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mercoledì 20 aprile 2022

SENTIERI SELVAGGI

1004_SENTIERI SELVAGGI (The Searchers). Stati Uniti, 1956;  Regia di John Ford.

Per comprendere l’importanza di Sentieri selvaggi di John Ford, occorre fare prima alcune considerazioni. Perché si potrebbe facilmente dire che The Searchers, questo il titolo originale, è il western più bello di Ford, oppure il migliore in assoluto o attribuirgli altri titoli virtuali che lo splendido lungometraggio certamente non demeriterebbe mai. Tuttavia, come è ovvio, questi tributi lasciano il tempo che trovano, se non ci si intende su quelli che sono i meriti peculiari di un’opera. Tanto per fare un esempio: è Sentieri Selvaggi un film formalmente perfetto? No di certo, visto che su IMDb la sua pagina degli errori conta oltre settanta voci. Si sa, Ford è sempre stato un regista attento al contenuto (certo, si intende in prima istanza il messaggio del film ma, allo stesso tempo, anche della statura estetica della sua opera) e meno a certi effetti secondari, fini a sé stessi (come l’ossessiva ricerca di una confezione formale ineccepibile). Peraltro, se è vero che qualche nota fuori tono ogni tanto salta fuori, nel racconto filmico, la mano sicura di Ford non molla mai la presa narrativa per cui, anche se sullo schermo i Comanches sono in realtà Navajos o se un personaggio cambia tipo di fucile da una scena all’altra, e via di queste incongruenze, chi si sofferma su questi aspetti è il classico tizio che guarda il dito e non la Luna. Volendo vedere, ci sarebbe da obiettare come sia curioso che anche questa recensione cominci dalle lacune per parlare di quello che è universalmente riconosciuto come un autentico capolavoro. 

Il che è innegabile ma lo scopo è quello di elevare Sentieri selvaggi oltre ad un rango di assoluta superiorità e, quindi provare preventivamente a eliminare ogni possibile obiezione, ogni dubbio che può essere mosso al film di Ford. Perché Sentieri selvaggi è, cinematograficamente parlando, un testo sacro: la bibbia del cinema western. E, per estensione, essendo il western il genere classico per antonomasia, del cinema in assoluto. A proposito di classicità: si ritiene il western classico quello che rappresenta la Golden Age del genere, ovvero quello degli anni Cinquanta che subentrò al western romantico del decennio precedente. Negli anni del pieno secondo dopoguerra gli Stati Uniti assursero a potenza leader mondiale e il western celebrò tale ascesa con una funzione epica, con i classici film coi cowboys degli anni Cinquanta, appunto. John Wayne fu l’attore che più di ogni altro interpretò la figura dell’eroe americano tutto d’un pezzo, imbattibile e dalla parte della ragione per definizione. James Stewart o Gary Cooper, ad esempio, validi esemplari di eroe americano visti al cinema nello stesso contesto, avevano in genere già qualche increspatura, qualche segno di dubbio o finanche di debolezza. Il Duca era granitico. Poi, con i Sessanta (e si può azzardare a dire con I Magnifici Sette di John Sturges) si entra nella fase crepuscolare del western, con un nuovo tipo di eroe, (nello specifico dell’esempio citato più Steve McQueen che Yul Brynner), per finire poi con il contro-western (che provava a rinnegare i presupposti del genere) e la deriva italiana, gli spaghetti-western ultimo filone significativo prima della fase metalinguistica che perdura ancora oggi ormai ad evoluzione esaurita. L’ultima corrente riconoscibile all’interno del genere, quella italiana, si contraddistinse per alcuni elementi: l’incertezza dei personaggi positivi (quando non la totale mancanza degli stessi), l’estrema violenza mostrata (spesso stilizzata), e la vena umoristica (a volte fuori registro). Sorprendentemente, nel 1956, in piena epoca d’oro del western classico, Sentieri selvaggi di John Ford con protagonista John Wayne, contempla già tutte le variabili che il genere assumerà nel tempo, perfino quelle della corrente più distante, per stile e contenuti, che si sviluppò in Europa negli anni Sessanta e Settanta. 

