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venerdì 9 settembre 2022

ATLANTIS

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1097_ATLANTIS (Atlantyda)Ucraina, 2019;  Regia di Valentyn Vasyanovych.

La genialità è soprattutto una questione di tempistica. Un vero genio non è colui che si immagina qualcosa di impossibile; di quello, con un po’ di fantasia, siamo capaci tutti. Il vero genio è colui riesce a cogliere quegli elementi, già a disposizione di chiunque, e li plasma in qualcosa di nuovo e che, a quel punto, sarà quasi naturale (per non dire ovvio) per tutti quanti, dal momento che si basa su presupposti condivisi. Valentyn Vasyanovych è, evidentemente, un genio. Perché con il suo Atlantis, nome che evoca il continente perduto dei racconti di fantascienza, arriva a dirci che l’attesa è finita, siamo nel futuro. E non è per niente piacevole (e lo si capisce già dal titolo, visto che il mito di Atlantide non è una faccenda a lieto fine). Atlantis è una storia (?) ambientata in un futuro molto prossimo, quando la guerra in Ucraina è terminata: in un certo senso, a vederlo oggi, si può leggere la cosa come ottimistica, per la verità. Tuttavia, nel 2019, quando uscì il film di Vasyanovych (premio Orizzonti per il miglior film alla Mostra di Venezia dello stesso anno) era lecito ritenere che la Guerra del Donbass, che già di per sé era una catastrofe, non deflagrasse su larga scala (e quanto larga ancora non si sa) come poi è tragicamente successo. Non è però nello sviluppo geopolitico o bellico che è incentrato il film di Vasyanovych; del resto tecnicamente il film potrebbe davvero essere considerato fantascienza post-apocalittica. Ma si tratta di un falso movimento temporale, perché il lieve scostamento nel futuro è del tutto fittizio, pretestuoso: quello che vediamo è già il presente, senza bisogno alcuno di applicare metafore o similitudini. 

Un futuro già scritto e inseguito con perversa costanza dall’umanità, che ha cercato in tutti questi decenni di distruggere il proprio ambiente e, in questo, la guerra, l’evento comunque peggiore in assoluto, è peraltro semplicemente un acceleratore. La distruzione che reca rende le macerie impossibili da smaltire in modo ottimale ma i prodotti della civiltà sono perlopiù inquinanti e non riciclabili: di fondo il problema esiste, con la guerra manca la possibilità di fingere di essere in grado di gestirlo. Le grandi fabbriche siderurgiche, che sono uno dei teatri privilegiati dal film, sono autentiche calamità ecologiche anche in tempo di pace; una guerra non migliora certo le cose, ma lo sfruttamento indiscriminato del territorio da parte di questi giganti d’acciaio è, in buona sostanza, un’aggressione umana a madre natura. Una guerra, combattuta senza esclusione di colpi, in un’area già così pesantemente sfruttata dalla siderurgia come è l’Ucraina (ma il discorso vale per tutto quanto il mondo industrializzato) rende l’ambiente inospitale esattamente come nei film fantascientifici più pessimisti. Questo, però, è solo l’ambientazione di Atlantis: perché il film di Vasyanovych mette al centro, o meglio cerca se ancora esiste, l’umanità; posto che possa ancora essere trovata in un simile panorama. E per farlo ricorre ad un espediente tecnologico, del resto l’abbiamo detto che Atlantis è un film di fantascienza. 

Il film si apre, infatti, con le riprese di una telecamera termica: una scena di guerra, lo si intuisce, in cui alcuni soldati seppelliscono un nemico in una grezza buca, non prima di essersi assicurati che sia morto a colpi di pala sulla testa. Come dire: non basta nemmeno la tecnologia per scovare un briciolo di umanità. In realtà, nel finale, la ripresa agli infrarossi ritornerà proprio quando il protagonista, Serhij (AndriJ Rymaruk) ritroverà un minimo di intimità con Katja (Ljudmyla Bileka): una pseudo struttura circolare del racconto, a testimoniare la fatica ad uscire dall’impasse, ma da cui è possibile evolversi. A patto di smettere di restare ancorati agli stessi schemi mentali, scambiando unicamente posto ai bersagli per ingannare la noia. Il rischio, continuando a vivere come soldati anche a guerra finita, andando a sparare a sagome di ferro ora in un ordine, ora nell’altro, ora con il compagno che ti ostacola, è che ci si finisca per sparare l’un l’altro. 

