1240_THE TRIBE (Плем'я / Plem"ja). Ucraina, 2014. Regia di Myroslav Slabošpyc'kyj.
Se siete tra coloro che non si informano eccessivamente prima di decidere di vedere un film, il primo choc The Tribe di Myroslav Slabošpyc'kyj ve lo offre che non si è ancora cominciato. Una didascalia subito all’inizio informa che il lungometraggio, il primo del regista ucraino, è interamente nella lingua dei segni, il linguaggio dei sordomuti. Oltre due ore senza traduzioni, sottotitoli o voce narrante: un paio di personaggi, in determinate situazioni di forte eccitazione, emettono suoni gutturali e poi ci sono i rumori di fondo: tanto vi deve bastare. A meno che non si conosca il citato linguaggio dei segni, si tratta di una vera e propria sfida: e basta questa diversa considerazione, che il regista ucraino dimostra per lo spettatore, a giustificare di accettarla, questa sfida, e continuare la visione. E poi, se alcuni sono costretti ad affrontare l’intera vita senza poter sentire e parlare, sarà interessante provare in minima parte la medesima situazione. Perché muti al cinema lo si è sempre ma nell’universo di The Tribe gli spettatori sono infatti anche sordi. Sarà infatti il pubblico ad essere escluso dal contesto visto che i personaggi si daranno un gran daffare a dialogare tra loro lasciando chi è al di qua dello schermo nella completa incapacità di intendere il loro muto discorrere. E anche questa è un’idea geniale di Slabošpyc'kyj che prima sprona lo spettatore a non essere passivo come ormai di consueto e poi lo pone nella condizione di disagio comune ai protagonisti della storia. L’inizio della visione non è in ogni caso difficile: del resto ci sono numerosissimi esempi di film il cui incipit è senza commenti e un buon quarto d’ora è quindi quasi ordinaria amministrazione.
Abitualmente, in questi film che iniziano con scene senza dialoghi, quando però le informazioni visive si accumulano in modo eccessivo, arrivano le parole a sbrogliare un po’ di quei punti oscuri che, in un testo cinematografico senza alcun commento, inevitabilmente si generano. E’ qui che The Tribe, al contrario, insiste senza alcuna concessione alla parola, scritta o parlata, e fa la differenza. Slabošpyc'kyj procede su un doppio binario: da una parte continua a stordirci con il frenetico affannarsi dei protagonisti in quella lingua dei segni di cui non riusciamo a comprendere il senso. Dall’altra porta avanti una vicenda quasi primitiva e brutale che, nella sua semplicità, rende perciò possibile seguirne le dinamiche. Serhij (Hryhorlj Fesenko) – ma i nomi li apprendiamo dai credits finali, rimanendo i personaggi anonimi per tutto il film – il protagonista, è un sordomuto che arriva in un istituto specializzato, in Ucraina. La struttura, almeno per un cittadino occidentale, può richiamare la comune idea di riformatorio o di una caserma per militari di leva ai tempi del fenomeno del nonnismo se non quella di un vero e proprio carcere. Serhij deve immediatamente subire le angherie di quella che, tra gli ospiti, si è eretta a élite dominante, dalla quale viene ripetutamente bullizzato fino a che non si fa valere con una reazione violenta. Grazie a questa sua capacità di farsi rispettare è accettato nel gruppo dei leaders, gente che spadroneggia sui ragazzi più giovani o deboli dileggiando anche i docenti durante l’orario di lezione in classe. L’istituto prevede infatti ore di istruzione ma il film indaga ben poco in questo senso, concentrandoci piuttosto sul rapporto del protagonista con il gruppo dei bulli.
