1692_GRAN BOLLITO, Italia 1977. Regia di Mauro Bolognini
La didascalia iniziale confessa che l’ispirazione per il film siano stati alcuni fatti avvenuti in America, Egitto e Italia: si tratta forse di un tentativo di smarcare Gran bollito da una mera rappresentazione degli omicidi legati alla «saponificatrice di Collegno»? Forse sì, anche perché il dubbio che pone la visione del film del 1977 è di stretta natura cinematografica ma al tempo stesso legato all’argomento trattato: per quale motivo il regista Mauro Bolognini ha scelto un registro tanto grottesco per immergervi una vicenda tanto tragica? Pur nella loro scarsa razionalità, nella loro scarsa comprensione razionale, i brutali e bizzarri omicidi attribuiti a Leonarda Cianciulli (nel film, un’intensa Shelley Winters è Lea) sono un argomento serio e terribile. Certo, nel 1977, dai delitti di Collegno erano passati quasi quarant’anni e poi Bolognini ha, come registro stilistico, una capacità autoriale che gli permette di trattare qualsiasi argomento con il distacco artistico adeguato. Gran Bollito, insomma, non è assolutamente irriverente per le tre povere vittime, finite nelle saponette di Lea, anche nel caso il rimando, come appare evidente, sia alle tre donne della vicenda reale. Tuttavia non può non destare un certo stupore scoprire che per interpretare queste tre donne sole che la saponificatrice scelse astutamente come vittime, nel film chiamate Lisa, Stella e Berta, Bolognini abbia arruolato nell’ordine Max von Sydow, Renato Pozzetto e Alberto Lionello. Che sono tre uomini, come è evidente, e recitano nei ruoli delle vittime «en travesti» senza che nessuno, nel film, se ne accorga o adombri anche solo una perplessità in merito. Che poi, già la composizione del cast è del tutto spiazzante: la Winters, attempata ma comunque una star di Hollywood, von Sydow, icona del cinema di Ingmar Berman, Pozzetto, comico del cabaret televisivo, Lionello, attore a tutto tondo tra teatro, TV e cinema, e poi ancora Milena Vukotic (è Tina), Mario Scaccia (Rosario), Rita Tushingham (Maria) e si potrebbe continuare a lungo, concludendo necessariamente con Laura Antonelli (Sandra), figura che non passa inosservata oggi e figuriamoci al tempo. Rifacendosi sempre alla citata didascalia iniziale, Bolognini afferma che non sono da ricercare spiegazioni psicoanalitiche o sociali, che il mistero riguarda la follia collettiva e non individuale. In conclusione, fa un’equivalenza tra questi delitti e i tanti di cui l’umanità ha disseminato la Storia, dimenticandosene sempre velocemente.
La mancanza di senso che il regista prova ad attribuire alla vicenda, può essere rappresentata dalla presenza di Renato Pozzetto, maestro del nonsense lombardo, a cui è infatti è affidato anche un importante ruolo nel concretizzare, con le sue buffe performance, le canzoni di Enzo Jannacci, altro nome tutelare della comicità surreal-demenziale meneghina. Il buon Renato dà il meglio di sé nell’interpretazioni canterine, ma il vederlo affiancato a due attori dal registro tanto diverso, almeno stando alle rispettive carriere, sembra appunto voler dire che non conta se sei un comico della televisione o l’attore preferito da Bergman, perché comunque nelle saponette devi finire. E lo stesso si potrebbe quindi dire anche per Mina, coinvolta nella colonna sonora insieme a Jannacci e Pozzetto, e che, con la sua Vita vita che accompagna titoli di testa e di coda, sembra calarci nel tempo e nell’atmosfera potenzialmente straziante della vicenda. Ma il suo sentito contributo vale tanto quanto le canzonette surreali di Jannacci e Pozzetto. La battuta conclusiva del film è lasciata significativamente a Lea che, mentre sente la folla gridarle “mostro!”, si volta stupita e chiede: “Chi, io? Ma siete pazzi!?”. Il film si chiude sulla sua replica e questo ha necessariamente un significato, quasi che Bolognini rovesci il punto di vista consueto e attribuisca la pazzia non al singolo deviato, l’assassino di turno, ma alla collettività. Del resto è lo stesso concetto espresso dalla didascalia iniziale. Tra l’altro, stando alle cronache, Leonarda Cianciulli sostenne di aver compiuto gli omicidi come sacrifici magici per avere in cambio la salvezza dell’amato figlio. Il timore era legato all’incombente Seconda Guerra Mondiale, un massacro su larga scala che anche il film di Bolognini sembra mettere in rapporto con gli omicidi di Lea, cogliendo lo spunto nel memoriale scritto dalla saponificatrice di Collegno. In realtà, benché sempre di macelleria gratuita si tratti, questa assimilazione è quantomeno discutibile. L’intento provocatorio del regista è evidente, e il nocciolo della questione sembra essere che sia quantomeno ipocrita che Lea sia definita «mostro» quando è solo una povera donna ignorante, e sia invece tollerato quando non giustificato un abominio come la guerra. Ora, la guerra è inaccettabile sempre e comunque e questo è un dato di fatto; tuttavia porre sullo stesso piano, o quantomeno paragonare, l’indifferenza borghese, nel senso dell’individuo che guarda solo il proprio orticello e che permette o tollera la guerra, a chi decide di armare la propria mano è un’operazione da rigettare assolutamente, anche quando la si veni di grottesco.
Non è forse un caso che il film sia del 1977, ovvero l’apice degli «anni di piombo», quando la lotta armata era legittimata dall’intellighenzia del Paese, visto che combatteva il «Sistema». Bolognini utilizza un registro sfumato, ma il senso del suo discorso è pesante e militante: la condanna al sistema borghese, che ricorre senza alcuno scrupolo alla guerra per tutelare i propri interessi, si può leggere anche nella scelta dei tre attori travestiti. Lisa, Stella e Berta sono donne che non possono procreare –questo nella messa in scena filmica è più che evidente, essendo uomini– e possono benissimo essere sacrificate. I tre attori tornano poi per fugaci camei in cui interpretano tre ruoli di potere, il banchiere, il maresciallo, il carabiniere, quasi a confermare la differenza che c’è, nel sistema borghese, tra nascere donna o nascere uomo. Lo stesso individuo è sacrificabile in un caso mentre assume importanza nell’altro, semplicemente in base al sesso di appartenenza. E questo forse il senso della frase finale? Può essere definita «mostro» la povera Lea, quando non vengono considerati tali quegli uomini responsabili della guerra? È lo stesso meccanismo della protesta armata che combatteva armi in pugno uno Stato che, poi è effettivamente stato dimostrato, non giocava pulito. In sintesi: se lo Stato utilizza la forza anche io che mi oppongo devo farlo. Lea, per evitare che suo figlio morisse in guerra, sacrificò tre donne innocenti, che possono essere paragonate ai poliziotti che facevano la scorta ad Aldo Moro, per esempio. È una logica accettabile? Solo nell’ottica dello scontro, della guerra. E, allora, ecco qual è lo scopo di togliere il senso, le responsabilità individuali, della didascalia iniziale, legittimare la guerra al Sistema. Legittimare la guerra.
È un film fatto bene, Gran bollito, confezione d’autore.
Ma al di là di questo, non tanto bene, purtroppo.
Nessun commento:
Posta un commento