Metafora efficacissima della guerra e dei suoi perché, al netto dei tanti pretestuosi motivi scatenanti. Serhij, nella concitazione dell’esercitazione, spara direttamente a Ivan (Vasyl’ Antonjak); va beh, c’è il giubbotto antiproiettile. Ma fa comunque un male cane. E non è un bel gesto. Chissà, forse anche questo, vedere il tuo amico che ti spara al culmine di un’esercitazione un po’ troppo esasperata, ha segnato Ivan. Il ragazzo, il più debole, sotto ogni aspetto, dei due, voleva infatti andare a fare il sicario da qualche parte, per risolvere i problemi con l’unico sistema che conosceva. Ma quel passaggio era stato anche più chiaro delle perplesse parole dell’amico Serhij a proposito: ancora morte, non ne aveva la nausea? 

Quello stesso amico che, quasi a beffarda conferma, in un eccesso di adrenalina, gli aveva sparato contro. La guerra non era la soluzione di una vita disumanizzata lavorando negli alti forni: non c’erano vie di uscita. Anche perché, a questo punto, a guerra finita, i nuovi proprietari, che non a caso parlavano inglese, la lingua ufficiale del mondo occidentale, intendevano chiudere le fabbriche e lasciare a casa gli operai: i quali potevano sempre sfruttare le tante opportunità che il futuro riservava loro. Un refrain falso e colmo di malcelato scherno sentito troppe volte anche nella nostra vita quotidiana: sotto questo profilo, se questo è il futuro, siamo già abbondantemente preparati. Ma l’estremo gesto di Ivan, magistralmente inscenato da Vasyanovych, scuote profondamente Serhij: il passaggio al ferro da stiro ne è l’emblema mentre il regista smorza con il più macabro umorismo la liturgia comunque potente del funerale siderurgico che viene riservato al povero ragazzo. 

In queste scene, come anche in quelle dei nuovi proprietari occidentali alla festa per la chiusura della fabbrica (!), strepitose nell’interpretare la fantascienza in chiave d’attualità, Vasyanovych vince a mani basse la sua partita cinematografica. Ma, come detto, l’autore ucraino, seppure non sia un narratore che si affidi ad un ritmo trainante o a momenti di maniera per alleggerire la narrazione, ha un suo modo per equilibrare la desolazione disperata della sua storia. 


Il bagno di Serhij nella benna di un escavatore, nel nulla del panorama distrutto dalla guerra, con il fuoco acceso sotto al metallo per scaldare l’acqua, è un piacevole intermezzo che al contempo alimenta la voglia di quotidianità dell’uomo in modo più efficace rispetto alla visita al suo vecchio appartamento. La chiave per la riuscita in questo proposito sarà naturalmente Katja. Ma attenzione, perché Vasyanovych non è mai scontato, nemmeno quando parla del sentimento basilare che tutti conosciamo, l’amore. Serhij, nella storia, soccorre due ragazze (dimostrandosi quindi vero cavaliere): di Katja si è detto ma ben più importante è il salvataggio riservato ad una ragazza straniera, finita con l’auto su una mina e a rischio di andare arrosto se non fosse intervenuto in nostro aitante giovanotto. Colma di gratitudine, la fanciulla, una volta rimessasi, offre a Serhij la possibilità di un impiego nella sua organizzazione, che opera anche in aree meno disperate e senza futuro rispetto all’Ucraina. La terra è inquinata, l’acqua non sarà potabile per anni, mine disseminate ovunque: se una ragazza ti offre un’alternativa altrove, è certamente appetibile. Ma, in fondo, sarebbe una scelta in linea con quelle fatte finora e che ci hanno portati in questa situazione. E non ci sarebbe comunque futuro. Piuttosto, quello che c’è da fare è cominciare a ritrovare noi stessi, la nostra umanità. E la nostra umanità si trova proprio dove l’abbiamo persa, uccidendo il prossimo senza alcun motivo valido, come succede in guerra. In guerra, più che in ogni altro luogo, ma non solo; la guerra è solo l’acceleratore, la summa negativa, della nostra quotidianità. Una realtà in cui non c’è alcun rispetto, nemmeno per i morti; come nella scena agli infrarossi, quella citata che apre il film. E allora l’unica soluzione che rimane a Serhij è aiutare Katja, un’archeologa, una che guarda al passato, che fa volontariato cercando di dare un nome e una sepoltura dignitosa ai tanti morti che disseminano l’ex campo di battaglia che è diventata l’Ucraina. E’ nel passato, e non nel futuro, in questo futuro, la nostra salvezza. E’ in quello cha abbiamo fatto, nei morti che abbiamo ammazzato o lasciato ammazzare che dobbiamo cercare quello che abbiamo perso. E lo potremo trovare proprio nel cadavere putrefatto e mummificato di un ignoto nemico, abbandonato e magari volutamente nascosto senza alcun riguardo, nell’indifferenza generale.
La morte è, infatti, più umana di quello in cui abbiamo trasformato la vita. 











 
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