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venerdì 23 febbraio 2024

PAPAYA DEI CARAIBI

1442_PAPAYA DEI CARAIBI . Italia 1978; Regia di Joe D'Amato. 

Con Papaya dei Caraibi, Joe D’Amato stava inaugurando il suo periodo esotico-erotico, composto da una serie di film, con alcuni tratti in comune, girati in quel di Santo Domingo. A livello internazionale, nel frattempo, la moda dei cannibal-movie era ormai un’onda di piena e i produttori internazionali di Papaya dei Caraibi, decisero di sfruttarne appieno la scia. D’altronde, D’Amato, solo l’anno precedente, aveva diretto Emanuelle e gli ultimi cannibali e anche in questa sua ultima fatica si potevano scorgere un paio di rimandi che giustificassero il titolo scelto per i paesi anglosassoni, Papaya: Love Goddess of the Cannibals. In sostanza, si trattava di un imbroglio belle e buono, perché di cannibali, in Papaya dei Caraibi, non v’è traccia. Però, in un certo senso, è come se D’Amato, che pure sembra più che altro intenzionato a fare il suo film esotico ed erotico, abbia posto una serie di rimandi che giustificassero poi l’inserimento della pellicola nel genere cannibal, o almeno che questa operazione non risulti del tutto estemporanea. Ormai, dopo l’uscita de La montagna del dio cannibale (1978, regia di Sergio Martino) gli stilemi del filone erano stati definiti e D’Amato, che era regista esperto, sapeva che andavano rispettati. Sempre che si intendesse fare un film ascrivibile al genere, naturalmente e, almeno in ambito nazionale, stando al titolo Papaya nei Caraibi, non sembrava esattamente l’intenzione del regista romano. Tuttavia, come detto, alcuni elementi inseriti da D’Amato, lasciano più di qualche dubbio nel merito. Innanzitutto la scena in cui la bella Papaya (Melissa Chimenti) evira a morsi il suo malcapitato amante è certamente nelle corde del genere in questione, seppure l’operazione non sembra di natura, diciamo così, alimentare. L’altra scena particolarmente truculenta, forse questa davvero in odore di cannibalismo, avviene durante una cerimonia tribale, una sorta di rito Vudu, quando il sacerdote (l’attore caratterista Dakar), armato di coltellaccio, estrae e mangia il cuore alla vittima sacrificale. In realtà, anche alla base di questa situazione, come nel caso citato in cui Papaya opera in prima persona, non ci sono vere e proprie tendenze cannibali da parte degli abitanti dell’isola caraibica, che usano questi macabri “stratagemmi” –arrivando anche all’omicidio– per combattere e scoraggiare la compagnia che intende installare proprio lì una centrale nucleare. Il tema ecologista è insistito, come anche una severa critica al colonialismo, e nient’affatto posticcio: si tratta di elementi su cui si fonda la storia e va dato atto a D’Amato e ai suoi collaboratori di avere avuto attenzione per questi argomenti con un certo anticipo sulla comune opinione pubblica. 

Anzi, si può credere che lo stesso regista senta particolarmente la questione perché le parole della sua coprotagonista, la giornalista Sarah (la misconosciuta Sirpa Lane, molto brava oltre che, ça va sans dire, bellissima) sembrano dare voce ai pensieri dello stesso D’Amato. La reporter arriva a condividere, alla fine della sua avventurosa vacanza, l’utilizzo della violenza da parte di chi combatte per un fine giusto, come quello ecologico o di difesa della propria terra. Il finale, con la ripetizione della scena dell’autostop, la vede stavolta schierata sull’altro fronte, quello degli abitanti caraibici, e sancisce il suo definitivo “cambio di campo”. In principio, Sarah, che pure era una donna progressista, si era detta contraria ai crimini con cui gli ambientalisti isolani combattevano gli uomini della compagnia che lavorava alla centrale: tra questi, l’ultimo arrivato era Vincent (Maurice Poli, perfetto per il ruolo), geologo e vecchio amico della giornalista. Essendo un film di D’Amato, dichiaratamente esotico-erotico, i due finivano rapidamente a letto ma, in questo caso, le scene più curate del film sembrano riguardare l’amore saffico tra Sarah e Papaya. Le due ragazze, con Vincent, potrebbero costituire un triangolo melodrammatico e, in effetti, Sarah, ad un certo punto, crede che la ragazza dominicana sia gelosa della sua vecchia relazione con il geologo. In realtà Papaya è sì gelosa, ma è attratta dalla bionda giornalista mentre a suo avviso Vincent è solo un altro tecnico della compagnia della centrale nucleare da eliminare. 

