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lunedì 5 ottobre 2020

GLI ARISTOGATTI

645_GLI ARISTOGATTI (The Aristocats)Stati Uniti, 1970. Regia di Wolfgang Reitherman.

Walt Disney morì nel dicembre del 1966 e Gli Aristogatti è quindi considerato il primo classico interamente realizzato dopo la sua scomparsa. Alla direzione del film troviamo quel Wolfgang Reitherman che, dopo un paio di collaborazioni con altri, aveva ormai assunto il ruolo di regista di fiducia di casa Disney. La prima impressione, guardando oggi Gli Aristogatti, è che si tratti di un’opera conservativa: bisognava in effetti superare il momento critico legato alla scomparsa del fondatore e questo sconsigliava voli pindarici in chiave artistica. La lezione di La bella addormentata nel bosco, e il suo buco finanziario, era sempre ben presente nei Disney Studios e il nuovo stile grafico proseguiva nel solco di un sostanziale contenimento dei costi. La bravura degli autori della Disney, in quegli anni, era stata sempre quella di far coincidere questa propensione al risparmio con uno stile moderno, più dinamico, stilizzato e frizzante. In Gli Aristogatti questa matrice è evidente soprattutto negli sfondi mentre alcuni personaggi, ad esempio gli animali protagonisti, riprendono la linea tondeggiante del vecchio corso, ma forse sono solo dettagli contingenti: ad esempio potrebbe essere una scelta per conferire ai gatti protagonisti un’aria ben nutrita che si addiceva al loro rango sociale. Perché la padrona di villa Bonfamille, Madame Adelaide, è la versione buona (come da nome di famiglia) della Crudelia De Mon de La carica dei cento e uno: dove quella era sbilenca, questa mantiene le linee dell’eleganza anche estetica, ma in fondo ha una matrice simile. E’ cioè una versione stilizzata (qui si nota il nuovo corso stilistico) in chiave positiva di una dama di gran classe esattamente come l’altra ne era la degenerazione. 

Così i tratti a matita, spesso molto evidenti, non sono limitati ai soli sfondi: è proprio l’esaltazione del nuovo corso Disney che ha però le radici proprio nel classico che, nelle sue conseguenze non lusinghiere alla voce costi di produzione, affossò l’assoluta ricercatezza e cura formale per un nuovo stile più sostenibile. Esempio lampante di ciò, Frou-Frou, la cavalla che traina la carrozza di Madame, riprende lo stile medioevale de La bella addormentata nel bosco che introduceva in modo esplicito un’elegante stilizzazione, evidentissima appunto nei destrieri, che poi i successivi film, se sconfesseranno, giocoforza, la magniloquenza del più maestoso classico di Walt Disney di sempre, utilizzeranno al contrario per alleggerire la ricercatezza formale. 

A livello di architettura di base Gli Aristogatti sembra davvero un prodotto confezionato a tavolino per andare sul sicuro. Da La carica dei cento e uno (1961) è presa l’idea degli animali rapiti dagli umani; da Lilli e il Vagabondo (1955) il tema d’amore tra esponenti di ranghi sociali diversi; il jazz ricorda qualche passaggio de Il libro della giungla (1967), e poi ancora una capitale europea, stavolta Parigi e altre analogie simili che, per la verità, sono anche perfettamente legittime di per sé stesse e non avrebbero bisogno di particolari motivazioni. Ma l’impressione che i rimandi ai due classici di matrice canina siano fondati resta tutta: anche perché c’è un tentativo, giustificabilissimo, di occultarlo con una sostanziale modifica che prova a ribaltarne l’aspetto formale. In luogo dei cani vengono infatti ingaggiati i gatti, Gli Aristogatti appunto, e cani e gatti sono in genere considerati in antitesi e in quest’ottica va visto il tentativo di smarcarsi dagli ingombranti riferimenti. 

A questo punto subentra l’aspetto che, a vederlo oggi, è il più interessante dell’opera, anche se potrebbe avere solo una motivazione narrativa nel senso che si è appena detto. Se il cane ha un carattere solitamente tanto socievole dall'essere inteso come popolare, il gatto ha un atteggiamento più nobile, aristocratico appunto. E l’idea di ambientare la famiglia di gatti, Duchessa e i tre micetti, Minou, Matisse e Bizet, presso una casa dell’aristocrazia, rafforzando quel concetto, è forse soltanto un ulteriore tassello per rendere peculiare la storia narrata nel nuovo classico. Però, anche se così fosse, questo è un elemento che depone a favore dell’ingenuità sincera della Disney che, in piena lotta di classe (è il 1970) propone come eroi del proprio film esponenti della nobiltà quando era in piena contestazione addirittura il più moderno modello borghese. 


