1125_UOMINI ALLA VENTURA (What price Glory?). Stati Uniti 1952; Regia di John Ford.
I remake cinematografici sono da sempre operazioni a rischio e possono fare lo sgambetto anche ai mostri sacri, come il John Ford che dirige Uomini alla Ventura nel 1952. Il film è il rifacimento di Gloria, opera del 1926 per la regia di Raoul Walsh; nelle versioni originali si intitolano infatti entrambi What Price Glory. Alla produzione l’idea del remake dovette sembrare agevole: l’originale era un bel film, ma muto e in bianco e nero. Quindi questa nuova versione poteva disporre di questi due elementi in più, messi a disposizione di un grande regista come Ford, certamente di livello superiore al pur bravissimo Walsh. Qualche perplessità viene però osservando il cast: un imbolsito James Cagney, seppure sia stato un grande di Hollywood, non può certo reggere con l’aitante Victor McLaglen degli anni venti nella parte del capitano Flagg. E peggio di lui fanno gli altri del cast nei confronti diretti con gli interpreti di Gloria: nei panni del sergente Quirt, Dan Dailey è la pallida controfigura di Edmund Lowe mentre alla povera Corinne Calvet (è Charmaine) tocca il paragone con un’autentica diva come Dolores Del Rìo. Ford comunque ci mette del suo, nel fiaccare l’operazione: d’accordo, c’è una buona dose di vis comica che serpeggia per il lungometraggio ma stavolta non gli riesce l’alchimia con le tracce sentimentali o avventurose. E, a quel punto, anche le scenette comiche appaiono meri pretesti per portare avanti la solfa senzala solita struttura narrativa tipica del maestro americano a far da contrappunto. C’è un’evidente attenzione all’uso del sonoro che si traduce principalmente negli inni suonati nel passaggio delle truppe, con From the Halls of Montezuma, l’Inno dei Marines, in primo piano. L’uso strumentale del colore, tipico di Ford, unito alla staticità della macchina da presa, rende il quadro narrativo di aspetto teatrale ma, a quel punto, manca la tridimensionalità dei personaggi per funzionare a dovere in quest’ottica. Flagg, Quirt, Charmaine sono figurine, personaggi poco approfonditi tanto che le riflessioni del capitano in trincea, mentre stila un bilancio sulla sua esistenza, suona posticcio o fuori posto. C’è una certa commozione per la morte del giovanissimo soldato Lewisohn (Robert Wagner), ed è forse l’unico passaggio che prova a dare un po’ di corpo alla struttura narrativa, ma nel complesso ci si perde nel piattume generale. Insomma, Ford ha fatto di meglio. Decisamente.
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