L’aspetto erotico è certamente rimarcato tanto che le due belle protagoniste fanno gara ad andarsene in giro nude per lo schermo, anche in passaggi non esplicitamente piccanti: alla fine totalizzeranno quasi 12 minuti la Lane, mentre la Chimenti si fermerà a poco meno di 11. Eppure il film non è solo un campionario di corpi denudati, per quanto, per l’occasione, se ne vedano anche alcuni maschili senza veli: la trama gialla, seppur appena abbozzata c’è, e comunque la scena che precede il rito Vudu è pregna di inquietudine. Sarah e Vincent sono stati, in modo un po’ misterioso, invitati alla cerimonia della Pietra Tonda da Papaya e si trovano a girare soli in una zona deserta e poco raccomandabile del paese. D’Amato conosce il mestiere e l’atmosfera non è per niente tranquilla; alla fine i nostri troveranno la festa in questione, che sarà, a suo modo, un altro passaggio memorabile del film. Tra l’altro, il regista romano sottolinea i passaggi gialli dell’intreccio ricorrendo al marchio di fabbrica del thriller all’italiana, il whisky J&B, adottato, tra l’altro, anche dai cannibal-movie. In questo senso sorprende l’insistenza di D’Amato, che ricorre al liquore con l’etichetta gialla in ben tre occasioni diverse, quasi a voler ribadire con assoluta convinzione l’appartenenza di Papaya dei Caraibi al cinema di genere italiano. Interessante è poi l’approccio che il film ha su un altro elemento tipico dei cannibal-movie, presente in Papaya nei Caraibi ma trattato in modo originale e fuori dagli schemi ormai divenuti classici della corrente. I cannibal si contraddistinguevano per l’odiosa abitudine di inserire scene con violenza reale sugli animali e, nel film di D’Amato, la questione è affrontata in un paio di occasioni. In principio, quasi a dare subito la giusta coordinata narrativa, troviamo due dei protagonisti –quelli occidentali, “civilizzati”, Sarah e Vincent– assistere appassionati ad un combattimento di galli. 

La violenza c’è, ed è il motivo per cui i due si trovino lì, la cosa è esplicitamente ribadita in un dialogo, tuttavia, per quanto deprecabile, il combattimento tra i pennuti in questione non può certo essere messo sullo stesso piano di altre scene violente tipiche dei cannibal-movie. L’altra scena truculenta avviene durante un rito pagano, nel quale vengono squartati due maiali che, per altro, erano già morti: scena eclatante, nel mostrare i dettagli sanguinolenti, ma quasi normale amministrazione per chi va a far la spesa dal macellaio. Insomma, sembra quasi che D’Amato voglia rispettare i passaggi obbligati del genere, in questo caso esplicitamente proprio quello dei cannibal-movie, senza condividerne appieno gli aspetti più deleteri. Una parentela ribadita in modo totalmente sorprendente dall’autore romano che arriva a meta per la strada meno prevedibile. Perché la citazione più clamorosa è per un film hollywoodiano, e, oltretutto, tra i più importanti e belli della Storia del cinema: nientemeno che Improvvisamente l’estate scorsa splendido dramma di Joseph L. Mankiewicz, con Elizabeth Taylor, Katharine Hepburn e Montgomery Clift. E va detto che, pur prendendo un riferimento tanto azzardato, D’Amato se la cava egregiamente, riuscendo a sfruttarne il ricordo senza scottarsi, diciamo così, le dita. Sarah, nel suo peregrinare insieme a Vincent per l’isola, era stata fatta prigioniera dagli ambientalisti isolani ma, sorvegliata da alcuni ragazzini dominicani, era riuscita a fuggire. Incaricati dagli adulti attivisti di riparare il danno causato, i giovanissimi isolani si erano messi quindi a cercare la ragazza bionda che girovaga sperduta per le polverose strade di Santo Domingo. Accompagnata dalla musica ossessiva scandita dal ritmo dei tamburi, Sarah si trova via via tutte le strade sbarrate da ciurme di mocciosi sempre più numerosi, che la costringono, infine, sul bagnasciuga, senza via di scampo. La musica martellante, i ragazzini dominicani, la spiaggia, il mare, il cielo biancastro nella luce del giorno, tutti questi elementi rimandavano direttamente alla terribile scena cruciale del film di Mankiewicz, dove, giova ricordarlo, Sebastian, il protagonista occulto del film, finiva divorato dai bambini galiziani della spiaggia di Cabeza de Lobo. E allora sì, si può legittimamente dire che Papaya dei Caraibi, oltre che il primo film del ciclo esotico-erotico di D’Amato, sia anche un cannibal-movie. E nemmeno dei peggiori. 


Sirpa Lane 




Melissa Chimenti 



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