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martedì 13 settembre 2022

DIETRO LA PORTA CHIUSA

1101_DIETRO LA PORTA CHIUSA (Secret beyond the door...)Stati Uniti 1947;  Regia di Fritz Lang.

Il problema, se vogliamo chiamarlo problema, del cinema di Fritz Lang è che quando il soggetto – il cuore del soggetto, badate bene, si parla di Fritz Lang – non è congeniale ad una messa in scena precisa e impeccabile che risulti poi facilmente fruibile, si hanno film come Dietro la porta chiusa. Un film bellissimo: che fu però un flop al botteghino – mandando gambe all’aria la quasi neonata Diana Productions dello stesso Land e dell’attrice protagonista Joan Bennet – e giudicato negativamente anche dalla critica dell’epoca. Certo, oggi le recensioni del film sono tutte positive, e ci mancherebbe, ma lo stesso Lang, a suo tempo, fu piuttosto severo con il film. Nel libro intervista Il cinema secondo Fritz Lang, a Peter Bogdanovich il maestro viennese confessa candidamente i debiti del soggetto di Dietro la porta chiusa nei confronti di Rebecca – La prima moglie di Alfred Hitchcock, riconoscendo di non essere riuscito a reggerne il confronto. In effetti quello di Hitch è un film più riuscito, più godibile anche dallo spettatore in cerca di un po’ di relax, mentre il lungometraggio di Lang richiede sempre un minimo di attenzione. E questo è appunto il limite dell’autore nato a Vienna: per costruire i suoi film, egli conosce una sola strada, quella che rasenta, quando non la traccia autonomamente, la perfezione morale più che formale e se questo rallenta un po’ la narrazione, o ne appesantisce la fruibilità, si tratta di effetti collaterali di cui bisogna farsene una ragione. Lang, dal canto suo, non transige e non prende scorciatoie. 

O almeno non in modo sistematico: ad esempio, un paio di rimpianti in Dietro la porta chiusa sembra averne. Il primo riguarda i pensieri di Joan Bennet: quando a parlare era l’inconscio del suo personaggio avrebbero dovuto avere una voce diversa ma l’attrice, al tempo molto legata al regista, chiese sentitamente di poter essere sempre lei ad esprimere le riflessioni della sua metà oscura. L’idea dell’autore, intrigante, era dimostrare cinematograficamente, con l’uso di due attrici per le due fasi della mente, conscia e inconscia, la diversità alla base di queste. La tipica genialità di Lang, uno degli uomini più geniali di sempre, anche e soprattutto se consideriamo che il personaggio della Bennet non era quello su cui verteva la questione psicoanalitica del racconto. Celia, questo il nome della donna al centro della storia, interpretata come detto da un’adorabile Joan Bennet, è una sorta di Alice (Celia ne è l’anagramma) nella casa di Barbablù ma, finanche sia paragonata nel film alla Bella addormentata nel bosco quasi a sottolinearne la sua propensione onirica, non è nella sua psiche che bisogna indagare per risolvere il mistero. Avesse seguito il suo istinto, il regista, avrebbe utilizzato al meglio il linguaggio cinematografico per esprimere quello che poi esclama a gran voce il personaggio maschile della storia, Mark (Michael Redgrave), inquietante marito di Celia. Il suo “Forse che tutti gli uomini non sono discendenti di Caino?” è certamente esplicito e ricorda, almeno in parte, la disperata e formidabile confessione di Peter Lorre in M – Il mostro di Dusseldorf ma l’idea di sottolineare come anche l’inconscio di Celia fosse diviso dalla sua parte cosciente, tramite lo stratagemma della voce diversa, era efficace in modo più profondo perché coinvolgeva anche il personaggio che, almeno apparentemente, non aveva un lato oscuro nella propria personalità. 

Un altro aspetto di Dietro la porta chiusa su cui Lang si dice deluso è il finale, dove Mark viene guarito dall’evolversi della situazione e grazie alle parole di Celia, che ha provvidenzialmente indagato durante il film su alcuni particolari della sua infanzia. Fondamentale, in tal senso, scoprire che, nella serata cruciale, a chiudere a chiave nella stanza il ragazzino non fu sua madre ma la sorella Caroline (Anne Revere), per cui il risentimento covato dal figlio verso la genitrice fu da sempre mal riposto. In effetti è curioso che l’autore viennese opti per una tale scelta narrativa, proprio lui che spesso aveva preso in giro la tendenza ad usare in modo grossolano la psicanalisi da parte di molto cinema. Tra l’altro, questa stigmatizzazione ironica avviene anche in Dietro la porta chiusa, quando Mark mostra agli invitati al ricevimento le famose stanze dei delitti e una tra i presenti si premura di fare la psicanalisi dei vari assassini basandosi sui pochissimi elementi a disposizione. 

Il libro di Bogdanovich è del 1967 e Lang confessa non solo che il passaggio fosse debole al tempo di quell’intervista, quando le conoscenze sulla dottrina di Freud si erano ormai più diffuse; il rammarico del regista è il fatto che lui ne fosse cosciente anche quando realizzò il film e il suo fu quindi una sorta di errore in mala fede. Tuttavia l’autore, consapevole di questa forzatura, forse prova a suggerire, con il finale che riprende l’ambientazione della luna di miele ad inizio film, che tutto quanto il corpo del racconto sia solamente un sogno. Uno stratagemma narrativo non certo originale e, tra l’altro, già usato da Lang ne La donna del ritratto; difficile credere a questa interpretazione. Il punto nevralgico della questione che costringe l’autore, dopo una minuziosa costruzione narrativa, a chiudere in modo così brusco, è che Dietro la porta chiusa prova a ribaltare le convenzioni utilizzando il cinema come vero e proprio strumento. 

