1133_GREEN BOOK . Stati Uniti 2018; Regia di Peter Farrelly.
Dagli anni Cinquanta fino all’esplosione delle contestazioni sessantottine la società americana, e quella occidentale di riflesso, visse quella che, ripensandoci oggi, si può definire una vera e propria golden age. Per questo si possono trovare riscontri oggettivi, il primo e il più indicativo è il benessere via via sempre più diffuso tra la popolazione, ma va detto che forse la memoria potrebbe leggermente ingannare, riportandoci alla mente un periodo più roseo di quel che era. Come può accadere in molti film ammantati da una certa nostalgia. In effetti Green Book, film di Peter Ferrelly ambientato in quel periodo, ci presenta una New York, classico biglietto da visita dell’America, talmente bella da sembrare fatata. Le auto, le meravigliose automobili americane degli anni Cinquanta/Sessanta, che si vedono percorrere le strade e i ponti della Grande Mela, sarebbero un motivo sufficiente per amare il film di Ferrelly. Anzi, basterebbe la Cadillac Sedan DeVille del 1962, forse addirittura la vera protagonista del road movie ambientato sulla strada verso il profondo sud degli Stati Uniti, per innamorarsene. Ma già il titolo del film ci riporta alla realtà: il Green Book citato è una sorta di guida di viaggio per persone di colore qualora avessero avuto, all’alba di quei meravigliosi anni Sessanta, la malsana idea di andare a farsi un giro negli ex paesi confederati. Che è proprio quello che intende fare il pianista di successo Don Shirley (Mahershala Ali, formidabile) che, giova ricordarlo, uomo di colore lo è. L’aggravante a questa già situazione critica è che Don è un musicista classico, non un più prevedibile jazzista o comunque un artista che si muovesse nell’ambito della canonica musica degli afroamericani, all’epoca in piena esplosione.
La musica classica, e la musica classica al pianoforte, era considerata privilegio dei bianchi; Don, del resto, era lui stesso un privilegiato, almeno a livello economico, essendo divenuto ricchissimo con le sue capacità artistiche. Ma questo, nel sud degli Stati Uniti, costituiva un ulteriore problema. Va detto che Don è consapevole (di parte) dei problemi a cui va incontro, ma nel sud ci vuole andare lo stesso proprio per dimostrare a quei razzisti che un nero può tranquillamente essere ricco e suonare musica classica al pianoforte. E farlo nei locali più esclusivi: questo deve essere accettato come naturale e, quindi, tanto vale cominciare a comportarsi come se lo fosse.
Oddio, forse un aiuto può servire, per smussare eventuali asperità lungo la via, e proprio per questa ragione ecco entrare in scena l’autista tuttofare ingaggiato da Don: Frank Tony Lip Vallelonga (Viggo Mortensen, al solito, monumentale), italoamericano che in genere fa il buttafuori ed è provvisto dell’eccezionale capacità di risolvere sbrigativamente i problemi. Il soggetto del film di Ferrelly, ispirato alle vere gesta dei due personaggi storici in questione, verte su una serie di contrapposizioni: la più evidente è quella tra Don, nero, e Frank, bianco, ma ce ne sono molte e a vari livelli. Ad esempio è nota l’intolleranza tra la comunità afroamericana e quella italoamericana, da cui provengono i due personaggi; poi c’è la contrapposizione rispetto al tipico cliché (narrativo?) visto che qui il bianco è l’uomo al servizio e il nero è quello al potere. In questo stesso solco si inseriscono tutte le altre differenze tra i due uomini, ricchezza, stato sociale, educazione, appetito, gusti sessuali, insomma, due personaggi agli antipodi. Volendo si può cogliere il lavoro del regista per amplificare quest’idea di contrasto anche fuori da ciò che è rimasto sullo schermo. Se prendiamo infatti i due attori, possiamo vedere che Ali interpreta un ruolo decisamente diverso da quello per cui vinse l’Oscar per Moonlight (2016, regia di Barry Jenkins), e ancora più fuori dai suoi canoni è Mortensen.
Tra l’altro, quest’ultimo, si rivela nella parte strepitoso nonostante in teoria, con le sue origini scandinave e il suo aspetto, tutto potrebbe fare tranne che ricordare un italoamericano; oltretutto in un film che, se non l’abbiamo detto ancora esplicitamente poniamo subito rimedio, si presenta in modo talmente ben confezionato da essere al limite del manieristico. Anche perché con tutto questo capillare e maniacale lavoro di Ferrelly per mostrarci le apparentemente inconciliabili differenze tra Don e Frank, è prevedibilissimo che tra i due nascerà un’amicizia. C’è poco da fare: Green Book è un film ruffiano, che l’ambientazione nostalgica e curatissima e le superlative prove d’interprete di due fenomeni come Ali e Mortensen rendono digeribilissimo, non senza l’aiuto di un messaggio politico incluso innegabilmente valido e condivisibile. Il punto è: è una storia credibile quella di un’amicizia tra un nero e un bianco? Certamente sì, verrebbe da rispondere, ci sono migliaia, macché migliaia, milioni di esempi. E allora com’è che un pretesto del genere regga una storia in grado a sua volta di sostenere addirittura un film? Qualcosa non torna.
E viene in mente come abitualmente sono, anche in Green Book, presentati gli anni del boom economico, nel nostro caso i Sessanta: le scene newyorkesi, in particolar modo, hanno un fascino irresistibile ma anche la campagna, come nota Frank, è un vero paradiso. Certo, il profondo sud è tutt’altra storia ma anche qui sembra valere il discorso sulla contrapposizione presente nella struttura del film. Va detto che qualche crepa Ferrelly ce la mette, anche nella parte migliore della sua ricostruzione, quella quasi fatata: ad esempio quei due bicchieri usati dagli operai di colore che Frank, schifato in modo un po’ di maniera, mette direttamente nella pattumiera. Ma poi arriva sua moglie Dolores (Linda Cardellini) a rimetterli al loro posto, nel lavello per essere semplicemente lavati.
Insomma, New York e il nord degli Stati Uniti, l’area emancipata del paese, non era razzista come il sud. Non più nei meravigliosi anni Sessanta, quelli dei Kennedy, citati nel film come forza positiva e salvifica. Ma erano davvero così illuminati – si prendano i colori caldi delle immagini del film per farsene figurativamente un’idea – gli anni Sessanta a New York? E, parallelamente, è davvero così condiviso il tema sociale che Green Book prova oggi a veicolare? Siamo davvero così disponibili verso l’altro? Attenzione, non verso un altro specifico che si conosce, con il quale si condividono esperienze, avventure e disavventure, perché proprio questo è il manierismo che si può imputare a Green Book. Troppo facile ammettere che ci può essere amicizia nella felicità o nella disgrazia, se vissute insieme. L’uguaglianza, il rispetto e la condivisione, termine assai di moda e usato nel finale anche dal film, devono esserci a prescindere. E se serve un film ruffiano – bellissimo eh, sia chiaro, ma ruffiano – per farci riflettere e commuovere su questi temi, allora nella migliore delle ipotesi siamo nella condizione di Dolores quando legge le lettere d’amore del marito, con gli occhi lucidi pur sapendo che sono scritte da un’altra persona. Quanto c’è di sincerità e quanto di maniera, di finzione? E chi può dirlo con certezza? Una cosa è innegabile: abbiamo bisogno di crederci.
Linda Cardellini
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