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sabato 10 settembre 2022

IL FIUME ROSSO

1098_IL FIUME ROSSO (Red River). Stati Uniti, 1948;  Regia di Howard Hawks.

Nel 1946 – anno in cui Howard Hawks girò Il Fiume Rosso, film che venne distribuito due anni dopo – John Ford aveva già cominciato quella Golden Age del genere western che avrà universale esplosione negli anni Cinquanta. Howard Hawks non era probabilmente un regista classico del livello di Ford, almeno non da un punto di vista strettamente tecnico. Era però un cineasta, nel senso più completo del termine, impareggiabile: la sua capacità ed esperienza come produttore gli dava infatti un deciso vantaggio in termini di lungimiranza nelle scelte. In pratica, grazie alla sua levatura artistica Ford aveva potuto anticipare l’avvento del periodo classico del western; con il suo acume professionale, Hawks aveva intuito dove sarebbe andato addirittura a parare il genere decenni dopo. E’ infatti difficile inquadrare Il Fiume Rosso in una delle correnti che hanno attraversato il western nel corso degli anni. Non che sia indispensabile, questo è chiaro, ma pochi generi come il western sono stati, nel tempo, adeguati dagli autori al periodo in cui uscivano i film, per rispondere, cinematograficamente, alle diverse esigenze contingenti. Per cui, abitualmente, capire a quale corrente può essere ascritto un film può semplificare il compito di comprenderne il senso. Da un punto di vista formale, Il Fiume Rosso è un classico: a cominciare dal forte bianco e nero di Russell Harlan, eredità di quegli anni Quaranta del resto non ancora conclusi; questo sebbene il periodo aureo del genere sarà caratterizzato dal colore. E poi la splendida e suggestiva musica di Dimitri Tiomkin, tra cui l’indimenticabile brano Settle Down, unita alla presenza di un John Wayne già monumentale sullo schermo, sono elementi classici senza alcun dubbio. 

Eppure, se ci atteniamo al canovaccio che segue Hawks nella sua storia, ufficialmente tratta da un soggetto di Borden Chase, si può notare come tutto proceda troppo in fretta rispetto ai canoni. Tom Dudson (John Wayne), insieme al fido Nadine Groot (Walter Brennan) e un singolo capo di bestiame decide di andare ad ovest, nel Texas. Lungo la strada, i due raccolgono un orfano, Math Garth (in seguito, una volta adulto, interpretato da Montgomery Clift), che si accompagna ad una vacca, gli unici superstiti di una scorreria indiana. Arrivato a destinazione, Tom, insieme al vecchio, al ragazzo e ai due bovini, fonda il suo allevamento, che in capo ad una decina d’anni conta un numero sterminato di bestie. Nel frattempo, l’uomo non si pone problemi ad eliminare chi gli si pari d’innanzi reclamando la proprietà della terra, siano essi gli indiani o i messicani. 

Ecco, questo, sostanzialmente, potrebbe essere il plot di un western classico: in realtà ne Il Fiume Rosso è la semplice premessa narrativa perché la parte sostanziosa deve ancora arrivare. Non prima di una pausa temporale che il racconto si prende, nella quale Math se n’è andato in giro a farsi un po’ di esperienze. Ma, il giovane ritorna in tempo per partecipare alla corposa parte narrativa davvero saliente de Il Fiume Rosso: il viaggio per portare l’enorme mandria a est per essere venduta. Già questo fatto è un indizio della modernità del film di Hawks, perché il tema tipico dei western era l’odissea verso ovest mentre qui il momento cruciale avviene quando i protagonisti vanno in direzione contraria. Le difficoltà tipiche del west ci sono anche ne Il Fiume Rosso, sia chiaro, i luoghi desolati e selvaggi, la bellicosità degli indiani, il vacillare della fedeltà agli impegni degli uomini a fronte delle difficoltà, la mancanza della Legge, ma sono tutti messi in secondo piano da un problema subentrato in un secondo momento: la capitalizzazione dei profitti. In fondo tutto nasce da lì: se in tre uomini e due bestie i nostri erano sopravvissuti, era ben difficile che la sparuta comunità non avrebbe potuto farlo con la disponibilità dell’intera ed enorme mandria. Ma per far fruttare adeguatamente il lavoro svolto, leggi guadagnare, per renderla così grande, la mandria andava venduta e da questa esigenza nascono i pretesti per il viaggio di Dudson verso est. Il west è stato vinto – nel film, le sette croci mostrano simbolicamente come – e ora è il momento di gestire la posta guadagnata. 