Quello che Lang ci tiene a sottolineare è che anche il peggiore degli uomini può essere migliorato, se compreso; per fare ciò la psicanalisi è, a tutt’oggi, il sistema migliore e quindi si affida narrativamente a questa disciplina. Il difficile, anzi l’impossibile, è ribaltare con un colpo di scena l’opinione diffusa che certi cattivi, quelli colpevoli di fatti gravissimi, siano irrecuperabili e farlo in un modo che soddisfi contemporaneamente i criteri narrativi del cinema e quelli scientifici della disciplina di Freud. Se è credibile che, in un finale ad effetto, un personaggio che è sembrato fin lì buono riveli d’un colpo la sua metà oscura, tutta un’altra storia è risolvere positivamente i problemi della psiche con un semplice passaggio cruciale. Al cinema funziona, e in effetti Dietro la porta chiusa è un bel film con un finale interessante, ma se si vuole fargli le pulci sulla credibilità scientifica ecco che qualche obiezione gli si può appunto muovere. 

Certo, Lang avrebbe potuto mettere in scena un miglioramento più graduale, da parte di Mark, ma si sarebbe perso in efficacia, cosa che l’autore certamente teneva in debito conto (si ricordi che fu lui ad inventare il conto alla rovescia proprio per potenziare l’efficacia drammatica di un semplice conteggio). In ogni caso, è chiaro che dando spazio nell’analisi del film a tutte queste ferruginosità si certificano allo stesso tempo i limiti di Dietro la porta chiusa che non ha, in effetti, la funzionalità dei precedenti La donna del ritratto o Strada scarlatta. Sono peraltro considerazioni da fare nel momento che si ritiene Dietro la porta chiusa un film molto bello eppure meno riuscito, il che sembra una sorta di contraddizione. Detto quindi delle difficoltà del lungometraggio, che nascondono però gli aspetti più interessanti e peculiari dell’opera, non rimane che mettere a referto i tanti meriti cristallini a partire dalla messa in scena implacabile che non lascia scampo a nessuno spazio gratuito o fuori registro. 

Alcune scene sono magistrali, com’è abituale in Lang che, tra l’altro, nel film lentamente si è costruito un’ambientazione ideale per potersi muovere perfettamente a suo agio, aiutato sapientemente dalla fotografia di Stanley Cortez e dalle musiche di Miklòs Ròzsa. La scena nel finale in cui Celia ricompare da Mark, quasi a volersi sottoporre volontariamente all’uxoricidio, è forse la migliore, anche grazie alla capacità di Joan Bennet di mostrarsi vittima indomita e moglie determinata. L’attrice, splendida, è addirittura radiosa e regge alla grandissima un film impostato interamente su di lei. Bene anche Redgrave, che riesce ad essere da un lato inquietante, dall’altro quasi fanciullesco. E poi l’idea di uno psicopatico che collezioni stanze del delitto sotto casa, e l’ambigua interpretazione del termine felice, valido, secondo Mark, anche per definire qualcosa di funzionale (che ha un esito felice), che si inserisce nel gioco dei ribaltamenti alla base del film. Il principe azzurro, Mark, che non è così azzurro, e questo lo si vede sin da subito – sin dall’ombra sul viso nella chiesa al matrimonio – ma che poi si rivela essere una sorta di vittima, delle angherie delle donne di casa, della sorella Caroline, e quindi torna ad essere un buon partito per il lieto fine conclusivo. Ecco, proprio forse questo è l’aspetto in assoluto più interessante del film. Lang non sconfessa l’happy ending americano. Ma il sogno americano, che pure era una valida evoluzione della condizione europea, cominciava forse a mostrarle i suoi limiti. 

Certo, nella vecchia Europa per avere successo – nell’arte, nella letteratura, al cinema e anche nella vita – dovevi avere stirpe nobile. Il tipico e povero protagonista ha sempre antenati illustri, ora della fine, perfino nella nostra religione ufficiale, mentre in America avevamo imparato che uno Smith qualsiasi poteva andare a Washington e magari arrivare a fare anche il presidente degli Stati Unti. Ma era davvero così? Era davvero così democratica, l’America, come il tanto sbandierato sogno americano prometteva? In politica, per fare un esempio, al tempo per divenire presidente dovevi appartenere giocoforza all’élite bianca. Al cinema, per goderti un lieto fine, dovevi avere la fedina immacolata. Lang, all’epoca, avendo come detto appenda fondato uno studio di produzione, la citata Diana Productions, forse ancora ci credeva, all’America. E allora prova a farle fare un salto di qualità: perché ad avere in premio una vita felice con una sventola come Joan Bennet non poteva essere un maniaco, uno che collezionava camere di famosi omicidi, con tendenze omicide come era appunto Mark? In fondo era stato preso in tempo e guarito dall’amore di Celia e la sua colpa poteva dirsi perdonata se non cancellata del tutto. Il flop al botteghino è probabilmente spiegato dalle difficoltà narrative citate in precedenza; il giudizio negativo della critica, forse nascondeva invece la volontà dell’America di non riconoscere il proprio lato oscuro. Il sogno americano è per tutti gli americani ma alcuni americani sono più americani degli altri.   




Joan Bennett











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