1126_FORBIDDEN GROUND (AKA Battle Ground). Australia 2013; Regia di Johan Earl e Adrian Powers.
L’idea di un film sostanzialmente ambientato nella terra di nessuno, la striscia che divideva le opposte trincee nemiche, è decisamente interessante e abbastanza inesplorata. Al volo viene in mente solo il dimenticato Niemandsland di Victor Trivas del 1931 e va detto che Forbidden Ground nel 2013 non ha poi avuto maggior fortuna in fatto di notorietà. In ogni caso è in quella maledetta zona di terra che passa la maggior parte del tempo del film Johan Earl protagonista del film, nonché coregista e cosceneggiatore, che interpreta il sergente Arthur Wilkins. Insieme al sottoufficiale britannico rimangono intrappolati nella no man’s land il caporale Jennings (Martin Copping) e il soldato O’Leary (Tim Pocock). Il caporale è rimasto mutilato ad una gamba durante l’assalto, il soldato terrorizzato; Wilkins tiene botta e convince, con le buone e con le cattive, O’Leary ad aiutarlo nel salvataggio di Jenning. Il problema è che il comando britannico ha già deciso, visto la prevista inefficacia degli assalti (tra cui quello della squadra di Wilkins) che alle nove di sera un fuoco d’artiglieria spazzerà via tutta la zona. Il tenente (Damian Sommerlad) era stato chiaro con Wilkins: nonostante sia inutile, fate la vostra carica senza atti di codardia, che saranno puniti severamente. No, non è un malinteso: l’ordine è fare la carica anche se è risaputo che sarà perfettamente inutile: poi alle nove ci penserà l’artiglieria. E qui cominciano i primi problemi narrativi: perché va bene che gli ufficiali della Prima Guerra Mondiale non sono passati certo alla Storia per le loro premure nei confronti della truppa, effettivamente mandata al macello in innumerevoli occasioni. Ma in questo caso il tenente è un filo troppo esplicito, non fosse altro per avere un minimo di credibilità.Tuttavia il racconto regge; certo,
non aiutano le tante sciattezze distribuite in modo un po’ imbarazzante, da un
moderno bancale che si intravvede nella trincea, all’orologio al quarzo di
Wilkins che, ad un certo punto, diventa protagonista del film ed è impossibile
non notarne l’eccesiva modernità. Il sergente, insieme ad O’Leary, sta infatti
cercando di riportare indietro Jenning che, senza una gamba e ancora
sanguinante, non può muoversi e non è quindi una cosa che vada per le spicce.
Ma alle nove l’artiglieria scatenerà l’inferno e, quindi, il sottoufficiale non
fa che guardare il suo orologio sottolineando in questo modo l’incongruenza. Ci
sono altre inesattezze ed effetti speciali poco convincenti ma alla fine non è
tanto il singolo errore in sé stesso che infastidisce ma tutta quanta la
ricostruzione a perdere un po’ di credibilità quando queste continue distrazioni
fanno capolino.
Però Forbidden Ground non è così malaccio anche se è un
altro il motivo che lo rende tanto interessante quanto controverso. Ad un certo
punto, la storia si sdoppia, con la scusa della foto della moglie Grace (Denai
Gracie) che Wilkins porta sempre con sé; assistiamo quindi ad alcune scene
della vita della donna mentre il marito è in guerra. Fin qui, niente di nuovo;
se non che, dopo uno spiazzante inserto che scopriamo essere un sogno, salta
fuori che la donna è incinta. Siamo nel 1916 e il marito è un veterano della
prima ora, arruolato, perciò, presumibilmente nel 1914; e non ha avuto licenze
negli ultimi mesi. Insomma, non è dato sapere chi sia il padre del nascituro ma
un elemento certo è che il bambino non è del sergente.
La donna decide quindi
di abortire; non tanto per sé, ma per non deludere l’amore del marito,
mettiamola così (in realtà la avrebbe già fatto, ma tant’è). In ogni caso il
dottore la visita e, visto che è in buona salute, rifiuta di praticare l’operazione.
Gli autori continuano imperterriti su un terreno assai pericoloso in quanto,
allo stato attuale, quello dell’aborto non è un tema su cui si possa
argomentare o porre dubbi. E poi, in effetti, in Forbidden Ground Earl e
Adrian Powers si spingono ben più in là di esternare una forma di perplessità,
proponendo, tramite un montaggio alternato assai serrato, uno stretto paragone
tra la guerra più dura, quella combattuta nella terra di nessuno, e la
pratica dell’aborto. Alla fine, infatti, l’operazione viene eseguita ma non dal
dottore bensì dalla sua assistente Eve (Sarah Mawbey), lasciatasi follemente
convincere dalla disperata insistenza di Grace. L’infermiera aveva assistito sì
ad alcuni aborti, ma questo non faceva di lei una persona competente: così la sua
operazione ha un esito simile alle scene che riguardano il fronte, sangue
dappertutto e morte. Il parallelo è forte e sembra voler assimilare la pratica
dell’aborto a quelle che si svolgono in guerra, anche nel caso, come questo, in
cui la donna sia assurdamente spinta dall’amore per il marito a compiere
l’estremo gesto. Certo, ci sono le varie circostanze attenuanti, le presumibili
rimostranze della famiglia e della società del tempo ma sono accenni e poco
più. E, come detto, questo è un tema assai scivoloso; ecco, se vogliamo, in un
certo senso potremmo dire che, se c’è un merito almeno intenzionale in Forbidden Ground, è forse proprio quello di
avere il coraggio di affrontare un argomento simile anche se, onestamente, non
con la giusta efficacia.
Perché, sull’aspetto etico della questione si potrebbe
forse provare a riflettere serenamente ma le reciproche preclusioni tra le
diverse concezioni non lo consentono. E’, in effetti, un parallelo più
interessante, quello che emerge in questo senso: sull’aborto ci si trova
schierati tra due trincee dove le parti in causa non sono disposte a concedere
nulla all’avversario. In questo senso il parallelo con la terra di nessuno
di Forbidden Ground appare calzante. Fa specie, soprattutto, che la
parti in causa, che si dicono assolutamente convinte delle loro ragioni, non
accettino nemmeno che queste vengano messe in dubbio: eppure la verità non
dovrebbe temere confronti, diversamente si può pensare non lo sia, verità.
Tornando in campo strettamente cinematografico, peccato che gli autori mandino poi
tutto a carte quarantotto per la loro continua mancanza di credibilità
narrativa. Va bene, infatti, che senza coincidenze narrative non avremmo forse
nessuna storia da raccontare ma che in tutta l’Inghilterra capiti che la
ragazza di Jenning, il caporale ferito e poi morto, sia l’infermiera che opera
Grace, moglie di Wilkins, è un po’ troppo dura da digerire. Buon per il
sergente che, una volta ripresosi e spedito finalmente in licenza, con una sola
visita (in carcere) può recapitare alla fidanzata del suo caporale, che gli è
morto tra le braccia, la lettera d’addio mentre può guardare negli occhi la
donna che ha praticamente ucciso sua moglie, visto che sono la stessa persona. Discorso
che non è però altrettanto vantaggioso per lo spettatore. E, d’accordo che pare
il film avesse problemi di budget però, insomma, i soldi per un’interprete per
un personaggio diverso potevano anche trovarli, diamine.
Denai Gracie
Sarah Mawbey
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