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sabato 16 aprile 2022

TOTO' A PARIGI

1002_TOTO' A PARIGI . Italia, Francia, 1958;  Regia di Camillo Mastrocinque.

L’aspetto più originale di Totò a Parigi, film del 1958 di Camillo Mastrocinque, è che la natura dell’opera cambia, agli occhi dello spettatore, più volte. In apparenza, e volendo essere onesti anche nella più consistente sostanza, il film verte sulla verve di Totò, ben supportato dalle affascinanti grazie di Sylvia Koscina. L’attore napoletano è in gran forma, e qui mette a referto anche il memorabile passaggio musicale Miss mia cara miss; la Koscina è nel fiore degli anni e se la cava egregiamente sulla scena. Più articolato il lavoro di Mastrocinque in regia: inizialmente, Totò a Parigi sembra un film sconclusionato. Totò è uno squattrinato napoletano che vive su un albero in riva al Tevere, a Roma; ad un certo punto trova un biglietto per Parigi e parte. Il posto sul treno è riservato, eppure sia il controllore che la misteriosa Juliette (la Koscina) sembrano scambiarlo per il noto barone che aveva prenotato il viaggio. Qualcosa non torna nella trama: poi arriva la gag del ciccione e qualche dubbio sulla qualità dello scritto viene. C’è il corridoio con gli scompartimenti laterali, Totò arriva dal fondo della carrozza, il ciccione in questione in senso opposto. Segue una lunga gag plastica, legata alla contrapposta fisicità dei due interpreti costretti nello spazio confinato, che sarebbe anche divertente se non venisse in parte disinnescata in principio dal fatto che basterebbe infilarsi un attimo in uno scompartimento per evitare la pantomima. I due invece si perdono in un ridicolo ma alla lunga un po’ stucchevole tête-à-tête. Non si fa però in tempo a rimanere delusi dall’idea che la trama possa essere tanto approssimativa perché lo sviluppo successivo cambia completamente le carte in tavola: 

pare che il barone in questione soffra di una sorta di amnesie schizofreniche e ogni tanto pensi di essere uno straccione che vive di stenti in riva al Tevere. Questo farebbe combaciare alcuni tasselli della trama, magari non tutti, come la zingara d’inizio racconto, ma comunque in quantità sufficiente a garantire una visione non infastidita dal pressapochismo. Ma l’intreccio si dipana ulteriormente e rivela un complotto che, questo si, grosso modo rimette tutti i dettagli al loro posto. A questo punto, anche quelli poco spiegati, come i motivi che costringono Pierre (Paul Guers) a prestarsi al gioco del barone, sono accettabilissimi anche nel loro rimanere un po’ oscuri, non essendo poi cruciali nello sviluppo del racconto. Questo lavoro metalinguistico di Mastrocinque, che sembra giocare con lo spettatore anche a proposito della struttura narrativa del suo film, coglie anche la sponda del passaggio in cui lo squattrinato napoletano è chiamato Totò; per un attimo sembra che ci si riferisca all’attore e non al personaggio del racconto. In chiusura, c’è l’ultimo scherzo del regista: dopo che tutti gli equivoci, dentro e fuori la trama del film, sono stati spiegati, rivediamo Totò che si sveglia sulla casa sull’albero, proprio come all’inizio. Per un attimo sembra che possa essere stato tutto un sogno, uno stratagemma piuttosto grossolano, usato in genere nella narrativa un po’ infantile per giustificare le vicende più strambe. Poi dalla finestrella non compare il cupolone romano ma la svettante Tour Eiffel, e anche questo gancio metalinguistico si dissolve. A quel punto Totò scende dall’albero e ripete la stessa scena dell’inizio, stavolta con un gendarme in luogo del carabiniere: Totò è sempre Totò, a qualunque latitudine e con qualunque forma narrativa. 




 Sylva Koscina 






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