80_L'ARCANO INCANTATORE Italia, 1996; Regia di Pupi Avati.
Rosa di rose, fiore di
fiore, donna di donne, signora di signore, questi pochi versi di una poesia
medioevale di Alfonso X, detto El Sabio, modulati con una flebile voce
femminile su una nenia simile ad una cantilena, mettono davvero i brividi e ci introducono degnamente nel clima misterioso e
angosciante del film L’arcano Incantatore,
di Pupi Avati. Ci troviamo in una residenza oltre un imponente cancello,
varcato il quale il protagonista dell’opera, Giacomo Vigetti (uno spaesato
Stefano Dionisi) cercherà invano di salvarsi dalla punizione terrena del
Tribunale Ecclesiastico, finendo, al contrario, per perdere la propria anima.
“Il maligno non si fa mai
servitore, se non per essere maestro” sono parole del parroco di Medelana e
sono la chiave dell’intrigo che è narrato nel lungometraggio di Avati. Il giovane seminarista
Giacomo è in una situazione critica, avendo messo in cinta e poi costretto
all’aborto una ragazza; nel suo tentativo di trovare riparo, viene allora in
contatto con la misteriosa figura che gli recita la suddetta poesia medioevale,
e che gli si presenta dietro un separé con la raffigurazione di un allocco, un
uccello simile al gufo. Il paravento (una falsa parete) vuol forse indicare la
falsità dell’offerta e il rapace è sinonimo di chi non è troppo accorto e può
essere ingannato agevolmente: indizi che lasciano presagire il peggio quando
Giacomo stipula un patto di sangue
con la donna, della quale vede solo gli occhi e la femminea mano.
Una mano che, pur se ornata di pizzo nero e con le
unghie smaltare, porta i segni dell’età; mentre la mano del seminarista recherà
da quel momento in poi la sanguinante ferita a sancire il legame col maligno. Il
tema della mano ritornerà anche in seguito, con il sacerdote monco, e sarà
proprio il particolare che permetterà di distinguere l’inganno di cui è vittima il giovane. Stipulato
questo legame con l’oscura dama, Giacomo prende servizio presso un anziano
monsignore spretato, Achille Sanuti (Carlo Cecchi) in sostituzione del
precedente bibliotecario, Nerio, recentemente morto. Il monsignore, dedito agli
studi demoniaci, è noto come l’Arcano
Incantatore e vive in un isolato e tetro castello sugli Appennini.
Sono quindi grosso modo questi i personaggi in
gioco: il giovane protagonista; la misteriosa signora, (una strega?); Nerio, il
servitore morto (di cui si dice tutto il peggio possibile); e infine l’Arcano Incantatore, il monsignore
ripudiato dalla Chiesa per i suoi studi sull’occulto. In realtà c’è solo
Giacomo e un malefico individuo che, presentandosi sotto mentite spoglie, inganna, incanta e, mentre offre una via di salvezza,
conduce piuttosto alla perdizione. Pupi Avati dirige questo film con il suo
tipico stile ruvido e sinistramente bucolico e riesce a rendere questi elementi poveri un
valore positivo nella resa generale dell’opera.
Le notti nel castello fanno davvero paura e la
presenza del monsignore incute profondo disagio anche nello spettatore e non
solo nel povero Giacomo. La trama è appena abbozzata e anche non chiarissima,
vuoi per il ritmo lento, per la mancanza di un forte traino narrativo e per i
dialoghi spesso sussurrati e registrati in presa diretta e quindi non sempre
pienamente comprensibili. Ma se questi aspetti possono affliggere un po’ lo
spettatore abituato a prodotti di più facile approccio, in compenso aiutano a
creare un’atmosfera tetra e angosciante che replica in modo convincente
l’ambientazione rurale dell’Italia del XVIII secolo. Pollice alzato, insomma. E poi L’Arcano Incantatore non solo è un bel film: è anche l’occasione di
salutare il ritorno all’horror di
uno più illustri interpreti italiani del genere.
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