1274_HORROR . Italia, Spagna, 1963; Regia di Alberto De Martino.
Lo storico cinematografico Roberto Curti definisce modesto il lungometraggio Horror di Alberto De Martino e persino il suo autore ne parla come “un piccolo film senza importanza”. In effetti Horror non è certo un capolavoro e nemmeno un film particolarmente memorabile, questo va chiarito. Tuttavia, a rivederlo adesso, forse anche per le referenze poco magnanime con cui si accompagna, il film di De Martino non lascia affatto tutta questa brutta impressione. Ha ovviamente ragione Curti, sempre assai competente, quando fa notare l’imitazione sussiegosa al gotico letterario oltre ai tanti debiti con lo scrittore americano Edgar Allan Poe – dal protagonista Rodéric (Gérard Tichy) che richiama Il crollo della Casa degli Usher alla sorella Emilie (Ombretta Colli) che finisce per essere sepolta viva. Ci sono poi accenni al mesmerismo e a quelle dottrine che si ritrovano in altri racconti di Poe mentre tutto l’impianto scenografico è imparentato in linea diretta con le contemporanee riduzioni cinematografiche che Roger Corman aveva tratto dal grande scrittore americano. Nonostante quella di De Martino sembri una mera operazione di maniera va però detto che è fatta con scrupolosa attenzione, il che in un ambito in cui la forma è sostanza, come in parte va riconosciuto fu il gotico italiano, è comunque un merito. Perché al di là delle esigenze artistiche, se mai ci siano state, o comunque autoriali, un problema per i cineasti italiani agli arbori degli anni Sessanta è il modo con cui essi potevano approcciare al cinema. Se il cinema italiano offriva sponde per un approdo più propriamente autoriale, con il neorealismo e i suoi derivati o con il cinema impegnato, per chi avesse una sensibilità diversa rimaneva solo la commedia, visto che il peplum storico cominciava a mostrare la corda. Il cinema si era già dimostrato nel corso dei decenni l’ideale mezzo per veicolare generi narrativi tipicamente anglosassoni come l’horror o le mille sfumature che sullo schermo potevano assumere i racconti di delitti e misteri – dal giallo al poliziesco al thriller – mentre più specificamente americano era il western, che altro non era se non un’interpretazione in chiave epica della storia degli Stati Uniti.
Forse sarebbe stato preferibile, a pensarci oggi, che gli autori italiani utilizzassero gli spunti propri della nostra cultura e tradizione – come era avvenuto per il peplum, del resto – per poter raccontare storie più leggere rispetto al cinema d’impegno sociale ma con un registro diverso rispetto alla commedia. Invece preferirono la scorciatoia – con una visione delle cose tipicamente italiana, per altro – di appropriarsi dei generi che a livello internazionale funzionavano di più. Nacquero così il Gotico Italiano, gli Spaghetti Western, i Gialli – i thriller all’italiana – e il Poliziottesco: forse non fu un momento nobile e alto, per l’arte cinematografica italiana, certo non meritevole in questo senso come il neorealismo, per fare un esempio, ma si trattò del periodo più fecondo per il cinema di genere dello stivale. In questo senso, considerato che il Gotico Italiano fu l’apripista che traghettò il cinema di cassetta dai temi della nostra cultura del peplum a quelli anglosassoni delle storie del terrore, anche Horror di Alberto De Martino, con la sua cura maniacale nelle ricostruzioni scenografiche, ebbe il suo ruolo. Il cui titolo permette di riflettere anche sullo stratagemma oggi non certo lusinghiero di anglicizzare tutti i nomi nei credits di testa, ingannando di fatto gli spettatori che si trovavano a pensare di essere di fronte ad un puro prodotto british. Fu certamente una scelta deleteria e condannabile, peraltro intrapresa per primo nientemeno che da Riccardo Freda, ma comunque va riconosciuto che permise al nostro cinema di consumo di farsi strada.
Insomma, in un contesto di luci e ombre, Horror diede il suo contributo ad una corrente che oggi è però ricordata con grande favore, e questo è un merito che va messo a referto. E poi, visivamente quello di De Martino si lascia apprezzare anche per alcuni cliché tipici del gotico nostrano. Ad esempio, si vedono con innegabile piacere le sue protagoniste, non solo la Colli ma anche Iràn Eory (è Alice), passeggiare come da protocollo nella notte avvolte in semitrasparenti vestaglie, lungo i corridoi del tenebroso castello, mentre Helga Liné è una versione giovane, bella e sexy della governante di Rebecca – La prima moglie (1940, di Alfred Hitchcock). Da un punto di vista del ritmo del racconto, la musica spinge a cannone all’inizio, sulla carrozza; poi una volta arrivati a castello, le ampie scenografie dilatano la narrazione ma qualcosa accade sempre a spostare il baricentro della situazione. Il che permette di non annoiarsi e questo è già un merito, nonostante non si possa dire che si sia di fronte ad un testo particolarmente avvincente. In ogni caso, alcuni dettagli dell’incastro narrativo – ad esempio la vestaglia che scivola a terra, la coppia di statuette di cui una rotta incidentalmente - non vengono spiegati in qualche opportuno dialogo inserito alla bisogna ma al massimo viene mostrato allo spettatore l’elemento chiave dell’intreccio con zoomate sul dettaglio per concentrarne l’attenzione. Insomma, in Horror abbiamo un modo di raccontare sfruttando le immagini in maniera magari convenzionale, ma accurata. E considerando il modo dozzinale in cui spesso era – ed è clamorosamente ancora oggi - realizzato il cinema di genere italiano per eccellenza, ovvero la commediola più o meno scollacciata, si può comprendere come quello di De Martino sia in realtà un film più che dignitoso.
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