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venerdì 2 settembre 2022

A SNIPER'S WAR

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1090_A SNIPER'S WAR Stati Uniti, Russia 2018;  Regia di Olya Schechter.

Quando si parla di cecchini al cinema non può non venire in mente American sniper, film di Clit Eastwood del 2014. E’ un paragone scomodo per chiunque, questo va riconosciuto, perché il cinema del maestro americano è un confronto molto difficile da sostenere. Certo, si può obiettare che ogni opera ha una sua autonomia e non è forse del tutto corretto, sportivamente parlando, mettere la semisconosciuta regista di documentari Olya Schechter e il suo A sniper’s war sul piano di un veterano come Eastwood. E poi non c’è mica solo American sniper che mette al centro della scena la figura del cecchino; tuttavia la classicità del cinema di Eastwood lo rende una sorta di pietra di paragone naturale, in questo ambito. Oltretutto, il carattere specifico della figura dello sniper, che si isola da tutto e rimane, nell’attimo fatale, solo con la sua vittima, la rende tipicamente adatta ad un confronto diretto. In primo luogo con il bersaglio, che in questo caso è umano tanto quanto il tiratore scelto, in secondo luogo con un altro cecchino, per stabilire chi sia il migliore. Quest’ultimo tema è presente in A sniper’s war nel mortale duello tra il protagonista, Deki (Dejan Beric) e il suo avversario di Mariupol’, ma si possono trovare precedenti ne Il nemico alle porte (2001, di Jean Jacques Annaud) o nel film turco Çanakkale Yolun Sonu (2013, di Kemal Uzun, Serdar Akar e Ahmet Karaman). Quello della Schechter si presenta come un documentario, con la regista che segue l’attività di cecchino di Deki, un serbo che ha deciso di combattere con i filorussi del Donbass, in Ucraina dell’est. E’ il suo modo di ricambiare la Russia per l’aiuto ricevuto durante la guerra prima in Serbia e poi in Kosovo, nella quale il nemico erano gli americani e la Nato. In sostanza, secondo il militare, gli stessi che manovrano gli ucraini di Kiev contro i russofoni dell’est del paese. Le caratteristiche per un tiratore scelto sono saldezza di polso e di nervi unite alla capacità di non avere esitazioni nel cogliere l’attimo giusto. Insomma, non cercate persone esitanti, indecise o dubbiose tra i cecchini perché non ne troverete, probabilmente. E la personalità di Deki è scolpita a trecentosessanta gradi su queste caratteristiche: l’uomo, nel corso del documentario, snocciola tutte le sue granitiche convinzioni. Dalla mai rimpianta abbastanza Jugoslavia comunista, che per un serbo era il paradiso in terra, alla matematica certezza che le sue vittime siano tutti criminali che uccidono inermi civili. 

Nel mondo di Deki non esiste la possibilità che uno degli uomini finiti nel mirino del suo fucile sia anche solo un soldato nemico; tutti criminali della peggior specie. Ma non si tratta di un atteggiamento personale quanto piuttosto il frutto di un’intera filosofia accettata e condivisa tanto che l’uomo è invitato in una scuola di adolescenti per illustrare le peculiarità e l’indispensabilità del suo lavoro. Un po’ come da noi si invita un ingegnere o un dottore per divulgare le caratteristiche professionali su cui si fonda la società. Per la verità Deki, ad un certo punto (non prima di aver sconfitto ed eliminato il cecchino di Mariupol’, sia chiaro) ne ha abbastanza e si ritira a vita privata in Russia; ma in un paio di mesi lo ritroviamo nel Donbass, al suo posto. 

Naturalmente con giustificazione: gli ucraini sparano perfino contro semplici operai al lavoro. Ecco, nella costante e ossessiva esibizione della motivazione per poter fare quello che si ritiene necessario e indispensabile, c’è un po’ il succo della filosofia che non permea unicamente la vita di Deki o il documentario in questione. Fare il cecchino perché il nemico è un criminale equivale a fare una guerra perché vi si è costretti ma non si tratta di prerogative serbe o russe, ovviamente. Gli americani si sono addirittura inventati una motivazione per fare la guerra in Iraq, giusto per fare un esempio. Ma il cinema americano con American sniper, ed ecco a cosa serve il tema del confronto, ci mostrava che se anche avessimo trovato una motivazione abbastanza grave per giustificare il lavoro di cecchino, non sarebbe comunque stata a sufficienza a salvarci. Eastwood, in sostanza, accampava tutte le scuse possibili per mostrare come il personaggio di Bradley Cooper avesse le sue ragioni; fosse, insomma, perdonabile nonostante il terribile lavoro svolto sotto le armi. Se da un punto di vista umano il regista mostrava comprensione e rispetto per il suo protagonista, simbolo di tutti ragazzi mandati da altri in guerra a fare il lavoro sporco, per il suo ruolo non era prevista assoluzione. Uccidere è sbagliato e farlo deliberatamente, senza concedere possibilità di replica, in modo vigliacco com’è tipico del cecchino, ancora di più. E se in guerra ci possono essere delle (in)comprensibili eccezioni, al cinema assolutamente no. Il cinema è un’arte e deve avere come scopo principale un miglioramento, un’evoluzione positiva; deve essere, in definitiva, educativo. Poi, ricordando la scena con Deki mandato in una classe di giovanissimi, non ci si può stupire se A sniper’s war, segua piuttosto il percorso opposto. 


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