1281_LA TRAPPOLA DEGLI INDIANI (Little Big Horn). Stati Uniti,1951; Regia di Charles Marquis Warren.
Alla metà degli anni Quaranta Robert L. Lippert, proprietario di una catena di sale cinematografiche, ebbe la geniale idea di fondare uno studio che andasse a colmare il vuoto che le majors, con le loro mire ambiziose, avevano creato. Dopo una serie di operazioni, la Lippert Pictures raggiunse così un ruolo importante nella produzione di B-movies, ormai snobbati dai grandi studi, tra cui vale la pena ricordare i primi film di Samuel Fuller. Tuttavia in genere quelli dello studio Lippert erano operazioni esplicitamente a basso costo, spesso anche troppo basso. Marie Windsor, a proposito de La trappola degli indiani, disse che ad un certo punto uno dei produttori arrivò sul set annunciando che i soldi erano finiti prima del previsto: le pagine di sceneggiatura non ancora girate vennero stracciate e il film fu montato con il girato fin lì realizzato. Ad onor del vero, questa eventuale mancanza non si nota poi molto, nel film di Charles Marquis Warren che, nel complesso, è più che apprezzabile. Certo, salta all’occhio che proprio il personaggio della Windsor, Celie, scompaia dal film troppo presto, peraltro con una motivazione narrativa innegabilmente plausibile. I suoi due uomini si erano infilati in una missione suicida, pur dal nobile intento, che poi si è rivelata davvero tale e pensare che in quelle pagine ci fosse una fine molto diversa non è che sia poi così semplice. Il film si apre a Fort Lincoln, con Celie che è accompagnata al suo alloggio dal tenente Haywood (John Ireland).
I due non sono marito e moglie e la loro relazione non sembra vista di buon occhio al Forte; men che meno dal marito della donna, il capitano Donlin (Lyon Bridges) che era già stato inopinatamente di ritorno e sorprende moglie e amante in atteggiamento intimo. Un tipico intreccio dei western dell’epoca, anche perché la Windsor, pur non essendo una bellezza classica, non era attrice che si poteva mettere all’angolo. La traccia romantica, che aveva appunto avuto grande rilievo nei western del decennio appena concluso, sembra quindi ergersi a protagonista, con Donlin e Haywood a contendersi la bella Celie. Ma, pur non sapendo se e quanto nelle scelte finali centri il citato taglio di intere pagine di sceneggiatura – e non sembra un caso che a riportarlo sia proprio la Windsor – sta di fatto che la Storia incombe e le vicende private devono essere messe da parte.
Se già Forte Lincoln e il riferimento agli indiani del titolo non vi hanno detto niente l’appellativo originale chiarirà di quale ingombrante argomento stiamo parlando: Little Big Horn. Il colonnello Custer, per una volta, in un film che parla di quella che è nota per essere la più grande disfatta dell’esercito americano sul proprio suolo – i nativi avranno legittimamente di che obiettare sul diritto di proprietà – non è presente direttamente ma è lui l’oggetto della spedizione che vede coinvolto il reparto del capitano Donlin. Con un manipolo di uomini l’ufficiale deve andare ad avvertire Custer che si sta infilando in una trappola; presto lo raggiunge anche Haywood, con l’ordine di rientrare. Custer ormai è già partito ed è praticamente irraggiungibile: ma il capitano non sente ragioni e non intende abbandonare la sua missione anzi, con malcelato sadismo, costringe il tenente a rimanere aggregato a quella che sarà, in modo evidente, un’azione suicida. C’è da raggiungere Custer prima del suo arrivo al fiume Little Big Horn e per farlo non rimane che passare in mezzo ad un territorio sempre più intasato da indiani bellicosi. Pur nella evidente povertà di mezzi, si vedano le scene dei torrenti che sembrano palesi ricostruzioni in studio, Warren fa un ottimo lavoro tratteggiando con rara maestria le varie personalità della truppa. Tra i quali val la pena ricordare Zecca (Wally Cassell), che da comico fifone si trasforma in uomo coraggioso; Arika (Rodd Redwing) lo scout Crow valoroso e leale, che smentisce preventivamente una possibile interpretazione razzista dell’opera; il burbero sergente Grierson (Reed Hadley); il baro DeWalt (Hugh O’Brian) che sorprende tutti con il suo eroismo; Corbo (King Donovan) che durante la missione trova il cadavere della ragazza che attendeva dal Canada, uccisa dagli indiani; il Sergente Veterinario McLoud (John Pickard) che si prende cura dei cavalli; Hofsetter (Gordon Wynn) che, preoccupato per la moglie in cinta, arriva a disertare ma viene salvato dal tenente Haywood, nonostante nel tentativo di fuga perda la vita Harvey (Ted Avery) che voleva tornare al forte per curarsi la dissenteria; il giovane Mason (Richard Sherwood) che si unisce volontario alla missione suicida perché suo padre è con Custer; e il prezioso scout Quince (Sheb Wooley) che, una volta torturato dai Sioux, è pietosamente finito da Zecca; insomma, ogni singolo militare della truppa è tratteggiato con cura e sentimento.
Il film è dominato da una sensazione cupa: da una parte perché è evidente che le speranze di sopravvivenza siano poche, dall’altra perché la motivazione che fornisce il capitano, sacrificarne pochi per salvarne molti, non sembra la vera ragione della missione. O almeno un dubbio rimane sospeso: che peso hanno le vicende private di Donlin? In effetti, potrebbe benissimo essere che, l’ufficiale, perse le speranze con Celie, sia in cerca di un’uscita di scena più gloriosa dal passare per cornuto. La sua condizione di uomo tradito dalla moglie inizialmente lo pone in posizione di favore presso alcuni uomini del reparto; quasi che anche la regia solidarizzi con lui. Questo appoggio viene meno in seguito: Doolin, infatti, quando scorge la possibilità di danneggiare Haywood, sembra proprio che ci si butti a capofitto senza curarsi delle conseguenze che coinvolgeranno altri uomini. Da parte sua il tenente, prima visto con disprezzo dalla truppa, è poi apprezzato per le sue qualità umane. Ma il quesito rimane sempre quello: cosa spinge Donlin, disperata rivalsa nei confronti di Haywood? Oppure è davvero sincero il suo eroico senso del dovere? La morte sul campo di battaglia può bastare a salvarne la memoria? Ma il fatto che sia stato, come prevedibile, un sacrificio inutile – e, cosa molto più grave, non solo il suo – cosa comporta? Domande superflue, essendo una storia di finzione, un western di serie B? Mica tanto, perché sono le stesse che si possono fare a riguardo del colonnello Custer, al netto delle interpretazioni faziose.
Per tanto, ottimo davvero il risultato de La trappola degli indiani. E pazienza per le pagine perse.
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