E’ quindi un tema decisamente posteriore ai classici argomenti dei western del periodo, come detto non erano ancora gli anni Cinquanta; piuttosto perfettamente adatto ad una corrente successiva come il western crepuscolare. Infatti Wayne, nella seconda parte del film, dopo la citata pausa narrativa, appare invecchiato, ingrigito nei capelli e assai più duro e incarognito nel carattere. Qui Hawks innesta un altro elemento che diverrà tipico solo nelle evoluzioni successive del genere: il giovane con mentalità più aperta e moderna che si scontra con un ambiente tradizionalista e brutale come quello del west. Il regista, che come detto è un cineasta a 360°, utilizza elementi anche fuori dallo schermo, per enfatizzare il suo lavoro: per fronteggiare il personaggio di Wayne, che incarna in tutto e per tutto l’old wild west, viene infatti preso Montgomery Clift. Clift era al suo esordio cinematografico, il che alimentava la differenza con un attore navigato come il Duca, inoltre c’erano almeno altre due diversità che sembravano inconciliabili tra i due attori. La prima era evidente: Wayne era un marcantonio alto e grosso mentre Monty non arrivava all’uno e ottanta. L’altra era di natura più tecnica: il Duca non era considerato questo grande attore e proprio per Il Fiume Rosso John Ford, che aveva diretto Wayne tantissime volte, ebbe a dire: “non avrei mai creduto che quel gran figlio di puttana potesse recitare”. Naturalmente il patriarca del western, da buon istrione, era provocatorio, ma il senso della sparata è che Wayne abitualmente era usato sullo schermo per la sua presenza scenica e non gli si chiedeva più di quanto non gli venisse naturale fare. Il che lo rendeva già un grande interprete, all’interno di determinate situazioni, sia chiaro. 

E non è che Hawks chiese chissà che a Wayne se non di interpretare il suo tipico ruolo però invecchiato: il che comportava che l’attore dovesse appunto recitare la parte del cowboy con qualche anno di troppo. Il Duca se la cavò egregiamente, in fondo era una cosa perfettamente nelle sue corde ma la differenza con lo stile recitativo di stampo teatrale di Clift era notevole. Montgomery al tempo era stato una star di Broadway – solo in seguito avrebbe frequentato l’Actors Studio di New York – in ogni caso la sua recitazione era molto più sentita, rispetto a quella di Wayne che, come detto, praticamente non recitava. A questi elementi va aggiunto lo scetticismo di Wayne, che non credeva inizialmente in Clift – soprattutto non riusciva a figurarsi di fare a pugni con un simile mingherlino – oltre ad una sintonia tra i due mai scoppiata veramente. 

Eppure lo stesso Wayne dovette ammettere che Monty era bravo, lavorava sodo e sullo schermo sapeva il fatto suo: infatti la combinazione dei due, per quanto apparentemente mal assortita, funzionò egregiamente. Cosa che c’è da scommettere Hawks sapesse già in anticipo. Questo contrasto, che era anche generazionale, serviva principalmente per denunciare i limiti della filosofia del vecchio west: in effetti l’acme del racconto è raggiunto quando Math impedisce a Tom di impiccare i cowboys che avevano abbandonato la mandria, così come precedentemente gli aveva impedito di uccidere il responsabile dello stampede. Per Tom è uno smacco difficile da accettare, il proprio figlioccio che contesta la sua autorità, e quando questi gli sottrae la mandria per portarla ad Abilene seguendo una scelta più ragionevole rispetto alla destinazione prevista, il contrasto sembra divenire insanabile. Tom minaccia addirittura di uccidere Math e, in effetti, se non ci fosse l’intromissione nella storia di Tess (Joanne Dru) difficilmente non avrebbe mantenuto l’impegno. Forse per via della lunghezza del soggetto, che ha tutti questi passaggi che poi sullo schermo vanno resi e Hawks lo fa senza dubbio con efficacia, tuttavia si ha un po’ l’impressione che al personaggio femminile della storia rimanga uno spazio troppo esiguo. Tra l’altro, Joanne Dru era perfetta come ragazza dei western – come dimostrerà la sua carriera – perché aveva un viso di una tale bellezza radiosa che le bastavano pochi ritagli per incendiare la storia. Naturalmente il primo ad accorgersene fu proprio Hawks; ma è solo un dettaglio trascurabile della lungimiranza di un autore che, mentre anticipava la golden age del western, già ne mostrava il tramonto.  






Joanne Dru




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