1241_IL MARCHIO DELL'ODIO (The Halliday Brand). Stati Uniti, 1957. Regia di Joseph H. Lewis.
Dopo i western dei suoi primi anni da regista, Joseph H. Lewis si era cimentato nuovamente con il genere, senza per altro raggiungere i livelli che aveva toccato coi noir o i crime movie. Con la fine degli anni Cinquanta, Joe La Locomotiva passerà alla televisione, dedicandosi a numerose serie di telefilm ma prima di chiudere con il grande schermo, tra il 1957 e i 1958, l’autore americano avrà modo di rituffarsi ancora un paio di volte nel mondo del far west. Per la verità, già l’anno precedente, il suo 7° Cavalleria non era stato affatto male, ma si era un po’ sgonfiato sul più bello; in compenso il successivo Il marchio dell’odio sarà il suo capolavoro inerente al western. Ecco, forse capolavoro può sembrare un termine un po’ altisonante per un film di soli 79 minuti; non che la durata sia un fattore discriminante per la qualità di un’opera, sia chiaro, però il western è un genere avventuroso e il racconto, per avere importanza, deve avere giocoforza una certa consistenza anche in termini quantitativi. In ogni caso, se il termine ‘capolavoro’ dovesse far storcere il naso, si può senza alcun tema di obiezione affermare che Il marchio dell’odio sia quantomeno un piccolo gioiello. Come detto siamo ancora negli anni Cinquanta, gli anni della golden age del western, eppure Lewis si rende conto che qualcosa non va come la raccontano. E’ curioso, perché nel citato appena precedente 7° Cavalleria il suo intento era sembrato quasi l’opposto, teso cioè a conservare l’aurea mitica che circondava gli eroi del west, in quel caso il colonnello Custer. Al contrario, Il marchio dell’odio mette in forte discussione altre due figure simboliche per eccellenza del far west, lo sceriffo e il cowboy.
E qui comincia il valido lavoro di Lewis, a partire già dalla scelta del cast: ad interpretare Big Dan Halliday, padre padrone della famiglia Halliday nonché di tutta quanta la comunità, è chiamato Ward Bond. Proprietario del ranch più importante e sceriffo, Big Dan è l’autorità economica e politica della zona e detta a tutti la sua legge. Una legge improntata ad un sano pragmatismo più che ad un senso obiettivo di giustizia. Gli va riconosciuto di aver pacificato l’area senza sterminare del tutto gli indiani e accettando alle sue dipendenze meticci ma, ora, secondo questa sua legge, questa gente doveva stare al proprio posto. Un personaggio, quindi, abbastanza particolare che sembrava calzare alla perfezione su alcuni aspetti delle caratteristiche di Ward Bond. Bond era un attore molto attivo e dalla fine degli anni Venti aveva interpretato dozzine di ruoli ma quello che lo aveva reso indimenticabile era, in quel 1957, davvero fresco: l’anno precedente Ward era stato il reverendo e capitano Clayton nel capolavoro fordiano Sentieri Selvaggi. Un ruolo importante che non usciva però dall’ombra del protagonista, John Wayne; era un po’ la cifra attoriale di Bond, un ottimo caratteristica, quasi mai l’interprete principale. E neanche ne Il marchio dell’odio l’attore riesce ad essere il protagonista; anzi, Lewis, con un’intuizione geniale, pur senza snaturarne la cifra interpretativa, ne fa l’antagonista. Quello che spesso abbiamo visto essere il riferimento morale, un po’ burbero, certo, ma proprio per il suo essere un cardine inflessibile, diviene ora il cattivo della storia. Il Male, nel far west, non era legato quindi all’ostilità dei luoghi o dei nativi ma alla prepotenza degli invasori di cui Big Dan Halliday/Ward Bond era uno degli esempi più illustri.
A contendergli la scena Joseph Cotten nel ruolo del figlio di Big Dan, Daniel: Cotten aveva un lato tenero che spesso gli consegnava la parte del buono sebbene fosse un signor attore in grado di interpretare anche il lato oscuro dell’animo umano. In questo caso, Daniel Halliday è certamente un uomo migliore del padre, più aperto alle esigenze del prossimo e con un vero senso di giustizia. Nella storia passerà per fuorilegge, il che è prevedibile visto l’autorità del padre che è anche lo sceriffo, ma anche in assoluto il personaggio subisce un’involuzione morale nel suo accanirsi nella guerra contro il genitore. Chi riesce ad accorgersene è Aleta (Viveca Lindfors) ragazza mezzosangue di cui il giovane è innamorato ricambiato. Il problema è che Big Dan, pur di impedire un matrimonio tra sua figlia Martha (Betsy Blair) e il fratello di Aleta, Jivaro (Christopher Dark), aveva lasciato che quest’ultimo finisse linciato dagli abitanti del paese, nonostante l’accusa verso il meticcio di aver favorito alcuni razziatori non fosse ancora stata provata, oltreché infondata. La situazione era degenerata, visto che, oltre all’astio di Martha, ora Big Dan si trovava a fronteggiare la dura critica di Daniel che non riusciva a tollerare una simile ingiustizia, oltretutto inflitta ad un famigliare dell’amata. Ma il patriarca non accettava di essere messo in nessun modo in discussione: tra padre e figlio si scatenava quindi una guerra totale nella quale a guadagnare qualcosa era Clay (Bill Williams), il minore di casa Halliday.
Il giovane assurgeva ora a vicesceriffo oltre che erede designato e braccio destro del genitore mentre, con il fratello fuori dai giochi, col tempo avrebbe potuto fare un pensierino anche ad Aleta. Questa buona organizzazione narrativa l’apprendiamo in un flashback che comincia poco dopo l’incipit: il film parte quindi subito in quarta, con l’arrivo sulla scena in esterni di quello che vediamo essere lo sceriffo Clay fermato immediatamente al varco. E’ Daniel che fronteggia il fratello, colt in pugno: Joseph H. Lewis era davvero una locomotiva, come recitava il suo vecchio soprannome, perché in pochi minuti sembra già di essere alla resa dei conti.
Ma queste accelerazioni, e i ripetuti scossoni narrativi, non nascondono affatto che qualcosa non gira come dovrebbe. E’ infatti un racconto con troppe note stonate: l’eroe – il personaggio di Joseph Cotten – che si palesa come un volgare bandito, lo sceriffo che è fratello del fuorilegge, un padre morente a cui il nostro non sembra voler concedere nemmeno l’ultimo saluto. Sarà solo il sentir nominare Aleta, peraltro ora promessa sposa a Clay, a far smuovere Daniel: ma si tratta appunto della donna del fratello! Del resto, che si trattava di una faccenda che avesse qualcosa fuori posto lo si poteva capire già dai titoli di testa: nel folgorante bianco su fondo scuro – il film pur essendo un western degli anni Cinquanta non è a colori – le parole sono scritte con un font corsivo salvo la lettera iniziale che è in maiuscolo regolare. La sensazione, benché la grafia sia elegante nel complesso, è fastidiosa, come se qualcosa non fosse al suo posto: a conti fatti proprio quella lettera maiuscola che è l’unica ad ergersi retta. Un po’ come il Daniel de Il marchio dell’odio: l’unica persona retta finisce per passare per fuorilegge. In un film – breve, tra l’altro – l’esauriente spiegazione del genere western. E forse della stessa America.
Dritto sul bersaglio.
Joseph H. Lewis: lo chiamavano Joe la Locomotiva.
Niente da obiettare.
Viveca Lindfors
Betsy Blair
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