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lunedì 1 maggio 2023

LO STRANGOLATORE DI BOSTON (2023)

1267_LO STRANGOLATORE DI BOSTON (Boston Strangler)Stati Uniti, 2023; Regia di Matt Ruskin.

Qual è il compito di un film? Se restiamo in ambito cinematografico, possiamo liquidare la cosa adducendo alla possibilità di espressione artistica, offerta a registi, produttori, attori e via via coinvolgendo tutti quanti cooperano alla realizzazione di un’opera. Naturalmente chi dirige ha maggiori responsabilità, visto che ci mette la firma. Questo aspetto tipico del cinema, ovvero evidenziare chi ha la regia di un film, non è affatto secondario perché perfino i documentari prodotti per il grande schermo ammettono a priori la loro parzialità, il loro sguardo soggettivo. La televisione, da sempre, ha mirato più in alto. Certo, spessissimo anche il cinema ha paventato la pretesa di essere fonte attendibile di verità; mai come la televisione, tuttavia. Lo strangolatore di Boston è un film prodotto per il circuito televisivo Hulu negli Stati Uniti e distribuito in Italia su Disney+; la tendenza attuale vede anche questi lavori nati per lo streaming domestico tendere sempre più ad assumere i connotati formali del cinema per le sale, a cominciare dall’importanza data al regista, in questo specifico caso Matt Ruskin. Eppure, le vecchie abitudini sono dure a morire; infatti, a ben vedere, il nuovo Lo strangolatore di Boston si prende implicitamente la briga di correggere il precedente cinematografico dedicato all’argomento, l’omonimo film di William Friedkin con Tony Curtis e Henri Fonda del 1968. Che è vero, era pieno di inesattezze, se ci si riferisce alla vicenda storica del serial killer – o dei serial killers, a seconda della tesi sposata. Il problema è che se si imposta la propria strategia sulla ricerca della verità, ben difficilmente potremo raggiungerla con un prodotto verosimigliante ma giocoforza limitato da troppi elementi – attendibilità delle informazioni, tempi a disposizione e tutte le altre implicazioni del caso. Lo stesso regista Ruskin ha ammesso che, per condensare una vicenda piuttosto ingarbugliata nelle due ore scarse a disposizione, ha dovuto lavorare un po’ sul soggetto. Cade, in buona sostanza – e sin da subito, ancora fin da prima della fruizione del film – la concreta pretesa di veridicità della storia raccontata che resiste solo nel trailer mandato in onda sui canali televisivi o su internet. Certo, ad onor di cronaca la tagline recita Ispirato a una storia vera ma si tratta della classica formula pilatesca per evitarsi a priori eventuali contestazioni. Ma la sostanza non cambia.

Purtroppo, Lo strangolatore di Boston non racconta per bene le cose come andarono; primo perché nessuno ne è al corrente, secondo perché anche seguire tutti i meandri della vicenda eventualmente conosciuti era impossibile per una simile produzione. Rimane da guardare il film, che dà l’idea di essere un’opera di discreta se non proprio godibile fruizione; perché, onestamente, i presupposti non è che entusiasmino, a questo punto. E la visione non fa che confermare il tiepido pronostico: Lo strangolatore di Boston non è certo un brutto film, ma non convince del tutto. Ruskin, fedele alle regole della fiction televisiva, muove costantemente la macchina da presa: per creare tensione o perché la vera paura, per gli autori di televisivi, è il silenzio della macchina da presa? Forse perché una ripresa fissa permette allo spettatore di pensare, di elaborare; e allora serve anche un autore in grado di lanciare le esche narrative, di stimolare adeguatamente la fantasia di chi guarda. Ma se questo lavoro non sai o non vuoi farlo – o, molto peggio ancora, se preferisci mantenere lo spettatore nella condizione di passività – ecco che muovendo costantemente il punto di ripresa non dai mai una sponda a chi fruisce. Anche simbolicamente: senza un appoggio per riflettere, costringi chi guarda in una sorta di costante stato di precarietà visiva. Il che, per un film come Lo strangolatore di Boston, è anche confacente allo scopo, visto che riesce a creare una forma un po’ malsana di inquietudine. Da buon prodotto televisivo, il film di Ruskin, utilizza poi il cavallo di Troia della rivendicazione femminile, il che in un film sui femminicidi è un po’ un rigore a porta vuota e si fatica a metterlo a referto tra i meriti eventuali dell’opera. Piange un po’ il cuore vedere tra gli interpreti la Keira Knightley di A dangerous method (2011, regia di David Cronenberg) così ordinaria ma, in fin dei conti, non ha fatto altro che adeguarsi al contesto.  


Keira Knightley 



Carrie Coon 


Manifesto alternativo 


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