1030_LA FIAMMA DEL PECCATO (Double Indemnity). Stati Uniti, 1944; Regia di Billy Wilder.
Sei anni dopo, con Viale del tramonto, Billy Wilder, dopo aver imparato la filosofia di Hollywood e dell’America, confermerà e rilancerà il suo azzardo: la vicenda sarà raccontata direttamente da un morto. Una storia senza alcuna speranza, insomma. Ne La fiamma del peccato è invece un moribondo, Walter Neff (Fred MacMurray), che si mette al registratore per lasciarci le sue memorie; o meglio, per lasciarle al suo capo, Barton Keyes (il solito, monumentale, Edward G. Robinson). In un testo, filmico o meno, la presenza di una voce narrante è di norma garanzia di lieto fine; in fondo il personaggio che parla è sopravvissuto, se ci sta raccontando i fatti. Se con Sunset Boulevard Wilder romperà questa regola narrativa, ne La fiamma del peccato non arriva a tanto, cogliendo però un aspetto forse più sottile della questione. La vicenda raccontata, tratta da un racconto di James M. Cain e sceneggiata a quattro mani con Raymond Chandler, viene registrata quando Neff, il protagonista, è ancora vivo ma, nel finale, appare chiaro che è alla fine della pista. Il cinema, quindi, quanto il registratore che vediamo nel film, è uno strumento che permette di ingannare, per un istante, la morte, dando l’impressione che ci sia una speranza. In realtà Wilder ci dice che – soprattutto al cinema, l’arte della finzione, l’arte dell’inganno – il narratore, e forse anche l’autore, può essere già morto nel frattempo. Come capiterà a Neff, appunto. E allora non fatevi troppe speranze. Questo discorso è perfettamente calzante all’atmosfera che trasuda La fiamma del peccato, noir che più nero non si può, condito da una musica superba e angosciante dello specialista Miklòs Ròzsa e fotografato in modo implacabile da un bianco e nero che non lascia scampo opera di John Seitz. La regia di Wilder è puntuale e stupisce che un autore tutto sommato agli inizi della carriera possa avere uno stile tanto classico, nel senso più nobile del termine. Erano gli anni 40 e il regista nato in Galizia, non ancora quarantenne, riusciva a coniugare in modo splendido le conoscenze degli autori della generazione precedente con le istanze più moderne. Normale, quindi, che quando si fosse messo all’opera sul noir, il genere che faceva di questa commistione il suo punto cruciale, facesse sfracelli.
Le dinamiche della società americana negli anni Quaranta assorbivano le angosce che furoreggiavano un po’ ovunque: si era passati dalla peggior crisi economica di sempre (quella del ’29) alla più grande carneficina della Storia (la Seconda Guerra Mondiale), mentre l’evoluzione, l’emancipazione e lo sviluppo, nelle varie istituzioni sociali, proseguivano imperterrite. Negli Stati Uniti, che erano ancora in una fase di assestamento istituzionale, sia a livello domestico che internazionale, queste tensioni furono più forti e uno dei risultati fu il genere noir. Wilder conosceva l’espressionismo come corrente cinematografica per motivi diciamo così geografici (ne aveva la stessa origine) e conosceva il cinema dei grandi come Lubitsch a menadito; anche grazie a ciò riuscì ad interpretare meglio rispetto ad altri le peculiarità sociali della giovane nazione americana. La dimostrazione concreta di questo concetto è, tra le altre cose, La fiamma del peccato.
Datato 1944, quindi a guerra mondiale nemmeno conclusa, Double Indemnity, questo il titolo originale, propone una storia in cui il benessere della società borghese capitalista ha già fiaccato l’etica e la morale dei suoi protagonisti. Non quella di Keyes, per la verità: la sua figura, che si appoggia al carisma di Edward G. Robinson, serve per mettere in luce, per contrasto, la debolezza morale della coppia protagonista. L’ardore, la passione, il talento con cui Keyes svolge il suo lavoro, sono rappresentati simbolicamente dall’ometto che l’uomo sente dentro di sé, che l’avvisa quando qualcosa non va nelle pratiche assicurative che deve controllare. Sembra il superpotere di uno dei moderni supereroi, in realtà è la coscienza; da sempre il superpotere più potente in circolazione. L’uomo è una persona seria e fa con scrupolo e dedizione il suo lavoro.
