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sabato 14 ottobre 2023

ELLERY QUEEN: DELITTO NEI QUARTIERI ALTI

1375_ELLERY QUEEN: DELITTO NEI QUARTIERI ALTI (Ellery Queen: too many suspects). Stati Uniti, 1975; Regia di David Greene.

L’episodio pilota della serie televisiva dedicata a Ellery Queen (sullo schermo interpretato da Jim Hutton) è un vero e proprio film di oltre un’ora e mezza. Delitto nei quartieri alti, il titolo italiano, fa riferimento all’ambientazione del giallo tra gente facoltosa ma, nell’ottica investigativa – che è la matrice dei racconti della serie in divenire – è più indicativo l’originale Too Many Suspects. Infatti, il protagonista, che è una sorta di detective per diletto, in questa sua avventura più che cercare il colpevole, si prodiga per smontare le false accuse che incastrano progressivamente alcuni tra i vari personaggi del racconto. Il primo a finire sotto le mire dell’ispettore Richard Queen (David Wayne), padre di Ellery e rappresentante ufficiale delle indagini, è Carson Mckell, interpretato nientemeno che da Ray Milland. La presenza di una stella come Milland conferisce subito al film un’aurea di prodotto credibile e, in effetti, l’attore di origine gallese non tradisce e anche il risultato finale complessivo dell’opera è apprezzabile. Sotto i riflettori dell’accusa delle indagini finiscono poi la moglie di Carson, Marion (Kim Hutter), il figlio Elios (Monte Markham) e l’autista Ramon (Victor Mohica): la vittima era Monica (Nancy Kovack), l’amante del facoltoso uomo d’affari, ed è quindi normale che tutto ruoti intorno all’indiziato numero uno. Perché, ahi lui, Carson non ha un alibi, non riuscendo a ricordare cosa stesse facendo nel momento fatidico; ci penserà Ellery a cavarlo dai guai, con uno di quelli che, in seguito, diverranno i suoi tipici colpi di genio. 

Come accennato, il lavoro del detective per diletto è, almeno per larga parte del film, quello di scagionare i presunti colpevoli, cosa un po’ insolita per un racconto giallo. Ma, se vogliamo, è proprio questa la natura dei racconti di Ellery Queen: l’analisi deduttiva con una soluzione che, per arrivare, arriva, ma mai in prima battuta, come sarebbe lecito attendersi da una fredda e calcolata analisi degli elementi. La scena, che poi diventerà uno dei cliché dei telefilm di Ellery Queen, vede il giovane uscire dal locale delle indagini, salvo poi rientrare subito dopo con l’intuizione giusta. Un po’ come dire che la soluzione, pur essendo spesso a portata di mano, non è facile da cogliere e, quasi per assurdo, occorra un tipo distratto come Ellery per riuscire a vederla. A far da contraltare a questo approccio, riflessivo e indiretto, c’è il modus operandi di Simon Brimmer (John Hillerman), dedito alle indagini per puro interesse privato in qualità di noto conduttore radiofonico. 

Mentre il giovane Queen si pone il dubbio, Brimmer salta subito alle conclusioni, nel momento in cui crede di aver trovato la pista giusta: inutile dire che le figuracce che rimedia non ne scalfiscano minimamente lo smisurato ego. Tra i personaggi ricorrenti manca da citare almeno il sergente Velie (Tom Reese), lo stereotipo del sottoufficiale di polizia, buono d’indole ma grossolano nei modi e nell’intelletto. Nel finale di Delitto nei quartieri alti, ci sono già i due passaggi che diverranno simbolici della serie: il momento in cui Ellery rompe la Quarta Parete, rivolgendosi al pubblico, e la riunione di tutti i sospettati per svelare il colpevole. Il successo di Ellery Queen è legato a molti fattori: alle intriganti storie, allo stile consapevolmente retrò delle ambientazioni, all’utilizzo di guest star cinematografiche – Ray Milland, come detto, in questo caso – al senso della misura nell’accostarsi ai temi più ricorrenti legati ai delitti, sesso e violenza. Quest’ultimo aspetto fu uno degli elementi vincenti che venne trovato dagli autori della NBC, al tempo in crisi e in cerca di prodotti televisivi che ne risollevassero le sorti. Proprio l’equilibrio tra i temi è l’elemento cardine di una serie che interpretava al meglio l’idea che il mezzo televisivo stava, in quegli anni Settanta, incarnando. La televisione era l’elemento domestico per eccellenza, il nuovo focolare. Sì, quindi, ai temi d’attualità, come gli omicidi, ma senza eccessi di sesso e violenza; giusto qualche allusione. L’aspetto famigliare del mezzo televisivo era poi avvalorato dal complice sguardo in macchina di Jim Hutton, nella scena in cui si rivolgeva agli spettatori chiedendo loro se avessero capito chi fosse il colpevole. La riunione finale, con tutti i protagonisti della vicenda, era una sorta di riassunto e permetteva a qualunque spettatore, anche ai più distratti, a quelli che guardavano la tv mentre erano intenti in altre faccende, oppure a coloro si sintonizzavano in ritardo sul canale, di comprendere il succo del discorso. La bravura degli autori e degli interpreti, fu piegare a fini indiscutibilmente artistici, motivazioni meramente di audience. Hai detto niente. 



Nancy Kovack


Kim Hunter


Gail Strickland




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