Mentre procede il suo inserimento nell’élite, Serhij riceve l’incarico di accompagnare due ragazze della scuola al parcheggio dei camionisti, dove le giovani si prostituiscono. E’ un incarico delicato perché oltre alla sicurezza delle ragazze va gestito il denaro che viene raccolto. Serhij, comincia anche bene poi, però, si invaghisce di una delle due, la bella Anja (Jana Novykova), al punto da pagarla per farci del sesso a sua volta. Difficile definire con precisione l’attrazione che il ragazzo prova, mancando ogni riferimento verbale. O forse no. Forse proprio grazie all’essenzialità del racconto di Slabošpyc'kyj possiamo capire come i rapporti sentimentali si basino essenzialmente sull’attrazione fisica. In ogni caso, fosse anche solo mero appetito sessuale, quello che prova Serhij nei confronti di Anja è un sentimento che lo induce a fare qualunque cosa pur di stare con la ragazza. Certo, per farci del sesso, ma non solo. Ed è, in ogni caso, l’unico sentimento umano di marca positiva che vediamo nel film. A meno che non si consideri amicizia la cooperazione tra i membri dell’élite, messa in campo unicamente per dominare la scena.
Per altro anche il sentimento amoroso di Serhij ha dei risvolti negativi, anzi proprio questo sembra essere uno dei temi del racconto. Se la reazione del ragazzo che impedisce ad Anja di continuare a prostituirsi è più che comprensibile – ma gli costa il prestigio presso i leaders faticosamente guadagnato – del tutto condannabili moralmente sono i furti e l’aggressione che si riduce a fare pur di poter pagare la ragazza. La sintesi della questione sembra essere che, in un ambiente fortemente malsano, anche gli impulsi positivi, come l’attrazione sessuale – l’amore? – o la necessità di cooperazione – l’amicizia? – finiscono per evolversi negativamente. L’esempio più clamoroso è legato ad una delle scene più insostenibili del film, forse la più dura – ma in ogni caso non l’unica. Nonostante Anja e Svjetka (Roza Babij) si prostituiscano abitudinariamente è solo dopo il rapporto con Serhij che la più carina delle due rimane incinta. La scena del successivo aborto clandestino è quella durissima citata ed è davvero traumatizzante. Cronologicamente, questo tremendo passaggio fortemente negativo, arriva successivamente due elementi che, almeno al cinema, sono sempre intesi come portatori di speranza: il sentimento dell’amore e il concepimento. Questa la scaletta schematica: Anja e Serhij fanno sesso, forse addirittura l’amore; la ragazza rimane in cinta. Decide di abortire. In condizioni inaccettabili al di là dell’eventuale questione morale.
Ad un certo uno degli istruttori della scuola, tornato evidentemente dall’Italia, organizza un misero ma assai apprezzato banchetto con i prodotti tipici del belpaese. L’Italia ritorna, nel racconto, con un successivo interessante passaggio, dove una sterminata fila di persone sembra in attesa di avere un visto sul passaporto per un viaggio nella penisola. Anja e Svjetka, grazie alla conoscenza giusta, riescono ad avere il visto sul passaporto scavalcando la coda: per le ragazze è un sogno che si avvera. Questo è un momento importante nell’economia del film perché è la molla che fa esplodere definitivamente Serhij che non ne vuole sapere di perdere la sua amata. Narrativamente è un altro dei passaggi tremendi a cui lo spettatore viene sottoposto e suggella il film con un finale tragicamente travolgente. Tornando alla questione delle persone in attesa di un visto per l’Italia, non va sottovalutato un aspetto che lì per lì potrebbe invece passare inosservato. The Tribe mostra l’istituto per sordomuti come una sorta di universo chiuso su sé stesso: un mondo isolato, con le sue leggi e le sue regole, quelle ufficiali e quelle non scritte. Anja e Svjetka con il miraggio dell’Italia, sembra che vogliano evadere dal loro mondo di miseria economica e morale. Ma le due ragazze, in fila coi concittadini in attesa del visto, non sembrano affatto diverse dagli altri. L’Ucraina, in quel momento, ci appare come un enorme istituto per sordomuti, un universo chiuso su sé stesso da cui è urgente scappare prima possibile. Al cospetto col miraggio italiano, sordomuti o meno, gli ucraini sembrano tutti in fuga verso una speranza. Guardando il film dall'Italia, ma probabilmente da un altro paese occidentale non sarà poi così diverso, viene da chiedersi se quelle speranze siano davvero ben riposte.
Jana Novykova
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