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venerdì 5 aprile 2024

LA CAROVANA DEI MORMONI

1463_LA CAROVANA DEI MORMONI (Wagon Master). Stati Uniti 1950; Regia di John Ford.

L’assenza di una star di prima grandezza come John Wayne o James Stewart, ha spesso relegato La carovana dei mormoni tra le opere minori, all’interno della filmografia di un maestro del calibro di John Ford. Niente di più sbagliato. Wagon master –questo il titolo originale– è un film in effetti più concettuale che spettacolare, rispetto ad altre produzioni del regista di origine irlandese. Questo perché La carovana dei mormoni può essere anche interpretato come una sorta di ricetta per la futura nazione americana. Si prenda come base una comunità di persone morigerate e timorate di Dio (i mormoni della carovana); aggiungere un pizzico di determinazione e spigliatezza, anche nelle situazioni ove la violenza non possa essere evitata (la coppia Travis/ Ben Johnson e  Sandy/Harry Carey Jr); mettete un poco di arte o artifizio, (la compagnia del Dottor A. Locksley Hall/Alan Mowbray), un goccio di disinibizione sessuale (la deliziosa Denver/Joanne Dru), agitate, mescolate e infine spurgate il tutto dalla violenza brutale della banda Clegg. Rimane da chiarire la funzione degli indiani, che nel film fanno la loro comparsa, ma il cui ruolo è più sfumato. In un film dello stesso Ford che presenta alcune analogie con La carovana dei mormoni come Ombre rosse (1939), gli indiani –gli Apaches di Geronimo– avevano la mera simbolica funzione di ostacolo verso la «terra promessa». Analogamente al classico del 1939, in Wagon master, un film incentrato sull’altro tipico convoglio western, la «carovana» in luogo della «diligenza», un gruppo di persone eterogenee tra loro deve compiere un viaggio attraverso le insidie per giungere a destinazione, in questo caso una «terra promessa» nel senso letterale del termine. Gli indiani che gli si parano d’innanzi, sul momento con fare un po’ minaccioso, sono però Navajo, una tribù storicamente meno bellicosa degli Apaches. In effetti, nel confronto che avviene durante il dialogo tra gli esponenti dei due gruppi –Elder (Ward Bond) il capo-carovana dei mormoni, accompagnato da Travis e Sandy a rapporto dai pellerossa– emerge che i bianchi siano sgraditi sulle terre navajo in quanto ladri. In compenso i mormoni sono accettati dal momento che sono semplici ladruncoli; per chiudere la riunione, il capo indiano sembra riconoscere in Travis, che è un disinvolto commerciante di cavalli, il mercante che lo aveva precedentemente imbrogliato. In ogni caso, i coloni vengono infine invitati al campo indiano, e nessuno sostanzialmente obietta sulle accuse ricevute dal capo navajo: narrativamente è una scelta più che opportuna, è ovvio, ma intanto le parole rimangono chiare e nette su chi sia il meno onesto tra i due gruppi etnici.    

Il film è posto su queste basi e fila nel solco lasciato dai carri, con l’abile mano di Ford che rispetto ad altre volte, è forse più «visibile»: l’incipit espressionista –la scena della rapina della banda Clegg– sembra quasi appartenere ad un altro film, anche come «resa» della pellicola, e rimane estraneo alla vicenda raccontata giusto il tempo di farsi una domanda in proposito. Il successivo ritorno sullo schermo della banda Clegg, è sottolineato in modo marcato dal regista: la musica si arresta, cambia la luce, si passa dai campi lunghi della festa del bivacco a minacciosi primi piani, sembra di essere tornati al film iniziale.
A parte la questione dei banditi, il resto della struttura del racconto è lineare, si tratta di un viaggio da un punto all’altro, ed è rimarcata da alcune scene, come la salita dei carri lungo una mesa della Monument Valley: i «conestoga», i tipici carri coperti con un telo bianco sorretto da archi, sono allineati lungo il pendio, oltre al quale c’è la valle promessa. In effetti la vera meta non viene mostrata, alla fine, forse ad intendere che si tratta di un ideale da inseguire, per giungere al quale bisogna superare le prove che si incontrano sul cammino. Prove che, nel film, sono mostrate con ostacoli concreti, come un fiume da guadare o l’incontro con gli indiani, oppure simboliche: i mormoni sono una comunità fondamentalmente pacifica, ma hanno alcuni «nodi» da sciogliere. Il rifiuto tout-court alla violenza è poco saggio, in qualche occasione è necessario farvi ricorso, ad esempio se capita di incontrare brutta gente come i Clegg. Dal punto di vista sessuale, poi, i mormoni sono una comunità repressa: la cosa è ben mostrata quando la carovana incontra il carro del dottor Locksey Hall, con le due donne. L’atteggiamento nei loro confronti da parte dei mormoni è ben poco caritatevole e non può che nascondere qualche questione irrisolta: accettando nelle loro fila, come viene mostrato dal finale, il duo Travis e Sandy e al contempo Denver, la ragazza dai facili costumi, la comunità raggiunge un miglior equilibrio e può quindi ambire concretamente alla terra promessa.