Se per i gatti la cosa può sembrare relativa (ma mica tanto, visto che sono personaggi quanto e più degli umani), stupisce la caratterizzazione di Madame Adelaide Bonfamille: l’ex cantante dell’opera è una splendida donna che non ha perso un grammo di fascino con l’avanzare dell’età. La sua figura sembra ritagliata su quelle dame di un tempo, ad esempio quella protagonista de I gioielli di Madame… (capolavoro  del 1953 di Max Ophuls con Danielle Derraux nei panni della nobildonna). Madame Adelaide ha l’eleganza della Derraux dei momenti più fulgidi del film di Ophuls, avendo avuto la fortuna di invecchiare mantenendo intatto tutto il suo charme. 

E l’avvocato George sembra proprio l’ultimo (rimasto in vita) di quei corteggiatori che Madame forse, proprio come la protagonista del film di Ophuls, teneva in sospeso con un sapiente uso di quella che là veniva definita con ironia sagace crudeltà della speranza. Un semplice gioco del corteggiamento, niente di drammatico ma, in ogni caso, di crudele la Madame Adelaide che vediamo ne Gli Aristogatti non ha invece proprio nulla. Non si rende nemmeno conto che il suo maggiordomo Edgar è il cattivo della storia, accetta di buon grado il nuovo venuto, Romeo, sebbene non abbia certo un pedigree nobile, e decide addirittura di aprire villa Bonfamille ai gatti randagi. Alla faccia della rivoluzione sessantottina. 

Il tema del denaro, uno degli elementi alla base della contestazione dell’epoca, è però in realtà cruciale nella storia: è proprio il desiderio di accaparrarsi l’eredità di Madame che trasforma Edgar in criminale, perché nella prima sequenza sembra tutto sommato un brav’uomo. I rischi della ricchezza sono quindi mostrati dal classico Disney seguendo la funzione pedagogica intrinseca ad un film destinato ai ragazzi: il denaro non è il male assoluto, ma può indurre in tentazione e rovinare l’animo delle persone. E’ questo assunto che è importante, ancora di più se emerge in un film per ragazzi all’alba degli anni 70: sono le scelte delle persone a fare la differenza e non la loro appartenenza alle classi o la possibilità di divenire ricchi. Oggi ci si può rendere conto come questo discorso fosse più utile rispetto alla contestazione indiscriminata dei concetti borghesi, perché stimolava la capacità critica nei confronti di chi, avendo la possibilità di infrangere la legge per arricchirsi, lo faceva. Perché è evidente che si poteva anche non farlo; Edgar avrebbe potuto continuare la sua vita agiata di maggiordomo ed ereditare in seguito il patrimonio di Madame. E’ solo la sua scelta arrivista a portarlo fuori dalla storia e dal lieto fine connesso. La contestazione al modello borghese stabilì, al contrario, due steccati contrapposti: quando tanti dei tantissimi contestatori saltarono il fosso, sentendosi quasi legittimati, dalle loro stesse idee pseudo rivoluzionarie, a cambiare idea insieme alla casacca nel momento che passavano oltre la barricata, senza alcuno scrupolo ci portarono dritti dritti negli anni 80. Anni 80 che celebrarono i successi di personaggi come Edgar che, a differenza del goffo maggiordomo, le loro eredità del caso riuscirono ad intascarle a qualunque costo. 



Semplificazioni, d’accordo, ma si sta soltanto valutando quanto fosse lungimirante un film Disney che, forse un po’ incautamente se non proprio ingenuamente, sovvertiva i dettami dell’elite culturale in voga al tempo. Da un punto di vista più squisitamente legato alla riuscita effettiva de Gli Aristogatti sullo schermo, gli autori si trovano comunque di fronte ad una trama esile e sostanzialmente già esplorata dai precedenti che l’hanno ispirata. Inoltre, l’intento è sempre quello di non enfatizzare l’aspetto grafico per contenere i costi. Questi limiti oggettivi fungono però, come molto spesso nella produzione artistica, da sprone a fare per il meglio quello che si può fare e, alla fine, sarà proprio l’estrema cura nei dettagli degli elementi della storia ad elevare anche Gli Aristogatti a classico d’eccellenza dell’animazione targato Disney. I personaggi sono tutti centrati e, se è vero che la storia procede un po’ a compartimenti stagni, i vari passaggi sono tutti ben congegnati. La primissima parte, con l’arrivo in carrozza e poi nella villa, è ben articolata tra siparietti animali, coi micetti che hanno un tipico momento musicale, e il giusto spazio tributato a Madame che, con la scena del testamento a favore dei suoi gatti in prima istanza e solo successivamente al maggiordomo, deve mettere in moto la vicenda del rapimento. 


