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lunedì 8 febbraio 2021

L'ALTALENA DI VELLUTO ROSSO

746_L'ALTALENA DI VELLUTO ROSSO (The Girl in the Red Velvet Swing). Stati Uniti1955. Regia di Richard Fleischer.

Il cinema, per definizione, è l’arte della finzione: i fotogrammi che passano velocemente danno l’idea della vita, ma ne sono solo una rappresentazione. E’ utile rinfrescare questo scontato concetto quando un film, come L’altalena di velluto rosso, si apre con una voce fuori campo che ci assicura che quanto assistiamo corrisponde al vero. Con ciò, non è che si debba pensare a priori che ciò non lo sia ma è saggio almeno stare in guardia, specie se a dirigere l’opera è un autore capace e stimolante come Richard Fleischer. Dunque, il film riporta i fatti che segnarono la Storia degli Stati Uniti ai primi del XX secolo: ovvero, l’assassino dell’archistar Stanford White (nel film lo straordinario Ray Milland). Ad ucciderlo a sangue freddo fu il miliardario Harry Thaw (Farley Granger), geloso della relazione tra l’architetto più famoso d’America e sua moglie, relazione che però apparteneva al passato della donna. E qui entra in gioco l’elemento cruciale del film di Fleischer (e, forse chissà, anche dei fatti storici). Perché al regista newyorchese non interessa indagare sul fatto che anche i ricchi americani si ammazzassero come i volgari criminali dei bassifondi e nemmeno che nel paese della Libertà bastava avere una buona scorta di milioni da pagarsi un valido avvocato per farla sostanzialmente franca anche quando eri palesemente colpevole. No, Fleischer intuisce che tutta quanto la vicenda è utile per osservare come, anche in America, anche nel XX secolo, la società fosse dominata da una contraddizione tutta di matrice femminile. In questo senso il film è ancora oggi illuminante, sebbene il lungometraggio possa passare per una semplice denuncia del delitto d’onore, cosa al contrario abbastanza risaputa. Ma nonostante sia questa la soluzione scelta dall’avvocato che salva il collo a Thaw, e il delitto d’onore venga anche menzionato nel film, non è questa la questione sul tavolo: è evidente, per lo spettatore, che l’omicida andasse condannato senza alcuna attenuante. Ma è tutto quanto il ruolo degli uomini del film ad essere scontato, ovvio: se Thaw è colpevole, White è sostanzialmente innocente, non avendo mai (?) approfittato di Evelyn (una splendida Joan Collins), ragazza che è il vero epicentro della faccenda. 


I due uomini si accapigliano per lei, del tutto comprensibilmente vista la bellezza magnetica della ragazza (resa in modo sontuoso dalla Collins): White ne avrebbe i favori, ma è molto più anziano e soprattutto già sposato. L’architetto prova quindi a gestire la cosa, parcheggiando la ragazza in un college per educande, cosa che una giovane vivace come Evelyn (che era modella e ballerina di fila di Broadway) non riesce a sopportare. Probabilmente la figura di White è edulcorata dal film, perché le cronache narrano che l’archistar fosse un incallito dongiovanni; ma perché Fleischer si prende queste libertà, dopo averci assicurato dell’attendibilità del suo racconto? Forse proprio per evidenziare, in modo palese, che il suo film tanto attendibile non è. Il passaggio in cui White spinge sull’altalena di velluto rosso Evelyn è surreale, quasi onirico o delirante, con le prospettive della volta dell’atelier dell’architetto che appaiono deformate da prospettive allucinate. E non è un particolare da poco, perché sono quelli i momenti che saranno messi sotto il fuoco durante il processo: è in quegli attimi che si consumò il peccato tra White e Evelyn che, secondo la difesa (e la giuria), giustificò la reazione di Thaw. Ma si tratta di fantasie, di cose fantastiche, sembra dirci Fleischer, almeno osservando le immagini. Ma non perché il vero White fosse un gentiluomo un po’ imbolsito come quello del film, sia chiaro; il punto cruciale è altrove. Perché che la sua non sia una ricostruzione attendibile dei fatti, il regista ce lo dice con la stessa messa in scena dai vivaci colori pastello e ben poco realistica. 