Questo, senza venir meno ai propri stilemi di classicità. The Searchers è indiscutibilmente un western classico: lo è per l’epicità della storia narrata, per la statura gigantesca dell’eroe, per il paesaggio classico per antonomasia, la Monument Valley, scelto per estremizzare il valore simbolico della vicenda (da un punto di vista logico-narrativo, cosa ci fanno infatti i coloni nel deserto dell’Arizona?), e per la musica strepitosa di Max Steiner oltre a tutta un’altra serie di elementi. La musica è già un elemento cruciale, per capire come Sentieri selvaggi sia al contempo opera classica e definitiva, che contempla cioè già tutte le considerazioni, gli sviluppi e le evoluzioni del genere. 

Pur se Steiner scrisse un motivo di fortissimo impatto emotivo, davvero struggente, nel film la sua forma più orecchiabile viene usata tutto sommato poche volte, in genere nei momenti nei quali l’eroe ritorna a casa o comunque c’è un ricongiungimento, come nel momento cruciale della storia. A questo proposito, pare che la sceneggiatura originale prevista fosse diversa dalla versione definitiva rimasta sulla pellicola. La scena è quella in cui Ethan Edwards (John Wayne), ritrova per la seconda (e definitiva) volta sua nipote Debbie (Natalie Wood, incantevole), rapita e cercata per sette lunghi anni (The Searchers, i ricercatori, fa appunto riferimento a questo). Edward, un uomo intriso di odio razzista verso i nativi americani, è lì per uccidere Debbie, ormai corrotta dall’essere divenuta una delle squaw di Scar (nella versione italiana Scout, interpretato da Henry Brandon), feroce capo Comanche. 

Nel copione di Frank S. Nugent, l’uomo punta la pistola alla testa della giovane dicendole: “mi dispiace, ragazza, ora chiudi gli occhi.” Debbie, però, sostiene lo sguardo dello zio che, a quel punto, cede. Il “sei tutta tua madre”, che sanciva la sua re-umanizzazione, doveva far anche riferimento alla storia sentimentale solo suggerita in principio tra l’uomo e Martha, madre di Debbie e cognata dello stesso Ethan. Ford elimina questo dialogo, si affida ad una ripresa in campo lungo e, soprattutto, allo struggente motivo sonoro di Steiner che sottolinea il ritorno a casa di Ethan. L’uomo torna a riconoscere Debbie come sua nipote (dopo averla diseredata nella scena del testamento), si ricongiunge a lei nell’abbraccio che riprende quello di inizio film e si riappropria di un minimo di umanità dopo le nefandezze con cui ha impestato il lungometraggio. La potenza evocativa della musica di Steiner permette a Ford di condensare tutto ciò in una breve scene vista da lontano: il massimo concetto di classicità a cui si può ambire. E’ evidente che qualcosa suona però poco chiaro: com’è possibile parlare di western classico quando il protagonista, l’eroe della storia, vuole ammazzare a sangue freddo sua nipote? 


E’ per questo che, per affrontare Sentieri selvaggi, va fatta una premessa sulle possibili critiche o obiezioni: il capolavoro di Ford è una completa forzatura, un tentativo, riuscito alla grandissima, di adeguare forma e contenuto, dando priorità assoluta al secondo e affidandosi alle capacità tecnico-artistiche dello stesso regista, di Wayne, di Steiner e via via di tutti gli altri, per non tradire lo spirito del genere western. Wayne è, infatti, strepitoso in quella che giustamente ritenne la sua migliore performance attoriale. La grandezza del Duca è che non enfatizza affatto il suo stile recitativo: Ethan Edwards è un tipico personaggio alla Wayne, né più né meno degli altri che si vedono nei suoi western. Sono le sue scelte a renderlo un individuo fortemente discutibile, anzi condannabile senza ogni dubbio; ma la sua affinità col suo solito ruolo fa assumere, a posteriori, a quella certezza di essere nel giusto che i suoi personaggi incarnavano, una vena sinistra. E se fosse sempre stato anch’esso un azzardo, il dogmatico aver ragione dei suoi tanti ruoli a cui invece, in buona fede, avevamo creduto? In Sentieri selvaggi il personaggio di Wayne sciorina un campionario di azioni esecrabili: uccide gli indiani che si soffermano a ritirare i caduti dopo una battaglia, spara ai bisonti per affamare gli stessi indiani, lascia il nipote adottivo Martin Pawley (Jeffrey Hunter) a far da esca inconsapevole ad un agguato mortale. Nipote che disprezza perché è un sangue misto e, come detto, vorrebbe addirittura uccidere Debbie, anch’essa sua nipote, perché è divenuta una Comanche. Le sequenze che vedono sulla scena Look (Beulah Arculetta), la donna indiana che diviene la squaw di Martin in seguito ad un malinteso, testimoniano del razzismo della peggior specie di cui è intriso Ethan. 