Rapimento che è il passaggio cruciale che segna la scelta criminale di Edgar ma vede anche la scesa in campo di due personaggi di razza: Napoleone, un cane di Sant’Uberto e il suo sottoposto Lafayette, un bassotto gigante. I due cani, assolutamente spassosi, avranno spazio anche in seguito, quando Edgar tornerà ancora sul luogo del delitto per recuperare cappello, ombrello e cestino, persi nel parapiglia. Poi c’è l’incontro tra Duchessa e i tre micetti e Romeo, ben gestito, e successivamente è il turno delle oche Adelina e Guendalina Blabla, un’altra coppia di figure indimenticabili a cui si aggiunge, in seguito, lo zio Reginaldo, completamente ubriaco e simpatico anche solo per quello. Questi personaggi sono essi stessi la trama che, nel corpo del racconto, è soltanto un mero ritorno a Parigi. Che, non essendo un paesino, una volta arrivati in città ai nostri manca ancora tanta strada per arrivare al quartiere elegante di villa Bonfamille. La sosta forzata per far riposare i poveri micetti, permette così l’entrata in scena al gruppo di personaggi più indovinati dell’intero film: Scat Cat, amico di Romeo e leader di una banda jazz composta da elementi formidabili quali Shun Gon, Hit Cat, Peppo e Billy Boss. L’inevitabile intermezzo musicale rilancia il ritmo del racconto, alternato, in questa fase, da qualche passaggio romantico, il che sembrerebbe inevitabile quando uno degli innamorati in questione di chiama Romeo (ma va detto che nell’originale il micio si chiama Thomas O’Malley ed è irlandese e non romano). Un ruolo importante ce l’ha Groviera, il topo di casa Bonfamille, che in seguito chiama i jazzisti di Scat Cat in soccorso per lo scontro finale con Edgar. Il maggiordomo, che aveva catturato i gatti appena questi erano rientrati a casa, finisce così spedito in Africa proprio in quella cassa che aveva a quel punto preparato per levarsi di torno definitivamente i felini. L’amicizia tra Groviera e gli Aristogatti, sancita già in principio con l’invito al topo ad unirsi a colazione dagli stessi felini, è un altro elemento che segna l’indifferenza del film Disney nei confronti delle divisioni, siano esse di classe sociale o di specie animale. Insomma un film moderno e lucido uscito in uno dei periodi più faziosi della Storia recente. Un classico, mica per niente.  


Adelaide Bonfamille


4 commenti:

  1. caspita, che recensione! quando guardavo questo cartone da ragazzino, non mi rendevo certo conto di tutti questi risvolti...
    però ricordo che i disegni, con quel tratto nervoso in alcuni punti, mi colpivano... hai fatto un'analisi davvero completa, forse non tutto mi è completamente chiaro...ma si vede che è una recensione ispirata da tutta questa baraonda di personaggi :-)

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  2. Grazie Alessandro. A proposito del "non rendersi conto", io credo che sia proprio così che funzioni il cinema per lo spettatore. L'analisi, o comunque le forme di approfondimento, arrivano solo dopo, quando la curiosità è stata stimolata. Inoltre questi grandi film "funzionano" alla grande indipendentemente dal fatto che lo spettatori ci si soffermi a riflettere.

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  3. la Disney ha messo il bollino rosso agli Aristogatti... e anche a Dumbo e Peter Pan :'(

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  4. Il politicamente corretto applicato fuori luogo. Il politicamente corretto, lo dice la definizione stessa, è da applicare in ambito politico e non in quello artistico o altrove. Ma alla Disney devono aver perso un po' la bussola. Come la scelta di rifare i classici a cartoni in film con attori in carne ed ossa. E' un errore tecnico, secondo me, e quindi ben difficilmente può funzionare. La stilizzazione dei cartoni veicolava concetti primari, elementari, che la fantasia dei bambini poteva alimentare. Il disegno ha questa prerogativa. La stessa storia fatta con attori non consente all'immaginazione di lavorare, c'è infatti molto poco da immaginare; di contro, la semplicità narrativa di quelle storie diviene a questo punto un limite castrante. Infatti i film disney di questo tipo mancano proprio di quella magia disney che era il loro marchio di fabbrica. Incomprensibile che facciano simili scelte.

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