capiterà che uno dei passaggi cruciali per inasprire la contesa tra Jacovella e Maselli è l’uccisione di Nino Ragusa da parte del commissario, col giornalista addirittura presente in prima persona. 

Il coinvolgimento personale di Jacovella, la cui moglie testimone a processo era stata minacciata dagli uomini di Ragusa, è quindi usato strumentalmente dal giornalista per motivare la spietata ma in realtà inevitabile azione del commissario ai danni del mafioso. Un passaggio narrativo sopraffino, altroché. L’autostoppista serve invece per dare certamente un po’ di corpo al viaggio a Roma di Nino, fondamentale nell’economia della storia, ma anche per introdurre e mettere in risalto la pratica di chiedere passaggi, che probabilmente al tempo venivano facilmente concessi ma che non era ancora così ovvia e conosciuta da tutti. Questo permette, in seguito, di velocizzare un passaggio narrativo in cui Blasi e la fidanzata Nadia (Rosanna Fratello), in fuga dopo gli sviluppi della rapina, devono scantonare rapidamente. Quindi, lo stesso stratagemma narrativo, (il passaggio in autostop), è usato da Massi amplificando una parte di racconto in cui serve rallentare, dove viene inserito quasi gratuitamente, ma questo gli permette di sveltire la narrazione in seguito, quando deve accelerare, senza perdersi in passaggi puntualizzanti. Questo senza inficiare la comprensibilità del racconto: un'altra dimostrazione di ottima gestione della trama. 


Altri aspetti della sceneggiatura sono effettivamente ingenui, il ministro che scrive una lettera compromettente o la struttura esigua della cosca mafiosa, ma vanno ascritti ai limiti che il
poliziottesco ammetteva implicitamente con le sue semplificazioni strutturali. Si trattava di film che dovevano prevalentemente intrattenere e insistere sulle pastoie della burocrazia della società criminale, voleva dire rendere molto meno scorrevole il testo. Il finale, con la morte di Blasi, al quale Massi aveva concesso una bella fidanzata che le era rimasta vicino fino all’ultimo, sembra togliere ogni lieto fine alla storia. La romantica scenetta tra lui e Nadia era un piccolo intermezzo da fotoromanzo e proprio il Massi regista del Mark di Remo Gasparri, sembra dirci che, in un contesto realistico, non c’è posto per questo tipo di felicità. 

Ci dobbiamo accontentare della soddisfazione, certamente più prosaica di Jacovella che può finalmente incastrare Dante Ragusa. Mah, forse. Perché il carretto che passa nel finale è lo stesso che abbiamo visto ad inizio pellicola: la circolarità della struttura narrativa significa che
non è cambiato niente, siamo ancora al punto di partenza. In genere si usa fare questo tipo di considerazione in calce ai film che prestano chiusure che richiamano il proprio inizio. Per di più, il carretto all’inizio è in riva al mare, di giorno, mentre in chiusura è in città, immerso nel buio della notte, non certo un’immagine di gran prospettiva. Del resto, c’è un piccolo indizio, ma pesante come un macigno, che sembra dirci proprio che non potrà mai cambiare nulla, in questo paese. Nel film c’è un bambino, una figura che, al cinema (e non solo) rappresenta il futuro. Questo bambino ha come padre un commissario in lotta personale e professionale contro i mafiosi della città che si avvantaggiano dell’omertà diffusa, e come madre una donna che, il giorno prima, è stata quasi buttata in mare con la sua auto, per intimarle di non testimoniare al processo. Il bambino in questione deve andare a dormire, è tardi, ma non ne vuole sapere; Anna, la madre, gli ricorda che si è già addormentato una volta in classe e non è il caso di rischiare ancora. Il piccolo è stupito, non sapeva che la madre fosse a conoscenza dell’episodio e chiede come faccia a saperlo. Anna risponde che è stato il docente a dirglielo. Il commento del bambino è emblematico e sconfortante nel tono sprezzante usato, soprattutto tenendo conto della situazione prima descritta: “che spia!”


Antonella Lualdi


Rosanna Fratello



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