Nel suo mostrare eccessiva riverenza verso la donna, che chiama rispettosamente Mrs Pawley, c’è l’evidente intenzione di schernire Martin, fondando lo scherzo sull’equivoco, e fin qui non ci sarebbe da ridire, ma anche sul fatto che il nipote sia già di sangue misto. Come dire, sottolineandolo con la sua ostentata compiacenza, che la sorte, nel fargli trovare una squaw senza alcuno sforzo, è stata giusta nei confronti del ragazzo perché, in fondo, è quello che gli spetta. In tutto questo atteggiamento ipocritamente ossequioso non c’è nemmeno l’ombra, o il sospetto di un’ombra, dei sentimenti e delle emozioni che può provare Look in quei frangenti. Per Ethan, la povera ragazza, vale meno di zero. L’umorismo politicamente scorretto del protagonista che impregna queste scene è in parte già stigmatizzato, per bocca di Martin, nel corso del film, mentre una ironia più sana e tipica di Ford alleggerisce costantemente il tono di una vicenda lungo il racconto che, diversamente, sarebbe eccessivamente plumbeo. In sostanza lo stesso stratagemma che nel suo sviluppo il western, come genere, adotterà spesso quando gli eccessi violenti arrivarono a minarne la natura alla base. Anche il ricorso alla stilizzazione fu uno degli escamotage che gli spaghetti western utilizzarono per rendere accettabile (dalla censura, d’accordo, ma anche moralmente) l’estrema violenza che infestava gli schermi dei loro film. 

Un’idea già avuta da Ford che, per il suo Sentieri selvaggi, testo come detto davvero estremo, utilizza lo scenario più naturale possibile (del resto la Natura, incarnata anche da Scar e dai Comanche, è uno dei protagonisti dell’opera) ma con uso forzatissimo dei colori rende spesso l’aspetto delle scene quasi artificiale. Tornando alla condotta dell’eroe della storia, le azioni peggiori, da un punto di vista morale, sono altre rispetto alle citate e, nel racconto, hanno un’importante funzione narrativa; in chiave etica la loro gravità è enorme soprattutto perché si tratta di gesti completamente gratuiti. Perché, perfino ammazzare Debbie poteva avere un senso, nella logica aberrata di Ethan, secondo il quale era meglio morire che vivere come un’indiana. E, visto che la ragazza era sua nipote, egli era convinto di farle una specie di favore sparandole in testa. 

Quando invece Ethan scalpa il cadavere di Scar, ucciso in precedenza da Martin, non ha alcuna motivazione utile, neppure secondo la sua distorta ottica: da un punto di vista simbolico, egli compie forse l’ultimo gesto che gli mancava per pareggiare (l’indiano aveva scalpato i parenti di Edward) il suo duello con il capo Comanche che, sostanzialmente, è una sorta di suo alter ego. Il confronto Ethan – Scar, reso esplicito nella scena nella tenda dell’indiano con i due che si fronteggiano quasi a toccarsi, interpreta lo scontro Civiltà – Natura che si verificò durante la Conquista del West e che è uno dei temi principali della poetica di Ford. La Natura (i Comanche e gli indiani in genere) dell’America è violenta e solo con gente violenta (come Ethan) quanto i suoi originali abitanti (Scar) si può sperare di fondare una società pacifica. Proprio il gesto estremo di Ethan, condannabile senza se e senza ma, serve a livello narrativo per spingerci a dire che l’uomo non è migliore del selvaggio che ha sfregiato da morto. Per la conquista del west, per fondare la grande nazione americana, era necessaria una violenza che non era, però, in alcun modo giustificabile. Sarebbe stato diverso, o comunque minore come intensità del concetto espresso, se Ethan avesse ammazzato Scar e nell’enfasi dello scontro ne avesse preso lo scalpo. Brutale ma non come il cercare il nemico, trovarlo cadavere, e soffermarsi per un ultimo atto barbaro, vile e ignobile. 

