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giovedì 8 settembre 2022

THIS RAIN WILL NEVER STOP

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1096_THIS RAIN WILL NEVER STOP (No obvious signs)Ucraina, Lettonia, Germania, Qatar 2020;  Regia di Alina Gorlova.

In fondo ci fanno accomodare su una poltrona e poi spengono anche le luci. Magari, per vedere il film, per vedere quel determinato film, si è dovuto fare anche un piccolo viaggio; ad esempio se il film in questione non gode poi di questa grande distribuzione. E quindi avremmo anche la scusa di un po’ di stanchezza. Perché - sia chiarissimo, non certo per questione di noia, tutt’altro - ma guardando This rain will never stop può venire più di un dubbio di essere alle prese con un sogno. Un sogno fantastico. Ma non nel senso di qualcosa di gradevole per grazia e bellezza. No. Qualcosa di potente, meraviglioso, terribile, spaventoso, angosciante, commovente: mostruoso, nella sua accezione più autentica. Vivo. Un sogno e un incubo, allo stesso tempo; come un po’ lo sono tutti i sogni. Ma non il sogno di un uomo. Il sogno di un alieno. Di qualcuno connesso artificialmente a cui, ogni tanto, ad ogni capitolo, gli si dia una piccola scossa, un glitch, per riportarlo… dove? Sulla Terra? E’ la Terra, quella che vediamo in This rain will never stop? Alina Gorlova voleva, probabilmente, creare un effetto spaesamento, mostrando le terre desertiche del Donbass con musiche arabe e suoni elettro-industriali, ma il suo talento è andato ben oltre i suoi intenti. Il pianeta mostrato dalla Gorlova, in un allucinante, spettrale, spaziale e meraviglioso, bianco e nero firmato da Vyacheslav Tsvetkov, non sembra proprio il posto ospitale che conosciamo. E poi, l’acqua, ma diamine l’acqua, e mica solo al cinema, non è il simbolo della vita? L’acqua che irrompe, inonda, ruggisce in This rain will never stop riempendo ogni angolo del grande schermo è minacciosa, spaventosa. 

Qualcosa di cui avere terrore. Quando è in scena, è un vero e proprio incubo. E, anche nei frammenti narrativi, non ha un ruolo amichevole: è l’acqua del Tigri che sommerge il ponte (“intoppato dalla spazzatura”: ma allora è davvero la Terra!) e impedisce al protagonista del documentario di tornare in Siria. Troncando la sua speranza di riabbracciare la terra d’origine. Perché c’è una storia, in This rain will never stop, che si staglia in contrasto con le scene d’ambientazione che, per toglierci eventuali dubbi che si possa davvero essere in un film di fantascienza su qualche pianeta alieno, ricorrono a mostrarci qualcosa di inequivocabilmente umano. Tipo una fabbrica di carri armati nel Donbass, un’impressionante parata militare o una baraccopoli che dovrebbe ridarci lo spirito del tipico villaggio siriano. 

In ogni caso, Andriy Suleiman è un ragazzo fuggito dalla Siria per via della guerra: ma è un siriano atipico, sua madre è ucraina, del Donbass, suo padre curdo. Siria e Donbass sono, per così dire, unite dalla guerra; ai Curdi va anche peggio, visto che, al momento, un luogo per cui combattere è solo ipotetico e sono perseguitati nei tre paesi in cui vivono. Non a caso Andriy, rifugiatosi in Ucraina, lavora per la Croce Rossa, che è un’organizzazione internazionale e non rappresenta alcun paese nello specifico. Come detto, nel 2014 la guerra è però arrivata anche nel Donbass e il ragazzo cerca di ripagare l’aiuto ricevuto al tempo impegnandosi come volontario. Ma le videochiamate con i genitori, nonostante siano disturbate ed interrotte, risvegliano in lui la voglia di tornare tra la sua gente, con i propri famigliari, nella propria patria. 

La Siria, come detto, gli è preclusa (dall’inondazione del Tigri) e la famiglia è scossa da un lutto tremendo, la morte del padre di Andriy. Se il documentario funziona costantemente sul doppio binario, bianco vs nero, militari ucraini in parata vs manifestazioni pacifiche in Germania, terre desolate desertiche vs acqua ribollente di schiuma, popoli senza patria vs famiglie disgregate, nazioni in guerra vs famiglie in lutto, in alcuni di questi binomi manca l’elemento positivo. Un po’ come diceva il maestro Fritz Lang parlando delle sue storie: qui non ci sono buoni vs cattivi ma cattivi vs più cattivi. Non a caso, per ricominciare una nuova vita in un nuovo paese, la Germania, la parola su cui ci si sofferma è krieg (guerra). Il che non è per niente benaugurante; del resto, anche la numerazione dei capitoli, che ritorna allo zero, suggerisce che stiamo sempre da capo. Prima, guerra in Siria, poi guerra in Ucraina. E ora, in Germania? L’affascinante e traumatizzante sogno a occhi aperti di Alina Gorlova è finito. Ma, una volta fuori dal cinema, ci assale un dubbio. E se invece ci fossimo dentro in pieno?







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