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lunedì 12 settembre 2022

IL PASTO NUDO

1100_IL PASTO NUDO (Naked Lunch). Canada, Regno Unito, Giappone 1991;  Regia di David Cronenberg.

Secondo lo scrittore William Burroughs, il pasto nudo è “l’attimo congelato in cui ognuno vede cosa c’è sulla punta della forchetta”. Una frase enigmatica, certo, ma del resto parliamo di uno scrittore che non è che avesse la prosa più semplice e lineare tra i letterati. In ogni caso, se vogliamo cogliere un possibile senso alla definizione del suo romanzo più celebre – poi adattato al cinema da David Cronenberg – forse l’attimo congelato in questione è quello in cui si rivela, a tutti, non solo all’individuo dell’immagine metaforica, qualcosa che fino a quel momento ci era rimasto nascosto. Nel piatto. D’accordo, d’accordo, suona un po’ forzata ma facciamo conto che ci siano vari elementi che compongano la pietanza e forse qualcosa può rimanere nascosto alla nostra vista: quando lo si infilza sulla forchetta, e lo si porta allo scoperto, a quel punto tutti possono vederlo. E’ un attimo, poi finirà nella bocca. Suona un po’ sinistro, è vero; è la versione oscura dell’attimo fuggente, è il pasto nudo. Eppure è qualcosa che dovremmo ben sapere, dal momento che ce l’abbiamo nel piatto; ma allora forse cerchiamo volontariamente di ignorarla, magari perché ci disgusta. E dovremo addirittura mangiarla. E’ l’omosessualità per William Burroughs. Scrive, infatti, il suo alter ego Bill Lee (uno stratosferico Peter Weller) nel film di Cronenberg: “non dimenticherò mai l’indicibile orrore che mi fece gelare il sangue nelle vene, quando la malefica parola inaridì il mio cervello vacillante”. Sul foglio della macchina per scrivere rimangono impresse solo queste parole: manca proprio la malefica parola, manca quello che c’è sulla punta della forchetta. Il pasto nudo, il momento congelato, Lee non lo mette, forse non lo può mettere su carta, ma lo aveva detto poco prima a Yves Cloquet (Julian Sands) completando la frase riportata poco sopra con la fatidica conclusione: “ero un omosessuale”. Ecco, forse tutta quanta l’arte di Burroughs, i suoi viaggi psichedelici, i suoi deliri onirici, i suoi trip stupefacenti – anche nel senso di drogati – gli erano necessari per arrivare a questa ammissione. Ma, siamo sempre nel campo delle ipotesi, la vera essenza di questa conclusione non era completa, non era davvero congelato, quell’attimo, o forse era possibile un ulteriore definizione in tal senso, un ulteriore refrigerazione. Perché l’uomo che osserva la sua forchetta ne ha una visione soggettiva o forse è troppo parte in causa di quello che c’è nel piatto. E, nel caso di Burroughs, abbiamo visto quanto la questione della sua omosessualità lo turbasse. In alcune recensioni del film Il Pasto Nudo, a suo tempo, si lesse che il tema omosessuale era meno presente, sulla pellicola rispetto al romanzo. 

Il che potrebbe essere vero in termini quantitativi ma si rischia di far passare l’argomento in secondo piano quando invece è comunque quello centrale. La posizione di Cronenberg rispetto all’omosessualità è diversa da quella di Borroughs e la possiamo prendere sempre dalle parole di Lee, che è l’alter ego dell’uno ma contemporaneamente anche dell’altro. Alla domanda diretta di Kiki (Joseph Scoren) se fosse gay (“sei una checca?”) Lee, risponde “no, per istinto no”. Per istinto. Perché, poi, pare soppesare la cosa. Ecco, Cronenberg, a differenza di quasi l’intera umanità a fronte della questione omosessuale, non si scalda più di tanto; anzi, sembra quasi divenire più riflessivo. Secondo qualche teoria, le tendenze omosessuali sarebbero assai più diffuse di quanto si creda; per fronteggiare queste tendenze, che sono quindi naturali, la civiltà umana ha sviluppato culture che le combattono ferocemente, con la discriminazione e via dicendo. 

Se tenessimo buona la legge della Fisica secondo la quale ad ogni forza ne corrisponde una uguale e contraria, considerato il livello di queste discriminazioni, dobbiamo ritenere l’omosessualità largamente diffusa; in modo e intensità diversi da caso e caso, evidentemente. Questa chiave di lettura darebbe tra l’altro una motivazione razionale alla spropositata reazione aggressiva che moltissime persone hanno nei confronti degli omosessuali. Lo stesso Lee-Burroughs, per tornare al nostro caso, dimostra di aver subito negativamente le convenzioni sociali nel merito; ad esempio, nella vita dello scrittore la facoltosa famiglia lo spedì lontano per evitarsi scomodi imbarazzi che un figlio omosessuale causava. 