Un altro gesto inqualificabile del protagonista di Sentieri selvaggi arriva quasi in avvio, durante le prime fasi della ricerca delle ragazze rapite dai Comanche. Il gruppo di Rangers guidato dal capitano Clayton (Ward Bond, bravissimo, al solito) trova una pietra sotto la quale è sepolto uno dei Comanche rimasto ferito mortalmente nella scorreria. Trovatosi di fronte finalmente uno dei feroci e sfuggenti predoni, ad uno dei membri del manipolo sfugge il controllo e colpisce rabbiosamente il cadavere indiano. Clayton, che è anche il reverendo della comunità, lo placa subito; Ethan, che sopporta malvolentieri l’autorità del capitano, interviene in una scena di rara brutalità. In sella al suo cavallo, estrae la pistola e spara agli occhi del cadavere comanche. 

Clayton lo redarguisce, sfregiare un morto è un atto ignobile e inutile, uno sfoggio di crudeltà insensato. Ma Ethan insiste: per i Comanche si tratta di una cosa grave, visto che il povero cadavere si troverà costretto a vagare per l’eternità nel vento senza pace. La cosa, detta proprio da quell’uomo che, nel film, sembra curarsi ben poco delle credenze religiose della società americana (interrompe bruscamente un funerale e irrompe durante un matrimonio) è paradossale oltre che difficilmente superabile in fatto di ignominia. Chissà se in tutta le deriva degli spaghetti western, una corrente spesso votata alla ricerca strenua di violenza e crudeltà fini a sé stesse, qualcuno dei personaggi che vi si trovano si renderà autore di un’azione concettualmente tanto deplorevole. 

Il personaggio di Wayne rovescia di segno quel tipico e diffuso atteggiamento per cui spesso si accetta di fare la cosa giusta insegnata dalla religione anche se non si è del tutto convinti e credenti: vedi mai. Ecco, Ethan, un uomo che non pare troppo ligio alle consegne religiose (banale ma significativo esempio, quando apre il bar durante il citato matrimonio), si comporta come prestasse fede alle credenze di gente che disprezza pur di avere qualche chance di recar loro danno. Nel finale, si troverà a pagar duramente, per questa (e per le altre) violenze distribuite. Forse necessarie, si diceva, per la conquista del west, ma intollerabili in una società civile che volesse insediarsi in quell'ovest una volta conquistato. 

Questa sintesi si concretizza nella scena finale, che riprende in modo evidente lo strepitoso incipit del capolavoro fordiano. Il film si apre con l’inizio grave della musica di Steiner, coi titoli di testa che scorrono su un muro di mattoni. Scelta spiazzante per un film che sarà girato prevalentemente in esterni e in uno scenario dei più belli e aperti al mondo. Quasi che Ford volesse mettere il western spalle al muro, davanti alle proprie responsabilità. Poi la musica cambia registro, comincia una classica e melodica ballata western finché si arriva allo schermo nero sul quale campeggia forse l’incongruenza più famosa di Sentieri selvaggi (Texas 1868, quando la Monument Valley è in Arizona). 

La ballata ora è finita e dal nero dello schermo si apre una porta sul tipico paesaggio del south west americano. La sagoma di una donna, una colona col suo tipico vestito, si staglia sulla soglia e, mentre nella colonna sonora il pezzo forte di Steiner attacca implacabile, usciamo sulla veranda insieme alla padrona di casa. La pelle d’oca, se avete già visto altre volte il film in precedenza, è già alta un centimetro. La donna è Martha (Dorothy Jordan); sullo sfondo un cavaliere avanza lentamente; è naturalmente Ethan. Sotto il portico arriva anche il marito della donna, Aaron (Walter Coy), fratello del protagonista del film, e poi i figli, perfino il cagnolino di casa: la scena è strepitosa perché nelle incertezze, negli sguardi distolti, nelle attenzioni, si delineano in modo inequivocabile i rapporti dei personaggi. La veranda dove è ambientato il finale è invece quella dei Jorgensen, una famiglia in strettissimo rapporto con gli Edwards, consolidato dalla relazione tra Laurie (Vera Miles) e Martin. Ethan consegna Debbie a Maria (Olive Carey) e Lars Jorgensen (John Qualen), e rimane titubante sulla soglia, quando arrivano Martin e Laurie, finalmente felici nella loro unione, loro sì autorizzati ad entrare. Soffia il vento, sul South West americano, mentre Ethan se ne va, prima che si chiuda la porta alle sue spalle. Vengono in mente le parole dello stesso Ethan, quando aveva sparato agli occhi del cadavere del Comanche.
E si comprende che non erano destinate all’indiano. 
























Natalie Wood




Vera Miles 





Dorothy Jordan



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