E si stupisce quando Neff rifiuta un incarico di responsabilità, preferendo andare a caccia di nuovi clienti, nella maggior parte dei casi imboniti dalla sua capacità dialettica. E, oltre a questo aspetto che assicura migliori guadagni economici, Neff non disdegna di cogliere quelle opportunità che girare tante case e vedere tanta gente può offrire. Come incontrare Phyllis Dietrichson (Barbara Stanwyck, semplicemente perfetta) nel passaggio che rende la nostra storia indimenticabile. Neff si reca a casa Dietrichson per rinnovare alcune assicurazioni ma, in luogo del marito, trova la moglie. In accappatoio. Come noto, la Stanwyck non era una bellezza mozzafiato ma aveva comunque il suo perché. Tuttavia ne La fiamma nel peccato Wilder e i suoi collaboratori si sforzano di banalizzarne la bellezza, di renderla simile alla bigiotteria piuttosto che ad un articolo di vera gioielleria.
Una parrucca bionda improbabile, occhiali scuri da vamp di periferia, unite a gambe sinuose e sexy accessoriate con tutto l’armamentario necessario, calze di nylon, scarpe col tacco e la cavigliera galeotta che fa capitolare all’istante Neff. Del resto il cognome con cui si presenta, Dietrichson, suona qualcosa come figlio della Dietrich, ricordando che la diva tedesca incarnava un ideale di femminilità androgina – nel suo caso in forma assolutamente divina – mentre il personaggio della Stanwyck sembra un suo derivato, un sottoprodotto, un simulacro o forse più propriamente, un feticcio. Il tema del feticismo, che tornerà prepotentemente in Wilder nello splendido A qualcuno piace caldo (1959), è un elemento cruciale anche ne La fiamma del peccato, in questo caso apparentemente in forma critica. Mrs Dietrichson, così colma dei citati rimandi fetish, è appunto lei stessa un feticcio non interpretando veramente mai realmente, onestamente, il suo ruolo: finta come infermiera, finta come moglie e finta come amante. In questo senso, la Dietrichson è la perfetta dark lady ma è già, agli arbori del genere noir, proiettata nel futuro. In seguito, la femme fatale de La fiamma del peccato verrà presa a modello per la sua malvagità, per la sua capacità di sedurre gli uomini della storia, prima il marito, poi Neff, e infine forse anche Nino (Byron Barr), il fidanzato della figliastra (Jean Heather).
Poche donne, nella Storia del cinema hanno incarnato così bene la perfidia della dark lady, di cui Phyllis Dietrichson è giustamente considerata uno degli archetipi. Eppure, nel suo essere consapevolmente un feticcio, e in questo la Stanwyck è straordinaria, la signora Dietrichson porta in nuce lo sviluppo successivo della figura femminile. La modernità del personaggio è palese nelle scene in cui si incontra al supermarket per parlare con Neff, fingendo di fare la spesa come una perfetta casalinga che starebbe a pennello in un melò di Douglas Sirk degli anni Cinquanta, il decennio successivo. La scalata sociale di Phyllis, da infermiera a moglie di un uomo ricco per arrivare, almeno nei suoi piani, ad ereditiera, avviene tra noia, incontri clandestini ben poco sinceri e vita quotidiana ancora più finta e fasulla.
E’ la pura essenza non tanto della femme fatale dei noir, ma del Sogno Americano di cui la donna, e Wilder lo capisce decenni in anticipo, è la vera interprete. Peraltro, quello che è spacciato come primo protagonista del film, dai cartelloni ai titoli di testa, è il Neff di Fred MacMurray. L’attore statunitense incarna in modo esemplare il tipico eroe americano, addirittura di quelli adatti per i film di Frank Capra: alto, bello, brillante e con quella prontezza d’indignarsi al primo sentore di venire coinvolto in qualcosa illegale che, pensandoci, potrebbe anche essere sospetta. Questo è almeno quello che insinua Wilder: Neff, sul momento, pianta infatti in asso la Dietrichson quando si accorge che la donna medita di coinvolgerlo in un fatale tiro mancino ai danni del marito. Ma è un fuoco di paglia e l’uomo sarà ben lieto di accogliere tra le braccia la donna – e il suo piano criminale – quando questa andrà a fargli visita la sera stessa. Fa un po’ male vedere il lato oscuro dell’eroe buono americano ma, ahinoi, la Storia (non del cinema, quella vera) confermerà che i film di Capra erano sì capolavori, ma di ottimismo oltre che della settima arte. Il vero eroe positivo, ne La fiamma del peccato, è interpretato da chi, come Edward G. Robinson, era l’opposto della classica figura dello yankee wasp (White Anglo-Saxon Protestant: bianco, anglosassone e protestante, la denominazione di origine controllata in chiave americana).