La carovana dei mormoni può essere quindi inteso come film ottimista nell’ottica di John Ford: è vero che la «terra promessa» non venga mai mostrata, ma si capisce che il finale sia ormai positivo, dopo l’ultimo ostacolo superato e con l’eliminazione dei Clegg da parte di Travis e Sandy. C’è un attimo in cui si ha il timore che il ricorso alla violenza da parte della coppia di amici sia pregiudiziale, per l’ottimistico finale: Elder rimprovera Travis, dicendogli che, al contrario di quanto aveva detto in avvio, aveva sparato a degli uomini. In effetti, prima di accettare l’idea di ingaggiare i due cowboy, i mormoni si erano assicurati che questi non fossero degli assassini, considerato le pistole che pendevano dai loro fianchi. Travis, rispolvera la risposta che aveva dato all’inizio “sparo solo agli sciacalli”, tali erano infatti da considerare i Clegg. La questione è quindi risolta e Ford, per celebrare il lieto fine, non si preoccupa di mostrarci la carovana giungere all’agognata meta, ma insiste sulle scene di viaggio: un modo per dire che è più importante l’inseguimento di un sogno piuttosto che l’obiettivo del sogno stesso. Il citato paragone con Ombre rosse –rimarcato anche dall’abbigliamento di Travis, camicia nera e bretelle chiare, che ricorda il Ringo interpretato da John Wayne, oppure il nome preso da una città, qui Denver, nel precedente Dallas, per la ragazza dal passato equivoco protagonista– sancisce lo sguardo ottimista di Ford, in questa occasione. Se Ringo e Dallas riparavano in Messico, in Ombre rosse, qui il regista lascia esplicitamente intendere una vita della coppia di giovani all’interno della comunità. 

Li vediamo alla guida di un carro, lui che ha rinunciato a cavalcare il suo destriero, lei con un abito più «a modo» del suo solito sensuale guardaroba.
I passaggi musicali, come sempre in Ford, sono fondamentali per la riuscita dell’opera: le canzoni di Stan Jones sono evocative e funzionali, e vanno anche sottolineati i balli, momenti cruciali del racconto. Il primo dei quali arriva quasi a metà film e, a quel punto, l’irruzione della banda Clegg è sorprendente, perché dopo la rapina in apertura il racconto sembrava esserseli dimenticati. La carovana aveva appena superato il deserto e il momento danzante voleva appunto celebrare lo scampato pericolo: in realtà ne introduce uno ben peggiore, con i Clegg che decidono di aggregarsi. 
L’arrivo sulla scena dei Navajo introduce un altro elemento di disturbo per la severa quiete dei mormoni: la scena della danza indiana è subìta con sofferenza dalla comunità. I bambini guardano tra l’incuriosito e lo spaventato, le donne sono accigliate, strette le une alle altre nell’inquadratura e hanno sguardi persino più truci dei loro severi mariti. Gli unici che sembrano reggere senza difficoltà il momento sono Travis, Clegg, Denver, che pensa a farsi bella prima di presentarsi, e anche la giunonica Sorella Ledyard (Jane Darwell), personaggio bonariamente macchiettistico che suona il corno per sancire i momenti topici della giornata.


È un passaggio importante, questo della danza indiana, perché è qui che si consuma lo strappo tra i mormoni e i Clegg: fino a quel punto, in nome della professata «non violenza», la comunità aveva sopportato senza reagire le angherie dei banditi. Gli indiani, che sono una comunità più equilibrata di quella mormone, introducono una sorta di peccato originale, con uno dei figli dei Clegg che abusa di una ragazza indigena. I Navajo non fanno deroghe e pretendono che i bianchi puniscano chi tra loro ha compiuto un reato: è interessante e importante notare come, da un punto di vista narrativo, gli indiani non provvedano, come tante altre volte si è visto al cinema, a farsi giustizia da soli. Il punto è che, come comunità funzionante, pretendano dalla controparte bianca la stessa funzionalità: il che mette i mormoni spalle al muro. I mormoni devono giocoforza ammettere una lacuna nelle loro credenze, e rinunciare alla non violenza assoluta: il bandito viene pesantemente frustato. Naturalmente i Clegg non digeriscono la cosa e zio Shiloh (Charles Kemper), il patriarca, se la lega al dito e promette vendetta, cosa che permetterà, poco prima del finale, di chiudere definitivamente il conto. A quel punto, con i violenti messi al tappeto e la comunità meglio equilibrata con l’integrazione di Travis, Sandy e Denver, c’è tempo per un ultimo ballo che celebri a dovere il lieto fine.
Alla faccia del film minore.



Joanne Dru





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