Un’America, quello ricreata da L’altalena di velluto rosso, che non ha niente da invidiare alla più sfarzosa e ricercata vecchia Europa della nobiltà e dell’aristocrazia, basata tanto sul privilegio che sulle rigide convenzioni sociali. Che la personalità di una ragazza vitale come Evelyn prova a increspare, ma che una società tanto ben radicata riesce a metabolizzare, riciclandola, nel finale, come esibizione da circo. Ma di questo, di questa profonda arretratezza culturale americana che è tale sin dalle sue origini, troppo rivolte all’Europa anziché al futuro, la colpa non è tanto dell’élite yankee. Non sono Thaw e White i veri colpevoli della sorte di Evelyn; e nemmeno lo è la ragazza, questo è evidente; lei è il vero snodo, l’elemento di novità, di apertura. La Collins, in questo, è come sempre magistrale. 

Bellissima come poteva essere Joan a 22 anni, pur recitando con calibrata delicatezza, ha i momenti dove mostra la sua tipica verve insospettabile (ad esempio quando apre la giacca a White, ne sfila il taccuino e lo strappa, per gelosia delle ragazze i cui numeri vi stavano annotati). Ma il film le destina il ruolo di vittima sacrificale, di donna bella la cui bellezza è il suo punto di forza (i tormenti di White, Thaw che si inginocchia davanti a lei) ma anche dannazione, perché poi l’uomo sente una sorta di rivalsa per la creatura che ne ha mostrato in modo tanto palese la debolezza. E da qui derivano l’atteggiamento sadico sia dell’uno (White che la rinchiude al college e poi cambia numero di telefono per non essere rintracciato), sia dell’altro (le torture anche fisiche a cui la sottopone Thaw). Ma tali reazioni agli effetti del desiderio non sono certo una novità: si può osservare come Fleischer mostri uomini dell’élite americana non in grado di gestire i propri impulsi ormonali come rozzi scaricatori di porto. Niente di originale, tutto sommato. 
La vera svolta, il vero punto critico è tutto femminile ed è il colloquio tra la madre di Thaw e sua nuora: è il giorno del processo, l’uomo è imputato di omicidio volontario e ha ben poche possibilità di cavarsela (giustamente, vien da dire). 


A meno che Evelyn non accetti di testimoniare, confermando la tesi (nel film falsa) che la voleva amante di White; in questo modo l’avvocato potrebbe inscenare una sorta di delitto d’onore scagionando la maggior parte delle responsabilità dal suo assistito. Questo è il punto critico: la madre di un assassino, la madre di un sadico, maniaco, viziato individuo di nessun valore, invece di pensare a quanto ammonti la sua parte di responsabilità nella scarsa educazione che ha impartito a suo figlio, scarica il peso della responsabilità, e di conseguenza dell’eventuale colpa, sull’altra donna, la nuora. Che è giovane e bella, guarda caso e, a questo punto, la cosa, dal punto di vista di una donna meno giovane e meno bella, sembra davvero una colpa imperdonabile. Il ricatto morale della signora Thaw funziona e Evelyn accetta di testimoniare, finendo macellata tanto dall’avvocato che dal pubblico ministero e, successivamente, dalla stampa e dalla gente accorsa. Una nuova strega è stata immolata sul rogo ma non sono stati gli uomini, ad appiccare il fuoco. Bensì un’altra donna: una madre. L’elemento più nobile, ma nello stesso tempo più malsano, della società umana.   






Joan Collins














3 commenti:

  1. "femmina come la guerra", viene da dire...
    io sono rimasto assai sconvolto scoprendo, su un video di YT che ho visto qualche giorno fa, che in Italia il delitto d'onore l'abbiamo avuto fino al 1981! :(((

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  2. Nell'ordinamento giudiziario, intendi. In pratica non hanno ancora finito di ammazzarsi per questioni di corna.

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