Non a caso, il geniale interprete al cinema vestiva abitualmente i panni del villain ed era di fatto un immigrato (dalla Romania): nei film dei gangster che l’avevano reso celebre le due cose si integravano ulteriormente. In ogni caso, la sua figura è solo il riferimento per mettere in contrasto quanto Neff sia distante dalla rettitudine. L’incontro con la signora Dietrichson, mette infatti in chiaro che l’animo del venditore di polizze fosse già guasto, che al delitto perfetto avesse già pensato da tempo. Quando le cose virano inevitabilmente al peggio, la sua natura infida emerge in modo ancora più evidente. La grandezza di Wilder e de La fiamma del peccato è che, in realtà, è proprio nel momento più cupo della storia che avviene l’inaspettata svolta decisiva. Neff ha preso un ultimo appuntamento con Phyllis, deciso a farla fuori sperando così, opportunisticamente, di trovare una scappatoia. Avrebbe perso i soldi ma forse sarebbe riuscito a non farsi coinvolgere dalle indagini che si facevano sempre più stringenti.
Ma la donna si dimostra più in gamba: lo aspetta armata di pistola. Col primo colpo lo ferisce; poi nel momento della verità, la più perfida delle dark ladies rivela la sua natura. Qualcosa si accende nello sguardo di Barbara Stainwyck, qualcosa che solo la grande attrice americana aveva: quasi una forma di rammarico al contrario, un’incapacità di essere cattiva come sarebbe stato necessario per finire il lavoro, uccidere Neff e tenersi per intero il bottino. La Stainwyck, accidenti a lei – verrebbe da dire unendosi assurdamente al rimpianto del suo personaggio – non era divina ma piuttosto fin troppo umana e sottostava pure lei, anzi lei per prima, alla suprema legge della vita, quella dell’amore. Al confronto con la sua Phillys, che nel suo essere feticcio, nel suo essere fasulla, si rivelava piuttosto la quintessenza dell'amore, quel babbeo di Neff era il semplice ingranaggio che la rendeva immortale. Ma, forse proprio grazie all’illuminazione ricevuta dall’ultimo confronto con l’amante, anche l’uomo aveva uno scatto di dignità, nel suo prodigarsi per salvare Nino. Niente male per quella che è passata alla Storia come la più sordida delle femme fatale. Phyllis Dietrichson è stata semmai, come detto, l’incarnazione del Sogno Americano ma, soprattutto, la sua possibile soluzione in chiave ottimistica: la finzione può essere una sorta di educazione per mettere poi in pratica quanto millantato. Così come il feticismo può diventare amore vero o il cinema condizionare al meglio la realtà: la finzione non supera la realtà; la trasforma e la piega. A patto di crederci con la forza di Mrs Dietrichson, la più vera, tra tutti i suoi trucchi e le sue bugie, delle muse.
Barbara Stanwyck
Se non si può usare la funzione per piegare un po' la realtà, che gusto c'è? 🙂
RispondiEliminaMa soprattutto...mai fidarsi prima del finale 😄
*finzione
RispondiEliminaBeh, certo, nella finzione, lo dice la parola stessa, si può fare tutto. A patto di utilizzare l'intelligenza, quella dell'autore e quella di chi fruisce. E' quando non si usa che poi non funziona. A quel punto meglio attenersi al realismo o alle regole narrative o ai codici dei generi cinematografici. Questo non tanto per fare la cosa giusta, in quanto ognuno faccia ciò che vuole, ma per fare qualcosa di interessante, emozionante e chissà, magari anche istruttivo.
RispondiElimina