1278_LE FORZE DEL MALE (Force of Evil). Stati Uniti,1948; Regia di Abraham Polonsky.
Dopo aver magistralmente sceneggiato Anima e corpo (1947, regia di Robert Rossen) Abraham Polonsky ottenne l’incarico di realizzare interamente – regia e co-sceneggiatura – Le forze del male. Lo studio di produzione era ancora la Enterprise di John Garfield, eccellente protagonista tanto del citato film di Rossen che di questo di Polonsky. Le forze del male è un capolavoro, non solo esteticamente e tecnicamente, ma anche per la spietata capacità critica; tuttavia l’acume di Polonsky, sostenuto e interpretato sullo schermo da Garfield, costò caro a tutti e due. Le conseguenze di questo lavoro così critico nei confronti del Sistema, non sono dettagli di cronaca: sono esattamente l’oggetto del film in questione, Le forze del male. Forze che, messe sotto accusa, si ribellarono e, attraverso la famigerata Commissione per le Attività Antiamericane, misero fuori gioco per alcuni anni Robert Rossen mentre Polonsky addirittura dovette attendere il 1970 per tornare a dirigere. Tuttavia andò decisamente peggio a Garfield che, già malato di cuore, fu sottoposto ad una tale pressione dalla commissione da perderci la vita. E’ importante, tenere a mente queste conseguenze che un organo ufficiale della Camera degli Stati Uniti mise in campo per contrastare libere espressioni artistiche, diversamente Le forze del male potrebbe sembrare eccessivamente critico nei confronti della società americana. In effetti, pochi film riescono a centrare il bersaglio in modo implacabile come Le forze del male: teso e serrato, soprattutto in avvio, il film di Polonsky non molla mai la presa, sorretto da una sceneggiatura d’acciaio vera cifra stilistica dell’autore. I dialoghi, anche quelli della traccia sentimentale tra Joe (Garfield, naturalmente) e Doris (Beatrice Pearson), sono eccellenti, ironici e intelligenti. Joe è un uomo d’affari mentre Doris è la segretaria di Leo (Thomas Gomez), fratello del protagonista del film: tanto l’uomo al centro del racconto è senza scrupoli, quanto la ragazza sembra una paladina dell’onestà. Nel libro Film Noir 100-All Times favorites di Paul Duncan e Jurgen Muller, [Taschen] Doris è definita efficacemente la nemesi sentimentale di Joe.
La storia è ambientata nel mondo delle lotterie illegali, dove, a fianco di innocui allibratori come Leo, prospera un vero e proprio racket di cui Joe, che pure è avvocato, cura gli interessi di uno dei boss, Tucker (Roy Roberts). Joe, che incarna perfettamente l’uomo d’affari americano – elegante, educato ma anche scaltro e opportunista – cerca in tutti i modi di coinvolgere Leo nel giro che conta, ma questi ha una sorta di codice d’onore deontologico e non vuole truffare i propri clienti. Intendiamoci: anche l’attività di Leo è illegale, che sponde completamente positive il film di Polonsky non ne offre. Neppure Doris, seppure presumibilmente si creda onesta, ha le sue pecche: intanto è la segretaria di un allibratore clandestino, inoltre il fascino che Joe esercita su di lei è strettamente legato al lato oscuro dell’uomo. In effetti, per essere un noir – e considerato uno dei migliori – manca la dark lady: o meglio, una perfetta femme fatale c’è, nientemeno che Marie Windsor in forma smagliante nelle seducenti vesti di Edna Tucker, moglie vagamente insoddisfatta del boss malavitoso. Ma la donna ha un ruolo del tutto marginale, sottolineato anche da una sbrigativa battuta con cui la liquida Joe. A dirla tutta sembra quasi una mancanza di riguardo, da parte del regista: va bene che la Windsor non era ancora un’attrice affermata ma, pur non essendo una bellezza classica, aveva tonnellate di fascino. E creare, con l’iconica immagine di Marie con le gambe quasi accavallate, una femme fatale nuova di zecca per poi relegarla in un ruolo così insignificante è perfino offensivo, verrebbe da pensare.
Invece risponde ad una precisa esigenza più che narrativa, significativa: nello schema tipico del noir, la dark lady era l’elemento che portava l’uomo alla rovina, rappresentando quindi la figura del diavolo tentatore o questo genere di cose. Una lettura individuale, in quanto il noir aveva incarnato i travagli del singolo di fronte ad una serie di difficoltà – la Grande Depressione, la Seconda Guerra Mondiale, la crisi economica. Ma a Polonsky non interessa tanto la visione individuale quanto quella sociale, collettiva: e poi al regista non serve una femme fatale, per corrompere il protagonista, perché lo ritiene già fondamentalmente corrotto. In quanto appassionato di cinema sa perfettamente che la dark lady è un elemento ineludibile del genere noir, e quindi ce la mette, salvo poi non usarla in quanto non la ritiene utile al suo scopo. Le forze del male, come fa notare Martin Scorsese, “non riguarda la corruzione del singolo ma dell’intero Sistema, in una visione al tempo stesso politica ed esistenziale”. Una delle frasi che sembra quasi incarnare lo spirito non tanto del protagonista che la recita, e nemmeno del film ma addirittura degli Stati Uniti d’America, lascia poco spazio all’interpretazione: “cosa significa mafiosi? Sono solo affari”. Un uomo intelligente, brillante ed istruito, non riesce a cogliere la palese scorrettezza di una truffa ai danni degli scommettitori messa in atto dal racket per il quale lavora. Come si vede, Polonsky è davvero scatenato: già le scommesse erano illegali ma oltretutto venivano truccate.
Restando in tema di commenti, la famosa frase di Fritz Lang sui cattivi vs più cattivi della società che divenivano convenzionalmente buoni vs cattivi al cinema, è messa in pratica con tutto lo zelo che Polonsky disponeva. Leo, che nel film ha il ruolo di riferimento morale – avendo pagato gli studi al fratello Joe per farne un avvocato e rifiutando di aderire alle truffe del racket – è un book makers clandestino, non precisamente un professionista in ambito lecito. Ma gli alti papaveri dell’organizzazione mafiosa sono certamente peggio, a cominciare dal fratello avvocato che non palesava alcuno scrupolo legale. Cinicamente, il racket – e Polonsky ancor più cinicamente – ha organizzato una truffa sul numero 776 il giorno del 4 luglio: il 4 luglio 1776 è il giorno dell’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Il regista non vuole equivoci: ad essere messi sotto accusa sono proprio gli Stati Uniti d’America, tant’è che Joe, Tucker e gli altri si muovono tra i lugubri e incombenti palazzi di Wall Street, il vero cuore del paese. A proposito della fotografia, notevole il lavoro del veterano George Barnes, chiamato dal regista a ricreare le atmosfere del pittore Edward Hopper. Il bianco e nero eccezionale è supportato da un montaggio serrato, opera di Arthur Seid, che seguiva la sceneggiatura incalzante; le musiche di David Raksin completano il capolavoro di Polonsky. Un capolavoro che, tardivo ritorno sulle scene troppi anni più tardi a parte, sarà praticamente il suo esordio e il canto del cigno allo stesso tempo. Il Sistema ti sistema, cantavano Il Quartiere Latino, un gruppo rock italiano negli anni 90; e già da più di quarant’anni.
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