Ecco, Cronenberg, di fronte alla questione omosessuale, non reagisce, piuttosto si pone una domanda. Ma se l’attrazione verso l’altro sesso ha una motivazione naturale che la spiega – la prosecuzione della specie – cosa determina l’attrazione omosessuale? E qui che ne rimane incuriosito, intrigato, sedotto. Perché qualcosa che, in un certo senso, ripugna, può anche attrarre? Per questo l’omosessualità è presente nel cinema del canadese sin dall’inizio, sin dai primi lungometraggi sperimentali Stereo e Crimes of the future, dove il protagonista era Ronald Mlodzik, noto esponente della scena gay canadese. Ma, a differenza di Burroughs, Cronenberg non è così turbato da queste cose e quindi la sua capacità di raggelare l’attimo è più distaccata, più analitica e, in definitiva, forse per questo anche migliore: se la propria omosessualità era il pasto nudo di Burroughs, l’opera e la vita dello scrittore sono Il Pasto Nudo del regista. Questo non significa che William Burroughs e David Cronenberg siano del tutto simili; al contrario, il regista canadese nella vita civile era ed è un borghese modello e distante anni luce dagli estremi dello scrittore, che si drogava e che era arrivato ad uccidere la moglie per gioco – situazioni poi riprese nel film. Ma gli eccessi di Burroughs, se semplicemente incuriosivano Cronenberg sul momento, poi, proprio come Lee nel passaggio citato, lo portavano a ponderare meglio la cosa, a lasciarsi trasportare, a scavare sotto la rigida educazione canadese per trovare nel profondo del proprio animo delle assonanze con le esperienze estreme dello scrittore. 


Questo è il cuore del lavoro del Cronenberg artista: dire quello che sembra scomodo, portare in luce quello che è sepolto. E Burroughs, tutto Burroughs e non solo il suo delirante testo, era forse l’aiuto più adatto. Per questo il film riprende molti elementi della vita reale dello scrittore americano e li mischia con il romanzo e anche con altri testi, come lo spiazzante incipit preso dal racconto Sterminatore!, dove il protagonista è un addetto alla disinfestazione di scarafaggi. Ma non si tratta di vincere il premio a chi ha mostrato quello che non era stato ancora mostrato, filmato quello che non era filmabile – che era la nomea, tra l’altro, che accompagnava il romanzo Il pasto nudo e la prosa di Burroughs in generale. 

La questione è: se qualcosa ci provoca una forte reazione deve avere delle motivazioni. Ovvio, se la reazione è positiva, sarà facile comprenderle. Ma se la reazione è negativa, non sempre è così semplice leggerne le motivazioni. Se l’omosessualità ci disturba tanto, eppure forse ne portiamo tutti in dote qualcosa, cosa dobbiamo pensare della mostruosità? Ad esempio quella esibita in Il Pasto Nudo: perché la troviamo tanto rivoltante? E il connubio delle due, la rapacità omosessuale con cui Cloquet possiede Kiki, è orribile o a suo modo affascinante? Accanto alla tendenza a scavare nel proprio animo, Cronenberg mantiene comunque, e ne è ben conscio, la matrice borghese. Nel film, nella sua versione de Il Pasto Nudo, infatti, chiede e ottiene da Burroughs il permesso di inserire delle donne. 

Judy Davis interpreta quindi il duplice ruolo, prima Joan moglie di Lee e poi Joan Frost, la compagna che l’uomo scippa successivamente a Tom Frost (Ian Holm). Ma non sembra essere il sesso la forza motrice di queste relazioni: la prima Joan ammette candidamente che, in qualità di drogata, non ha bisogno di orgasmi. Lee, del resto, ne sente la mancanza solo perché le è necessaria per scrivere. La donna, in quanto altro, rispetto all’uomo – addirittura un’altra specie si ipotizza in uno dei deliranti dialoghi del film – è quindi necessaria per la creazione artistica. D’altra parte l’arte, con la sua pretesa di vincere la morte, l’immortalità delle opere d’arte, ha sostanzialmente, almeno in linea teorica, la stessa funzione del sesso, che si occupa della prosecuzione della specie. Superare la morte, o almeno sopportarne la paura, insomma; in un modo o nell’altro. Ma l’arte, e la letteratura e il cinema nel caso specifico, con la necessità di rivelare le verità scomode – l’attrazione per individui dello stesso sesso, per la mostruosità – espone l’artista al pericolo perché lo mette in contrapposizione con le convenzioni sociali borghesi. Di cui la condanna dell’omicidio è una delle più solide: Lee uccide sua moglie Joan giocando a fare il Guglielmo Tell – un episodio tratto dalla biografia di Burroughs – ma sostiene che si sia trattato di un errore, un tragico sbaglio. 

Ma quando ripete il gioco con la seconda Joan, col medesimo risultato, qualche dubbio è legittimo. Forse che anche l’omicidio sia una tentazione che abbiamo nel nostro animo? E quindi l’artista debba provare a raffigurarla per estirparla da sé, fungendo in questo modo da valvola di sfogo catartica per la società? Nel qual caso, se Burroughs veniva travolto nella sua stessa vita dalla condizione artistica, Cronenberg riesce invece a gestire la cosa solo in ambito cinematografico. Ed è quindi così che poi il canadese impiega la sua natura borghese, con l’inserimento a tutti costi della figura femminile nel film per poterla poi utilizzare, uccidendola, per i suoi fini artistici? Chi non ha mai provato il desiderio inconfessato e inconfessabile di uccidere qualcuno? Magari addirittura la propria partner, o un altro famigliare, o un amico? Sono domande scomode, certo, ma lecite?
Questi, insieme agli altri, sono interrogativi che rimangono sospesi nell’atmosfera di un film formalmente affascinante, introdotto dai titoli di testa che stilizzano il connubio tra Cronenberg e Burroughs, in cui non è affatto facile orientarsi. Eppure, per un attimo, si può avere l’impressione di aver colto il significato dell’arte di Cronenberg. La capacità di mostrarci cosa realmente siamo, compreso quello che non vorremmo mai ammettere.
Ma è solo un attimo: è il nostro pasto nudo. 



Judy Davis 




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